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Giulia Addazi e Christian Raimo*

Due contributi d’eccezione per la nostra newsletter

Ogni anno, nel mese di maggio, le scuole d’Italia sono impegnate nelle prove Invalsi, che coinvolgono alunni e studenti della II e V primaria, della III secondaria di primo grado, della II e V secondaria di secondo grado. Le prove dovrebbero valutare le competenze di base in tre ambiti: italiano, matematica, inglese. Ogni anno poi, quando il caldo di luglio comincia a svuotare le città, al ministero vengono presentati i dati. E i giornali hanno già il dito sul bottone rosso, pronti a dare l’allarme. Evidentemente chi lavora dentro Invalsi lo sa, se nella prefazione al report il presidente Roberto Ricci ci tiene a mettere in guardia dalle semplificazioni: «Il quadro sullo stato degli apprendimenti in alcuni ambiti di base che emerge dalle prove Invalsi 2023 è molto complesso, difficilmente sintetizzabile in poche considerazioni, certamente impossibile da ricondurre a una visione semplicistica o riduttiva della nostra scuola» (p. 4).

Ogni docente di secondaria di secondo grado a cui sia toccata la sorveglianza durante le prove sa bene quanto sia difficile convincere ragazzi e ragazze a prenderle seriamente; questo per due motivi principali. Il primo è che, dopo averli educati per anni a impegnarsi solo per il fine del voto, è sempre complicato riorientare, soprattutto in attività sporadiche, la motivazione verso altre tensioni, come ad esempio il senso civico. La seconda è che per l’insegnante è veramente complicato sostenere con credibilità l’importanza di queste prove, facendo leva sul senso di responsabilità verso lo stato, quando lo stato continua a mettere la scuola in fondo alla lista delle priorità di investimento.

Quello che solitamente cerco di dire alle mie classi è che uno strumento di monitoraggio a livello nazionale è utile per orientare le politiche scolastiche di un paese. Spesso, dove mi è stato possibile, ho avviato percorsi di educazione civica in cui analizzavamo i report Invalsi, non solo relativi alle prove. Si rivela una lettura illuminante: vedersi ricollocati in un contesto nazionale dominato dall’ingiustizia sociale fa sentire tutti meno soli/e. Questo è il secondo tema, che purtroppo non occupa mai i titoli dei giornali. C’è una cosa che i risultati delle prove Invalsi ribadiscono ogni anno, e non si tratta della comprensione del testo: la scuola non è un fronte di lotta contro le disuguaglianze, ma la prima linea della riproduzione delle ingiustizie sociali.

Il grande interesse delle rilevazioni, infatti, sta nel poter mettere in relazione gli esiti nelle competenze in italiano, inglese e matematica con altri indicatori socio-economici. Purtroppo si tratta di un rapporto dolorosamente lineare: più sei povero meno opportunità di apprendimento hai. E la scuola, con l’avanzare dei cicli scolastici, non argina il processo. Il risultato è che la forbice si allarga sempre di più. Per non parlare delle intersezioni, i luoghi dove si incontrano l’essere povero/a, l’essere femmina, il vivere al sud o in periferia, l’avere un background migratorio, il frequentare un istituto tecnico o professionale: intersezioni che si allargano fino a diventare veri e propri buchi neri che fagocitano ogni possibilità di accesso all’istruzione.

Dal 2019 la competenza in inglese al termine della secondaria di primo grado è stata costantemente in aumento, con un +6% nell’esercizio di ascolto. Potremmo considerare che i miglioramenti siano collegati a una possibilità comunicativa pressoché illimitata, dovuta alla frequentazione di internet, delle piattaforme social, la visione delle serie tv in lingua originale.

Giulia Addazi. Ha un dottorato in didattica della lingua italiana, insegna italiano e latino alle superiori, si occupa di formazione docenti e fa il monitoraggio didattico del progetto nazionale Base Camp per il contrasto alle disuguaglianze educative


 

L’eccessivo peso attribuito a questo tipo di test genera negli studenti ansia da prestazione e da competizione

La più comune perplessità rispetto alle prove Invalsi è che trasformino la scuola in un grande testificio (nonostante dall’Invalsi insistano perché non si usino i termini test o quiz ma sempre prove), in cui la valutazione sostituisce del tutto la ricerca pedagogica: due critici di rilievo, per esempio, sono stati negli anni il pedagogista Benedetto Vertecchi e il matematico Giorgio Israel, che hanno entrambi lavorato al ministero cercando di ridimensionarne il ruolo e addirittura di cancellarli. Per avere un’idea di questa prospettiva critica, basta sfogliare un paio di testi recenti come La tirannia della valutazione di Angelique del Rey e Valutatemi! di Bénédicte Vidaillet, in cui si sottolinea come l’eccessivo peso attribuito a questo tipo di test generi negli studenti ansia da prestazione e da competizione.

Il rischio che viene paventato è che lo studente sia ridotto a un codice a barre, esaminato, classificato e selezionato: pronto per il mercato dell’istruzione e poi del lavoro. Il valore originario che invece viene rivendicato da chi le elabora è che le prove servono per migliorare la scuola.

L’Invalsi diventa uno strumento dell’istruzione a numero chiuso

Se le intenzioni dell’Invalsi sono palesi, gli aspetti ancora opachi sono diversi. Il primo riguarda l’uso dei dati. In una società che ha sempre più bisogno di valutazioni su larga scala, una così vasta rilevazione è un boccone prelibato per chi – dalle università alle aziende – immagina di fare selezione servendosene. L’Invalsi diventa di fatto uno strumento dell’istruzione a numero chiuso. Questo rischio l’istituto lo riconosce, ed evitarlo negli anni futuri sarà sempre più difficile.

In generale la critica più profonda che tocca le prove è che l’esame che compie l’Invalsi volga lo sguardo al passato per distribuire meriti o colpe, mentre la valutazione dovrebbe analizzare i processi per indirizzare le attività future.

E un forte imbarazzo emerge quando ci si accorge come a scuola una parte sempre più ampia del tempo sia dedicato alla preparazione ai test. Addirittura in libreria il reparto pedagogia è sempre più stretto, a scapito delle pubblicazioni ad hoc, tipo gli Alpha test: un’editoria di allenamento all’Invalsi simile a quella fiorita per i quiz per il numero chiuso universitario.

Il nodo più critico riguarda il rapporto tra la didattica e le prove. Perché, nonostante si faccia tutto per evitarlo, il pericolo di dare così tanto rilievo ai test porta non solo molti professori a impostare la didattica proprio per il teaching to test, ma anche molti libri e manuali scolastici ad ampliare sempre di più lo spazio dato all’allenamento all’Invalsi, in termini di pagine e di ore spese in classe.

 

Christian Raimo. Insegnante, giornalista e scrittore


*Questa pubblicazione è la sintesi di due articoli pubblicati su Internazionale (C. Raimo) e su Domani (G. Addazi). L’autrice e l’autore ci hanno gentilmente concesso l’uso delle loro opere per la pubblicazione nella rubrica “Voci dalla scuola”.

 

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