I profitti di Eni contro la salute e la pace del pianeta

Una riflessione di Andrea Turco alla vigilia dell’assemblea annuale degli azionisti


Come arriva Eni all’assemblea degli azionisti 2024, che si terrà il prossimo 15 maggio? Ancora affamata, dopo i lussuriosi pasti a base di gas degli scorsi anni. La più importante azienda energetica italiana si presenta all’appuntamento annuale con i suoi azionisti col petto in fuori per i lauti bilanci conseguiti negli ultimi anni. Dal 2021 al 2023 Eni ha conseguito utili per una cifra di circa 35 miliardi euro. Si tratta di una cifra mostruosa: per capirci è più di quanto spende lo Stato italiano in un anno per la manovra finanziaria. E la tendenza, seppure al ribasso, è confermata anche dal primo trimestre 2024: in appena tre mesi l’utile netto adjusted (cioè depurato dalle spese straordinarie) è stato di 1,58 miliardi di euro

Il motivo principale, come è ormai noto, è l’aumento dei prezzi del gas sul mercato TTF di Amsterdam (soltanto nel 2022, l’anno principale della crisi energetica, Eni ha conseguito utili per 20,4 miliardi). Non sorprende, dunque, che nel Piano 2024-2027 l’azienda abbia comunicato di voler continuare a estrarre petrolio e gas, a un tasso medio annuo di crescita del 3-4%, spostando il “picco di crescita di un ulteriore anno rispetto al Piano precedente”.

I business del cane a sei zampe, insomma, vanno benone. E l’assemblea di maggio sarà la restituzione di questo periodo favorevole. Che importa se il mese di aprile è stato il più caldo mai registrato a livello globale, superando tutti i dati precedenti? Che importa se aprile è l’undicesimo mese consecutivo in cui si registrano temperature da record? Che importa se le temperature di aprile 2024 sono state di ben 1,58°C più calde rispetto alla media di aprile del periodo pre-industriale, sforando l’obiettivo degli Accordi di Parigi?

L’ultimo rapporto di Copernicus (C3S), il servizio meteorologico dell’Unione europea che analizza dati provenienti da miliardi di misurazioni raccolte da satelliti, navi, aerei e stazioni meteorologiche in tutto il mondo, segnala un trend sempre più allarmante. Mica l’assemblea degli azionisti della più importante azienda fossile italiana, le cui responsabilità sulla crisi climatica sono accertate, può diventare il luogo di confronto per una delle questioni più urgenti del nostro tempo, no? Meglio parlare di affari. D’altra parte è stato lo stesso amministratore delegato Claudio Descalzi a lasciarsi sfuggire una frase rivelatrice, in occasione del Piano 2024-2027. “Riteniamo che la transizione energetica possa essere realizzabile se genera ritorni adeguati e sostenibili, e pone le basi per nuove e profittevoli forme di business. Ed è proprio quello che stiamo facendo” ha detto Descalzi. “Stiamo valorizzando il nostro ampio portafoglio di attività in modo disciplinato, bilanciando gli investimenti con maggiori ritorni per gli azionisti” ha aggiunto successivamente.

Saranno contenti gli azionisti – lo Stato italiano al 32,3% (Ministero dell’Economia e delle Finanze e Cassa Depositi e Prestiti) e i privati per le quote restanti – con una presenza crescente dei fondi azionari. Lo saranno molto meno i territori impattati direttamente dalle attività di Eni e più in generale il pianeta.

Allo scopo di dare voce alle istanze e alle esigenze delle persone e dell’ambiente anche quest’anno A Sud ha presentato, nella solita veste di azionista critico, un lungo e dettagliato elenco di domande sui principali interessi a sei zampe. Per provare a diradare la cortina fumogena del greenwashing di Eni e porre al centro la necessaria riconversione del modello di sviluppo, che metta al centro non più il profitto ma la salute del pianeta.

La guerra del gas

Mentre l’Europa continua a riarmarsi e i conflitti bellici in giro per il mondo continuano a moltiplicarsi, lo scorso dicembre il ministero della Difesa ed Eni hanno siglato a Roma un protocollo d’intesa che, tra le altre cose, “include gli scenari relativi alla protezione delle infrastrutture e i siti di importanza strategica per gli interessi nazionali”. Perché da sempre lo Stato italiano protegge le rotte del petrolio e del gas grazie alle missioni militari all’estero. È quel che ha accertato anche quest’anno il monitoraggio di Greenpeace sugli atti governativi e parlamentari. Secondo i calcoli effettuati dall’ong ambientalista, nel 2024 la spesa italiana per le missioni militari a tutela delle fonti fossili cresce leggermente in termini assoluti rispetto al 2023: da 833 milioni di euro a 840 milioni.

“I casi più eclatanti di missioni fossili – scrive Elena Basso – rimangono l’operazione Gabinia nel Golfo di Guinea, che continua ad avere come primo compito la protezione degli «asset estrattivi di Eni, operando in acque internazionali», oltre a proteggere le petroliere e le altre imbarcazioni dagli attacchi dei pirati, e Mediterraneo Sicuro, che vede confermata l’attività di «sorveglianza e protezione delle piattaforme dell’Eni ubicate nelle acque internazionali prospicienti la costa libica». Nel 2023, segnala la relazione governativa, questa missione ha contribuito anche «alla sicurezza energetica e delle comunicazioni attraverso la protezione di infrastrutture critiche (piattaforme off-shore, oleodotti, gasdotti, condotte dorsali subacquee) di interesse strategico nazionale, anche nella loro dimensione subacquea»”.

Eni d’altra parte è presente in tutte le aree di crisi più preoccupanti: dalla striscia di Gaza, dove ha recentemente ottenuto la licenza di operare all’interno di un’area marittima che sta nelle acque territoriali palestinesi, al Mar Rosso, dove a dicembre una petroliera noleggiata da Eni e diretta a Gela (che conteneva 15mila tonnellate di residui e scarti della lavorazione di oli vegetali) è stata attaccata da parte dei ribelli yemeniti Houthi.

Se è vero che storicamente le guerre sono state spesso mosse per il controllo delle risorse, il Novecento è stato caratterizzato dalle guerre per il petrolio. E questo secolo rischia di diventare, come hanno spiegato i giornalisti Andrea Greco e Giuseppe Oddo nel libro “L’arma del gas” (Feltrinelli), quello delle guerre per il gas. Insomma: una reale riconversione degli interessi fossili di Eni significherebbe, anche, sostenere la pace nel mondo.

Le false soluzioni

In questo scenario si inseriscono le domande di A Sud. Che toccano tanti argomenti, all’insegna delle “false soluzioni”. A due di queste – i biocarburanti e la cattura e lo stoccaggio di carbonio – abbiamo dedicato due dossier, che trovate qui e qui. Come è noto, Eni non solo intende mantenere la rotta fossile ma promette pure di risolvere i problemi da essa creati. Limitandosi a dare nuova forma a vecchi progetti. 

Il caso più eclatante, lo abbiamo visto, è quello del caro e vecchio gas, che nella narrazione di Eni è il supporto principale alla transizione energetica. Narrazione che è la protagonista principale della tesi portata avanti dal governo Meloni di fare dell’Italia un hub del gas. A nostro avviso in questo disegno è cruciale il ruolo della Sicilia, destinata a essere una semplice zona di passaggio. Qui i gasdotti che vedono la partecipazione di Eni sono tre: il Transmed, che dall’Algeria porta il gas a Mazara Del Vallo, il Greenstream, che dalla costa libica di Mellitah approda a Gela, e Argo-Cassiopea, che sarà operativo verosimilmente agli inizi del 2025 nel tratto di costa tra Gela e Licata. Per quel che ne sappiamo, in tutti e tre i casi il gas viene condotto alla rete di distribuzione nazionale gestita da Snam e da lì prende la via del Nord. Non una goccia di gas resta dunque in Sicilia, che al contrario deve affrontare gli impatti ambientali e sociali di queste infrastrutture le quali, tra l’altro, una volta costruite necessitano di un ridottissimo impiego di operai.

Altro perno centrale delle politiche a sei zampe è l’Africa. Se col piano Mattei il governo Meloni intende giocare un ruolo da protagonista, mascherando con i discorsi sulla cooperazione la reale volontà di fare del continente il bacino energetico dell’Italia, in prima fila anche in questo caso c’è Eni. Dal gas ai biocarburanti l’azienda è presente in molti Stati africani, attraverso l’estrazione di valore dalle risorse naturali. 

Nelle nostre domande ci siamo concentrat@ sui biocarburanti e sulle coltivazioni promosse da

Eni in Kenya, grazie all’apporto di Giorgio Vitali, studente del “corso di giornalismo d’inchiesta ambientale” organizzato da A Sud, CDCA – Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali ed EconomiaCircolare.com, in collaborazione con IRPI MEDIA, Fandango e Centro di Giornalismo Permanente.

Tra gli altri temi sollevati ci siamo concentrat@ anche sulla cultura. Troppo spesso si sottovaluta l’influenza che il cane a sei zampe esercita in questo ambito cruciale della democrazia. Eni sponsorizza numerosi eventi e festival di richiamo, da Sanremo alla serie A di calcio maschile, promuovendo un’immagine di sé falsata perché basata sulle società “marginali” come Plenitude o Enilive, il cui scopo reale è quello di attrarre i fondi di sostenibilità ESG. 

Per questo motivo A Sud, EconomiaCircolare.com e CDCA, in collaborazione con Melting Pro, hanno lanciato il progetto Cultura Sostenibile, che vuole ispirare e costruire nel settore culturale una vera e propria leadership creativa e climatica, accompagnando operatrici ed operatori del settore culturale  per agire contro la crisi climatica e ambientale.

Ci sarebbe piaciuto dire questo e molto altro dal vivo, durante l’assemblea degli azionisti che si tiene ogni anno allo storico palazzo dell’Eur di Roma. E invece Eni, così come le altre società partecipate dallo Stato e le banche, continua a chiudere le porte alle voci critiche. Perché il dissenso non è contemplato nelle stanze del potere. Proprio per questo motivo serve una presa di posizione degli azionisti di Eni. Non si può soltanto continuare a incassare lauti dividendi ma serve chiedere con forza un cambiamento netto nelle politiche energetiche e industriali della società. Dopo l’avvio della guerra in Ucraina ltalia e Unione Europea hanno quasi azzerato le importazioni del gas russo. Ma affidandosi a Eni il governo italiano ha semplicemente cambiato fornitore, e non la fonte, di energia. Già adesso il nostro Paese dipende per il 40% dei consumi di gas dall’Algeria, che tra l’altro è retta da un governo che sostiene Vladimir Putin. In appena

due anni l’Italia è stata capace in ogni caso di ridisegnare un nuovo assetto, basato prevalentemente sull’acquisizione di GNL – Gas Naturale Liquefatto, mettendo in campo due rigassificatori, a Piombino e Ravenna, e aumentando, ma non abbastanza, il ricorso alle energie rinnovabili. Un evidente segnale che se c’è la volontà politica si possono attuare trasformazioni radicali. Un messaggio che vale soprattutto per Eni, che possiede anche i mezzi economici per intraprendere una reale riconversione energetica.

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