È tutto ENI quel che luccica?

C’era un’aria quasi di festa alla conferenza stampa convocata in fretta e furia martedì pomeriggio presso il Comune di Gela dopo la notizia della firma del decreto di proroga della Valutazione d’Impatto Ambientale che il ministero dell’Ambiente ha rilasciato a Eni.

“Non un punto d’arrivo, ma di partenza” ha rilanciato il sindaco Lucio Greco, dopo la mobilitazione degli scorsi mesi che ha visto insieme le istituzioni locali, i partiti da Forza Italia al M5s passando per il Pd, i sindacati dei lavoratori e quelli delle imprese. Mancherebbe poco dunque per l’avvio del progetto offshore ibleo, che dovrebbe realizzare a partire dai pozzi marini Argo e Cassiopea una base gas all’interno del perimetro dell’ex raffineria di Gela, ormai in larga parte inutilizzato. E in contemporanea è arrivato l’annuncio di un protocollo d’intesa firmato dal ministro Sergio Costa e dall’amministratore delegato Claudio Descalzi. Nell’accordo Eni “si impegna a realizzare un programma di attività di decarbonizzazione, mitigazione ambientale, riqualificazione e valorizzazione delle aree del sito multisocietario di Gela, non avvalendosi più di impianti di produzione e lavorazione di oli minerali”.
Le due vicende, la proroga Via da una parte e il protocollo d’intesa dall’altra, appaiono strettamente correlate. Di più: sembrano il più classico dei do ut des. Nei mesi scorsi, infatti, Costa era apparso evasivo sul rilascio della proroga della Via, tanto che a novembre nella sua visita in Sicilia aveva visitato i siti Sin di San Filippo di Mela e di Priolo ma non quello di Gela. A fare da ponte tra le richieste locali e quelle del governo è stato il senatore Pietro Lorefice, grillino della prima ora con un passato importante in Legambiente. Proprio lui è stato l’intermediario tra le istanze di risanamento ambientale e le domande occupazionali provenienti dal territorio.

Gli impegni presi dal cane a sei zampe nel protocollo d’intesa sono notevoli, tra i quali vale la pena annoverare: lo smantellamento in dieci anni di tutte le aree in disuso del sito industriale e la loro restituzione a nuove funzioni in un’area totale di oltre venti ettari; la realizzazione di un progetto di decarbonizzazione del sito basato sull’applicazione di tecnologie innovative di proprietà Eni, con gli obiettivi di realizzare un processo integrato di cattura e riutilizzo dell’anidride carbonica e la conseguente riduzione delle emissioni; la rimozione di rottami e manufatti presenti sul fondale lungo il pontile per una fascia di 500 metri per lato; interventi finalizzati alla piantumazione di specifiche specie arboree.

C’è da sperare che il protocollo d’intesa del 10 dicembre 2019 non faccia la fine del suo predecessore del 6 novembre 2014 che doveva sancire la riconversione dell’ex raffineria di Gela e che finora ha fallito in quasi tutti i suoi punti: il progetto offshore ibleo solo ora ottiene la penultima delle autorizzazioni, serve ancora la firma del Ministero dei Beni Culturali, ed è in ritardo di almeno due anni rispetto al cronoprogramma; la bonifica dell’ex discarica di fosfogessi, dall’importo previsto di 200 milioni di euro, non è stata ancora completata; la Green Refinery è stata sì avviata (anche questa in ritardo di due anni) ma è ancora alimentata ad olio di palma invece degli annunciati oli esausti, mentre negli scorsi giorni ha visto anche i primi scioperi dei lavoratori sia per il mancato rinnovo delle commesse sia per la mancata manutenzione e costruzione di nuovi impianti; persino la coltivazione del guayule (la gomma naturale provieniente dall’America Latina) è in dubbio, dopo il periodo di sperimentazione di due anni e una proroga di un altro anno non si hanno più notizie; dei 32 milioni di euro di compensazioni che dovevano servire a rilanciare la città ne sono stati spesi meno di un terzo.

Un po’ di sano scetticismo dunque è lecito. Anche perché la realizzazione della base gas a terra darà certamente un po’ d’ossigeno ai lavoratori, soprattutto metalmeccanici ed edili, ma durerà giusto il tempo della realizzazione della piattaforma. Al massimo due anni, se tutto dovesse andare secondo i piani. E di piani non rispettati la storia del sito industriale di Gela è piena. “L’impianto di trattamento e compressione per la successiva commercializzazione del gas estratto in ambito offshore”, come lo definisce Eni nella sintesi non tecnica relativa agli interventi di ottimizzazione ai campi Argo e Cassiopea, è inoltre incluso – nella parte a terra – in un’area soggetta a vincolo idrogeologico che interessa “un tratto del litorale costiero posto a Est rispetto al centro della città di Gela per una fascia di 150 metri circa dalla riva”, oltre a ricadere in parte nell’area Zps (zone di protezione speciale) della Torre di Manfria e dell’Iba (siti prioritari per l’avifauna) del Biviere e della Piana di Gela. Senza considerare che non risultano calcolate le emissioni climalteranti che la realizzazione della base bas comporterebbe.

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