Siamo stati in Siria pochi giorni prima della guerra
Insieme a Un Ponte Per, A Sud è stata nel Nord Est della Siria per il progetto Health Waste Management in North East Syria: Supporting municipalities and health facilities for a safe and sustainable cycle of waste management.
È stata un’esperienza molto intensa e molto importante: abbiamo provato a portare una serie di indicazioni per la gestione dei rifiuti all’interno di un territorio che sta(va) provando a rinascere, che non si era arreso alle macerie che otto anni di guerra avevano lasciato e che voleva costruire un nuovo modello di società giusta, femminista ed ecologista.
Quello che è successo all’indomani del nostro ritorno da quei territori è Storia: è arrivata la guerra e dove avevamo immaginato impianti di compostaggio e centri di riuso ora ci sono bombe e, di nuovo, macerie.
Raniero Madonna, ingegnere ambientale e attivista della rete campana Stop Biocidio, in questo articolo ci racconta delle sue giornate in Rojava, di tutto quello che avevamo provato a costruire e di quello che ora, di nuovo, sembra più lontano e difficile da raggiungere.
Sono passate quasi due settimane dal mio rientro dal Rojava, la regione curda nel nord est della Siria, dove ho trascorso più di dieci giorni a lavorare come consulente tecnico per la gestione dei rifiuti.
Rimettere al proprio posto tutte le impressioni, le sensazioni, le valutazioni e gli elementi di crescita personale, professionale e politica che porto a casa con me è un lavoro molto difficile, che oggi diventa ancora più complicato mentre davanti ai miei occhi si susseguono le immagini dei bombardamenti turchi e delle incursioni dei terroristi dell’Isis in quegli stessi luoghi che mi hanno ospitato.
Dopo pochi giorni dal mio rientro, infatti, Erdogan ha annunciato l’inizio di una nuova guerra e l’ingresso delle forze militari turche nel Kurdistan siriano.
Dove fino a due settimane fa pensavamo di costruire impianti di compostaggio e per la selezione, il recupero e il riciclo dei materiali, ora sono all’ordine del giorno i bombardamenti e i violenti tentativi di incursioni via terra dell’esercito turco.
E le stesse persone che, in collaborazione con le istituzioni locali e le associazioni ambientaliste, mi avrebbe fatto piacere coinvolgere in campagne di sensibilizzazione sui temi della tutela della salute, dell’ambiente e la riduzione dei rifiuti, ora sono impegnate a difendere la propria vita da un attacco crudele e senza pietà.
Un attacco che non intende fare prigionieri, che mira a spazzare via dalla storia una delle esperienze più avanzate di sempre in termini di democrazia radicale, ecologia, parità di genere e convivenza pacifica tra popoli.
Il viaggio da Napoli
Sono partito da Napoli con la curiosità e l’entusiasmo di un giovane ingegnere per l’ambiente e per il territorio e di un attivista da sempre impegnato contro il biocidio in Terra dei Fuochi, con lo scopo di conoscere da vicino e dare un minuscolo contributo a quella che, negli ultimi anni, risulta essere l’esperienza più rivoluzionaria del pianeta.
Sentivo la necessità di strutturare e organizzare al meglio ogni dettaglio del lavoro che avremmo dovuto affrontare, mantenendo la consapevolezza che quella a cui stavo andando in contro era una realtà troppo importante e più grande di me.
Conoscevo i racconti degli attivisti internazionali che erano stati in Rojava, le storie dei combattenti e di una comunità che sta provando a costruire e sperimentare un modello politico – il confederalismo democratico – alternativo a quelli che stanno distruggendo, in termini ambientali e sociali, il mondo intero.
La sfida del confederalismo democratico è una sfida enorme. Affrontarla con scarsissime risorse economiche e appena usciti dalla guerra richiede tanto coraggio e tanta organizzazione: il ruolo della cooperazione internazionale è fondamentale in questa sfida, considerando che tanti, anche e soprattutto tra i laureati e tra quelli con un livello più alto di istruzione, sono scappati da quei territori durante la guerra.
Il compito assegnatomi era quello di organizzare un training di formazione per istituzioni locali e attivisti relativo alla gestione dei rifiuti, ma sentivo (e sento) che non sarebbe stato utile arrivare in un luogo e pensare di applicarvi uno schema sviluppato in un contesto estremamente diverso in termini economici, geografici, politici e sociali.
Quindi, come organizzare il lavoro? Come avrei supportato un processo talmente potente dall’esterno? Come avrebbe potuto la mia esperienza di attivista e di ingegnere essere utile in questo contesto?
Queste erano le domande che mi ponevo continuamente nei giorni antecedenti la partenza e durante il lungo viaggio che mi ha portato in Rojava.
Lunghissimo davvero, il viaggio.
Da Napoli a Roma, in aereo fino a Istanbul e poi a Erbil, dove abbiamo impiegato una decina d’ore in macchina per attraversare la frontiera sul Tigri e raggiungere la Siria.
La strada che entra nel cuore della Siria è completamente dissestata, e i ritmi di percorrenza ridotti permettono di calarsi lentamente in un territorio che è stato la culla della civiltà e che oggi è completamente distrutto dalla guerra.
La prima cosa che incontri, a cavallo del confine, sono i campi profughi che ospitano le migliaia e migliaia di persone scappate dalla guerra. Subito dopo i pozzi di petrolio, i gruppi di abitazioni tipiche costruite in fango e paglia e gli enormi campi coltivati si alternano in un paesaggio dai colori ipnotici.
L’impatto con la guerra è immediato: all’ingresso e all’uscita di ogni città ci sono i check point della polizia curda che controlla in maniera capillare il territorio ancora abitato dalle cellule dormienti di Daesh, le stesse cellule terroristiche che in estate hanno bruciato i campi coltivati a grano dando un duro colpo al settore agricolo curdo e, di conseguenza, alla ripresa economica della regione dopo il conflitto.
La guerra è anche nella fervente attività di costruzione e ricostruzione (case, strade, scuola) e nei simboli (le foto dei martiri esposte in ogni ufficio, in ogni piazza e all’ingresso di ogni città).
Il confine con la Turchia è lì, a pochi chilometri, e lungo il tragitto spesso si riesce a vedere chiaramente il muro dietro il quale restavano schierati, ormai da settimane, i carrarmati dell’esercito di Erdogan.
Dopo queste quasi dieci ore di auto e il primo di tanti “shaurma” (questo il nome di quello che noi chiameremmo “kebab”) della mia esperienza in Medio Oriente, sono arrivato a destinazione.
E non so se fosse merito del chai che a ogni sosta mi veniva offerto (in un rituale molto simile a quello del caffè napoletano), della gestualità delle persone o della selezione musicale (che mi ha ricordato una nostrana compilation neomelodica) scelta dal driver che mi accompagnava, ma mi sono sentito accolto in un posto amico.
Il Rojava
Il Rojava è una federazione di regioni autonome nel Nord Est della Siria, costituitasi nell’ambito della guerra civile siriana – in diverse forme a partire dal 2012 – e non ancora riconosciuta ufficialmente dal governo centrale siriano. È una Repubblica Parlamentare fondata su principi di convivenza pacifica tra i diversi popoli, etnie e religioni che la abitano e sul decentramento politico-economico.
I racconti degli abitanti della zona restituiscono immediatamente il quadro di cosa era il Rojava prima della guerra civile: una zona di diritti negati in base all’etnia e tenuta costantemente in condizioni di sottosviluppo, dove il governo centrale ha sfruttato a proprio piacimento le risorse petrolifere e imposto la monocultura del grano (tanto da rendere nota la regione come “il granaio di Siria”), mantenendo la regione in condizioni di estrema povertà in modo da forzare l’emigrazione di tantissimi giovani verso le zone ricche di Siria e Turchia e fornire così manodopera a basso costo per lo sviluppo di altre regioni.
Una storia di colonialismo interno che, con i dovuti distinguo, ricorda quella del Sud Italia.
Del resto, da quando il Rojava è governato dall’esperimento confederale e democratico, sta vivendo, per la prima volta, un momento di autodeterminazione e sviluppo reale.
Oggi, nel Kurdistan siriano, si ragiona (o almeno era così fino a prima dell’ultima invasione da parte del governo Turco) di modelli di agricoltura sostenibile, di utilizzo democratico delle fonti fossili e di produzione energetica da fonti alternative (a partire dal solare), di tutela del territorio e della salute, di gestione sostenibile dei rifiuti, di piantumazione di alberi per l’assorbimento di parte delle emissioni legate allo sfruttamento delle fonti fossili.
La produzione è organizzata in forma cooperativa. Ne ho avuto un esempio durante i pranzi del nostro training, preparati da donne che si occupano di agricoltura e trasformazione.
L’esperienza delle cooperative dà lavoro a migliaia di donne, che attraverso l’indipendenza economica possono finalmente liberarsi da vincoli familiari, matrimoniali e sociali di tipo patriarcale.
Sono inoltre tantissimi i cantieri aperti per la costruzione di case, strade, ospedali, scuole. Tutti danno il loro contributo, compresi tanti giovani fuggiti via in passato e poi tornati a guerra (purtroppo solo apparentemente) finita.
Sono stato profondamente colpito dalla forza e la determinazione di un popolo che pretende di riscattarsi, che vuole ricostruire in tutti i sensi il proprio paese, rispettandone tutti gli abitanti e l’ambiente.
Porterò sempre con me i sorrisi e la gentilezza degli uomini e delle donne che oggi trovano il modo di vivere e convivere in maniera pacifica in quel territorio di perenni conflitti. E sento che mi risulta impossibile trasmetterne la potenza straordinaria nelle poche righe di un articolo.
Il sistema dei rifiuti e la guerra
Nella fase preliminare del mio lavoro ho avuto l’opportunità di incontrare molti rappresentanti delle amministrazioni locali e i lavoratori del settore dei rifiuti, quasi tutti giovanissimi e orgogliosi di contribuire, seppure in piccolo, allo sviluppo del loro paese. In tutte le municipalità, la stanza dei co-presidenti – rigorosamente un uomo e una donna – è quella all’ingresso del palazzo ed è sempre aperta a tutti i cittadini che si rivolgono alle istituzioni in maniera diretta per la risoluzione dei problemi e per un contributo alle decisioni.
I primi giorni di incontri e di visite sul campo sono serviti a rendermi conto di quello che era il sistema dei rifiuti nella regione.
Insieme ai lavoratori e ai responsabili dei dipartimenti ambiente delle municipalità e dei cantoni ho visitato gli “impianti” per la gestione dei rifiuti. Il sistema di raccolta e smaltimento è purtroppo ancora quello ereditato dal regime: i rifiuti vengono accumulati e dati alle fiamme a cielo aperto. E per un attivista della Terra dei Fuochi è uno scenario tanto conosciuto quanto sconcertante.
Paradossalmente oggi, per le istituzioni locali e per la società civile, riuscire a raccogliere e portare fuori dalle città i rifiuti da bruciare è già un gran risultato.
Se infatti le modalità di smaltimento sono molto simili a quelle che conosciamo bene noi campani, gli attori e le condizioni al contorno risultano diametralmente opposte.
In Italia, mafie e imprenditoria deviata decidono di far ricadere i costi ambientali della produzione economica sulla popolazione con la complicità delle istituzioni; in Rojava si vive invece l’urgenza di individuare soluzioni alternative e a tutela della salute e dell’ambiente nel più breve tempo possibile.
Risorse economiche e tecnologiche e volontà politica sono elementi fondamentali per una corretta gestione delle risorse naturali e dei rifiuti: mentre da noi le risorse vengono sperperate e drenate verso i conti in banca delle mafie per un chiaro indirizzo politico e logistico, in Kurdistan la politica si mette al servizio dei cittadini per cercare insieme a loro il modo di sopperire alle difficoltà legate alla scarsità di risorse.
Questa riflessione mi ha fatto sentire ancor più di essere nel posto giusto, di star dando un piccolo contributo a qualcosa per cui davvero valga la pena rischiare e lottare, nonostante enormi risultino i problemi e la forza dei nemici. La situazione ambientale è sicuramente devastante, ma sono incredibili l’energia e la voglia che le istituzioni e i cittadini mettono nella realizzazione di una società ecologista e sostenibile, nonostante la guerra pesi come un macigno.
Non si può infatti guardare alla gestione delle risorse naturali e dei rifiuti e alla tutela dell’ambiente senza tener conto degli effetti della guerra: basti pensare che i terroristi di Daesh hanno avvelenato i pozzi acquiferi prima di scappare e che la Turchia, attraverso un sistema di dighe, gestisce i flussi di acqua dolce a monte del Rojava, costringendo così ad importare acqua per quasi tutto il fabbisogno potabile della popolazione. Acqua che attraversa il confine accompagnata da un quantitativo esorbitante di plastica che diventa immediatamente rifiuto.
Lo stesso vale per la fornitura di energia: spesso la rete di distribuzione elettrica non fornisce energia a sufficienza, rendendo necessario l’utilizzo massiccio di generatori di corrente a benzina i cui fumi rendono l’aria irrespirabile in molte zone.
La combustione dei rifiuti e l’utilizzo dei generatori stanno facendo aumentare vertiginosamente i tassi di mortalità per tumore in tutta la regione. È prima di tutto per questo che la “self-administration”, insieme alla società civile, si è data come obiettivo prioritario quello di costruire un modello di gestione dei rifiuti e dell’energia che sia sostenibile dal punto di vista sociale ed ambientale.
È banale comprendere quanto, in questo contesto in cui la produzione avviene altrove e la maggior parte dei beni di consumo è importata, e la popolazione non è in grado di sostenere una tassa sui rifiuti, sia difficile attuare strategie di prevenzione verso rifiuti zero.
Il training
Il progetto in cui ho lavorato è stato pensato come un primo passo per l’individuazione degli obiettivi a breve, medio e lungo termine per la gestione dei rifiuti urbani e speciali.
Gli incontri erano ospitati nell’Accademia di Qamishlo, uno dei luoghi di confronto politico democratico e di formazione scientifica.
Qui ogni dettaglio (le indicazioni, le foto delle montagne, quelle dei martiri, le pareti stesse) trasmettono la forza e l’impegno collettivo di un popolo che vuole riscattarsi e autodeterminarsi dopo secoli di persecuzione e sfruttamento.
È proprio in Accademia che ho incontrato i co-presidenti dei dipartimenti ambiente regionali, provinciali e cittadini: uomini e donne libere, che con un solo sguardo trasmettono la necessità di combattere con tutte le armi necessarie per la costruzione di un modello di convivenza giusto e sostenibile.
Ho avuto modo di raccontare loro del biocidio campano – di come in Terra dei Fuochi camorra, Stato corrotto e imprenditoria deviata abbiano messo su un ciclo parallelo e criminale dei rifiuti – e degli impatti devastanti sulla salute della popolazione degli interramenti e dei roghi tossici.
Credo sia servito. Non mi aspettavo che la nostra storia potesse colpire così tanto un popolo in guerra ma, probabilmente, a guardare dall’esterno, è molto semplice capire che la guerra l’abbiamo anche noi in casa, con attori e metodi diversi, certo, ma con una simile dinamica di sfruttamento del territorio e di messa a repentaglio della vita.
Con gli amministratori e gli attivisti presenti (e i traduttori, senza di loro non saremmo mai riusciti a comunicare!) abbiamo analizzato i problemi del sistema rifiuti regionale, abbiamo discusso degli elementi base del ciclo integrato dei rifiuti e delle alternative per la raccolta, il trasporto e il trattamento.
Fianco a fianco, cittadini e istituzioni hanno costruito la loro visione della gestione dei rifiuti, individuando le priorità per la tutela della salute e dell’ambiente.
Abbiamo parlato di “Gemar 0” – così abbiamo tradotto in curdo l’espressione “Zero Waste”- riconoscendo le difficoltà di implementare un sistema di prevenzione dei rifiuti efficace senza poter controllare la produzione dei beni di consumo e senza risorse finanziarie.
Affrontando il tema dell’enorme problema legato alla quantità di plastica da smaltire, abbiamo discusso di riuso, riciclo e recupero della materia. Abbiamo “scoperto”, con grande sorpresa generale, che esistono già in Rojava dei centri per il recupero delle plastiche: piccoli impianti dove alcuni polimeri plastici sono trattati e avviati al riciclo.
Nella road map stilata alla fine del training abbiamo individuato obiettivi e step da seguire: sensibilizzazione, implementazione della raccolta differenziata, impianti di compostaggio di comunità per la gestione della frazione umida, miglioramento e potenziamento degli impianti per il riciclo delle plastiche e implementazione della filiera del riciclo degli altri materiali.
Nell’ultimo incontro ogni partecipante ha sviluppato la propria vision per poi metterla a confronto e sviluppare un dibattito collettivamente: gli elementi necessari e propedeutici emersi in maniera più forte e ricorrente sono stati quelli della giustizia ambientale e della pace.
Pochi giorni dopo, è tornata la guerra: clamorosa e imponente, ingiusta perché verso chi il terrorismo l’ha sconfitto e ora provava a costruire una nuova normalità; frustrante perché stavamo realizzando, in mezzo alla polvere e alle macerie, quello che a casa nostra spesso ci è impedito per gli interessi di lobby e mafie; insensata perché rivolta al popolo che sta provando realmente, ogni giorno, a essere la nuova umanità di cui quelle terre e questo Pianeta hanno bisogno.
Non è finita qui
In Rojava un popolo straordinario sta provando a realizzare una società giusta, femminista ed ecologista, coinvolgendo tutte le minoranze etniche, religiose e di genere nella gestione della cosa pubblica.
È un esperimento meraviglioso che sta affrontando le difficoltà materiali di ricostruire un mondo diverso con ancora fresche le cicatrici della guerra.
Il popolo curdo dovrebbe avere la possibilità di concentrare le proprie energie in questa direzione dopo aver sconfitto l’Isis, la compagine terroristica più pericolosa del pianeta, invece di doversi continuamente difendere dalle minacce turche, nel colpevole silenzio e nella complicità delle altre forze internazionali.
Oggi, da lontano, sono (siamo!) al vostro fianco, sicuri che gli obiettivi individuati, anche per la gestione dei rifiuti, siano solo rimandati a quando la minaccia dell’invasione turca e dei terroristi di Daesh saranno solo un vecchio ricordo.
Non basterà il secondo esercito più forte della Nato per cancellare la forza di questa Rivoluzione.
Ci rivediamo presto.
#StandUp4Rojava #BijiKurdistan