Siamo in un mare di… plastica!
“Beat Plastic Pollution. If you can’t reuse it, refuse it”, che in italiano suona “Sconfiggi l’inquinamento da plastica. Se non puoi riusarla, rifiutala”, è lo slogan scelto quest’anno dalle Nazioni Unite per la Giornata mondiale dell’ambiente, celebrata il 5 giugno.
Il filo conduttore delle tante iniziative in programma è la lotta alla plastica monouso con l’obiettivo di sensibilizzare i governi, le aziende e (non da ultimo) i cittadini nella ricerca di soluzioni alternative alla plastica monouso, per ridurne non solo il consumo ma in primis la produzione.
Tra bottiglie, bicchieri, posate, cosmetici, vestiti (tanto per citare solo alcuni degli oggetti più comuni), siamo arrivati a produrre 20 volte più plastica rispetto agli anni ’70 (un terzo della quale solo di imballaggi). Di questo passo entro il 2050 in mare ci sarà più plastica che pesce (Fondazione Ellen MacArthur 2016). Sì, perché il mare e gli oceani sono i primi ad essere soffocati dai rifiuti plastici. La conferma arriva anche dai dati dell’UNEP, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, secondo i quali: ogni anno si utilizzano 500 miliardi di buste di plastica, 8 milioni di tonnellate di rifiuti plastici arrivano nei mari e negli oceani, ogni minuto siamo impegnati nell’acquisto di circa un milione di bottiglie di plastica (equivalente al 10% di tutti i rifiuti prodotti). Gli oggetti di plastica trovano ampio spazio nella nostra quotidianità per i vantaggi che offrono in termini di costo, praticità e resistenza. Vengono però trascurati tutti gli svantaggi legati alle tecniche di produzione utilizzate (in molti casi altamente inquinanti), ai danni provocati quando (molte volte utilizzati una sola volta) vengono dispersi nell’ambiente, o ancora quando non sono riciclati o smaltiti adeguatamente. Nel vortice di quel circolo vizioso che è il consumismo, dell’usa e getta, del comodo ma inutile, di processi di produzione che non considerano il peso che la produzione ha in termini ambientali e sociali, siamo arrivati a creare delle vere discariche di plastica in mare anche in luoghi paradisiaci. Pensiamo alla Great Pacific Garbage Patch o a Thilafushi (l’isola di plastica delle Maldive). Si tratta in sostanza di enormi accumuli di rifiuti galleggianti portati e mantenuti lì dalle correnti oceaniche. Un problema che, secondo il rapporto di Greenpeace “Un mediterraneo pieno di plastica”, riguarda anche il mar Mediterraneo a causa della densità di popolazione lungo le coste, del turismo poco sostenibile, del traffico marittimo commerciale.
I costi sull’ambiente sono notevoli in termini di inquinamento (di aria, suolo, fiumi, laghi, oceani) e di sfruttamento delle risorse, nonché delle sfide ambientali che ne conseguono: distruzione degli habitat naturali, dei servizi ecosistemici, della flora e della fauna, aumento della CO2. Il tutto inserito nella più ampia cornice del cambiamento climatico già in atto. Negli ultimi decenni il comune denominatore di tutte le sfide ambientali e climatiche, sempre più complesse e interconnesse, è sicuramente il modello economico che l’occidente ha costruito a vantaggio della crescita illimitata, che fa sempre più pressione sull’ambiente e sui limiti ecologici della Terra, fattori che dovranno fare i conti entro il 2050 con una popolazione di 9 miliardi di persone.
Una questione anche di ingiustizia ambientale e sociale
Stiamo parlando di un’emergenza mondiale che insieme all’ambiente riguarda inevitabilmente anche la nostra vita, anche se con diversi pesi e misure. Il benessere che questo modello di sviluppo produce non è per tutti, così come i costi pagati in termini ambientali, sociali e di violazione dei diritti non sono equamente distribuiti, anzi, le diseguaglianze su scala globale sono spaventose e in continua crescita, principalmente nei Paesi in via di sviluppo ma oggi possiamo dire anche nei cosiddetti Paesi industrializzati. In particolare nel Sud del mondo, milioni di persone sono già costrette ad abbandonare le proprie terre a causa degli stress ambientali. Sono i profughi ambientali, che però vengono considerati alla stregua dei migranti economici. Eppure queste persone scappano non per cercare l’El Dorado ma perché costretti da conflitti per l’accaparramento e la gestione delle risorse naturali, dalla desertificazione, dall’innalzamento del livello dei mari, dal collasso delle economie di sussistenza per la distruzione dei servizi ecosistemici per colpa di calamità (in apparenza) naturali o per le attività antropiche: land grabbing, water grabbing, deforestazione, costruzione di dighe, inquinamento ambientale, smaltimento intensivo di rifiuti tossici, di apparecchiature elettriche ed elettroniche (i cosiddetti RAEE), ecc. La migrazione è legata – come deducibile – a una serie di fattori e caratteristiche personali e territoriali, che richiamano i concetti di vulnerabilità, resilienza e prevenzione del rischio. Tre elementi che danno la chiave anche per valutare le differenze tra quanto succede nel Nord del mondo, dotato certamente di maggiori strumenti per attuare strategie di adattamento al degrado ambientale e al cambiamento climatico, rispetto al Sud più povero e vulnerabile.
In che direzione stiamo andando per rifiutare la plastica
È certamente necessario promuovere un cambiamento radicale del sistema di sfruttamento delle risorse e delle persone, dei cicli di produzione e delle nostre abitudini di consumo. La responsabilità di questa emergenza è certamente corale. Entra in gioco così la responsabilità del cittadino che acquista e utilizza i prodotti, ma ancor prima quella delle grandi aziende e di chi, come gli Stati, può porre dei vincoli stringenti in materia. Al riguardo già da qualche anno l’Unione europea, nell’ottica di coniugare salvaguardia dell’ambiente, tutela della salute ed esigenze del settore produttivo, si sta adoperando per applicare la regola delle 4R: riduzione, riutilizzo, riciclo, recupero. Dall’inizio del 2018 tutte le iniziative messe in campo si inseriscono nella strategia europea per ridurre l’uso di plastica nella prospettiva di una transizione verso un modello di economia circolare, ossia un nuovo modo di pensare i prodotti e processi di produzione: più virtuosi, poco impattanti, equi e con un forte valore sociale e territoriale. Una scelta ritenuta cruciale anche per contribuire al raggiungimento degli obiettivi assunti nell’ambito della COP di Parigi per contrastare i cambiamenti climatici. Per sostenere gli sforzi di istituzioni, imprese e consumatori sono state messe in campo sia le risorse dei Fondi strutturali che del Programma Horizon 2020.
Inoltre, è proprio di questi giorni la proposta dell’Unione Europea della messa al bando di 10 prodotti di plastica monouso (come cannucce, cotton fioc, piatti) e degli attrezzi da pesca in plastica, che complessivamente rappresentano il 70% dei rifiuti marini nel vecchio continente. L’obiettivo è di trarre benefici ambientali ed economici quantificabili in: calo delle emissioni di 3,4 milioni di tonnellate di CO2; riduzione dei danni ambientali per 22 miliardi di euro entro il 2030; risparmi per i consumatori di 6,5 miliardi di euro. Istruzioni per porre fine all’inquinamento da plastica, nello specifico negli oceani, arrivano anche a livello internazionale con la risoluzione di Nairobi (UNEP 2017), che però resta blanda in quanto pone termini non vincolanti. Gli Stati sono incoraggiati ad agire per prevenire la produzione e dispersione di rifiuti marini e microplastiche, in particolare delle attività a terra, bonificare le spiagge e avviare una transizione verso un modello di economia circolare. Inoltre, studi di monitoraggio delle plastiche, campagne di sensibilizzazione (come CleanSeas delle Nazioni Unite), progetti che arrivano da associazioni, imprese e cittadini (come l’idea del giovane Boyan Slat di sviluppare un’enorme barriera che sfrutta le correnti per intercettare oggetti e frammenti di plastica con l’iniziativa Ocean Cleanup) sono sicuramente necessari, vanno però sostenuti da strategie (anche sul lungo termine), direttive europee o azioni messe in campo dagli Stati. Un ruolo centrale è giocato anche dalla condivisione di buone pratiche per innescare processi di consapevolezza, favorire lo scambio di esperienze e sostenere modelli economici fondati su principi di sostenibilità e circolarità.
Un progetto che si è posto questo obiettivo è l’Atlante Italiano dell’Economia Circolare, di cui A Sud è partner. A fronte di quanto detto, sicuramente la strada da percorrere per uscire da questo mare di plastica è ancora tutta in salita in quanto cozza troppo spesso con gli interessi economici delle lobby industriali, che non vedono di buon occhio controlli e indicazioni più stringenti, così come con la difficoltà di far adottare comportamenti responsabili ai cittadini. In conclusione però è proprio il caso di dire che nell’epoca dell’usa e getta è necessario pensare circolare ed è fondamentale farlo a più livelli e raccogliendo quel messaggio nella bottiglia che giunge dal mare (in questo caso però spogliato del suo fascino eterno) con il sapore amaro di una richiesta di aiuto che arriva dall’ambiente e dall’uomo che di questo passo rischia solo di naufragare.