Scuola: una nuova stagione di occupazioni.
Su scala nazionale, le occupazioni si inseriscono nel quadro più ampio delle mobilitazioni contro la guerra a Gaza e l’occupazione israeliana della Cisgiordania, in particolare con lo sciopero generale del 22 settembre 2025 e la manifestazione del 4 ottobre, ma anche con la miriade di azioni diffuse in tutto il Paese, dal porto di Genova, alle partenze della Flotilla dalla Sicilia, ai presìdi permanenti in molte piazze italiane. In tutto questo la scuola è diventata (di nuovo) uno spazio di confronto politico, di riflessione e di interconnessione con i grandi temi globali. La scuola, che è spesso trattata come “luogo neutro” della formazione, è quindi di nuovo teatro di conflitto politico. Studentesse e studenti che occupano non lo fanno per “bloccare le lezioni” ma per chiedere che la scuola svolga un ruolo diverso: un luogo in cui realtà sociale, cronaca nazionale, internazionale e solidarietà siano centrali e non marginali all’interno degli istituti. Le mobilitazioni studentesche, infatti, richiamano a un tema troppo spesso marginale nella narrazione scolastica e mediatica: i costi reali della guerra — umani, ambientali, sociali — e il collegamento tra locale (la scuola, la classe) e globale (il conflitto, la distruzione, la solidarietà internazionale).
La guerra a Gaza comporta (ancora) vittime civili, distruzione di infrastrutture sanitarie e scolastiche, traumi generazionali, impatto ambientale e violazioni dei diritti umani. Quando studentesse e studenti dicono che “la scuola non può essere neutra”, mettono al centro la dimensione etica e la vulnerabilità umana. In questo senso, le occupazioni ci ricordano che la scuola è anche formazione alla cittadinanza, non solo trasmissione di contenuti. Attraverso le occupazioni si richiama anche l’idea che la distruzione bellica è – alla fine – distruzione di luoghi di vita, di apprendimento, di ecosistemi, di comunità. Il fatto che gli/le student* scelgano di occupare la scuola diventa metafora di una resistenza alla logica della distruzione.
Silenzio pubblico e narrazione dominante: eppure — e qui sta la contraddizione — molto del dibattito rimane focalizzato sui “danni”, sulle “occupazioni illegali”, sulla interruzione delle lezioni, mentre poco spazio viene dato alla riflessione sui motivi più vasti della protesta, sui costi bellici, sulla solidarietà internazionale. In particolare, il Ministro Valditara, ha chiarito che “chi rompe paga” e che le scuole devono identificare i responsabili delle occupazioni, chiedere risarcimenti, e che lo Stato (tramite il ministero) è pronto a costituirsi parte civile nei procedimenti penali. Le occupazioni quindi rischiano di essere ridotte esclusivamente a episodi disciplinari o vandalici, anziché atti politici.
Per chi lavora nella scuola — insegnanti, dirigenti, personale ATA — questa stagione pone delle sfide concrete e alcune opportunità di riflessione:
Se studentesse e studenti occupano per ragioni politiche, la scuola dovrà interrogarsi su come rispondere con strumenti formativi, di confronto, di mediazione — non solo con sanzioni. L’occupazione può essere letta come indicatore: “C’è una domanda”, “c’è un conflitto”, “c’è un silenzio dentro la scuola”.
Le richieste di risarcimento dei danni e la pressione sulla continuità didattica sono reali. È compito della scuola, del/della dirigente, del consiglio di istituto, considerare come prevenire, gestire e ridurre questi danni e aumentare gli spazi di dialogo.
Il principio “chi rompe paga” pone una questione di responsabilizzazione, ma va declinato con attenzione alla dimensione educativa: studenti minorenni, famiglie, contesti socioeconomici. La responsabilizzazione non può diventare solo colpevolizzazione.
Le occupazioni «per Gaza» ricordano che la scuola è parte di un mondo globale e che la pace, l’ambiente, la solidarietà e la giustizia non sono temi opzionali. Integrare nella didattica riflessioni su guerra, pace, ambiente, conflitto, aiuta a far diventare la scuola un laboratorio di cittadinanza attiva.