Gela la riconosci sempre, da qualsiasi punto la osservi. Siamo a Niscemi affacciati dal belvedere, guardando la luce delle stelle proiettate sul buio del territorio circostante, ma una fiammella, in lontananza, coglie la mia attenzione. La stessa luce scostante dalle sfumature gialle, arancioni e rosse, continua a catturare il mio sguardo lungo la strada del ritorno che ci conduce a Gela. Un punto di riferimento se ti perdi. Un traguardo da raggiungere. Una costante presenza. Una luce calda che illumina le notti gelesi (e a volte anche le giornate), identificando la città. “È la torcia di scarico della raffineria”, mi spiega la mia guida, distogliendo un attimo gli occhi dalla strada mentre guida, guardandomi osservare autisticamente quella fiammella colorata.
Torcia di scarico: come una definizione può non rendere giustizia all’immagine che si osserva. Di fatto quello che stavo guardando quella sera – e man mano che ci avvicinivamo aggiungevo contorni e forme – era un fuoco vivo che fuoriusciva da una cappa. Come la fiammata di un accendino continuativamente sfregato, così maestosa da essere visibile dal belvedere di una cittadina a 20 chilometri da Gela. Durante il toxic tour che Andrea* mi farà fare il giorno dopo, mi spiegherà che quel mostro mangia fuoco di solito sputa le sostanze più tossiche e si attiva quando gli impianti si bloccano, di solito per sovraccarico.

È iniziato così il mio viaggio a Gela, in una tra le più impopolari mete turistiche estive.

Ci vogliono almeno 2 – 3 ore se vogliamo vedere tutto, mi dice Andrea. Conosce da tempo a memoria il tour della contaminazione della città. Percorriamo il lungomare e mentre sulla destra bagnanti rumorosi assaporano il sapore dell’acqua salata, sullo sfondo la stessa fiaccola della sera precedente sfiamma un fuoco caldo.

Siamo già in raffineria, mi dice subito dopo, mentre percorriamo la strada che ci conduce all’impianto industriale. Mi fa sorridere l’espressione, come se un impianto potesse dare un nome a un intero quartiere e non identificare semplicemente una struttura. E forse è un po’ così visto che tecnicamente non siamo dentro la raffineria eppure il campo visivo è ingombrato da elementi che riconducono alla presenza industriale: torri, tubature, trivelle. Siamo in raffineria senza esserne dentro.

Arriviamo finalmente all’ingresso principale, scendiamo, e subito gli occhi della vigilanza si rivolgono a me che, con una risata sommessa, sto fotografando il cartello sopra un cestino per i rifiuti lì davanti: Raffineria di Gela Mantieni Pulito l’Ambiente. La mancata punteggiatura lascia spazio all’immaginazione: è un monito rivolto a essi stessi o è davvero un messaggio per far in modo che le persone centrino correttamente il cestino? Idrocarburi Policiclici Aromatici, canestro!
Andiamocene dai, prima che ci seguano, che non voglio rogne oggi mi intima Andrea. Mi rimetto in macchina. La raffineria è ufficialmente chiusa dal 2014 eppure il polo produttivo è in parte attivo sebbene l’auspicata riconversione in green refinery sia ancora un miraggio. I lavori dovevano concludersi nel 2017 ma quel timing è stato sforato, così come quello di giugno 2019 annunciato durante l’assemblea degli azionisti Eni di quest’anno. Ad oggi non c’è nessuna nuova data da poter trasgredire, secondo fonti Eni infatti a giugno sono state avviate solo le prime attività produttive (in realtà solo il piccolo impianto Steam Reforming, alimentato a idrogeno). Non si conosce inoltre il destino degli impianti dismessi, né quello dei lavoratori che gravitano attorno all’impianto industriale. Per il momento, ci sono solo parcheggi semivuoti, vigilanza accorta e odori acri.

Ora andiamo al greenstream, se ci fermano diciamo che stiamo andando alla spiaggia nudisti precisa la mia guida. Il greenstream, contrariamente a quanto evoca la parola, è un insieme di tubi grigi contenenti gas che dalla Libia arriva a Gela per poi collegarsi alla rete nazionale Snam a Enna. Il greenstream, meglio, è la roccaforte ENI. Se vai a guardare i bilanci è l’unica voce in attivo tra le proprietà del cane a sei zampe a Gela. Non è un caso che una delle proteste dei lavoratori più rilevanti è avvenuta proprio lì davanti e il timore che bloccassero l’impianto era tale che è arrivata l’antisommossa.

In realtà all’ingresso del greenstream noi non ci siamo proprio arrivati: percorsa la stradina secondaria che ci avrebbe dovuto condurre a destinazione, il cartello proprietà privata ci ha impedito di proseguire. Giusto il tempo di rendercene conto e fare inversione, che la macchina della vigilanza accende i motori e inizia a seguirci. Ci raggiunge, ci accostiamo. “Che fate qua? Non avete visto che è proprietà privata?” ci domanda un uomo muscoloso con gli occhiali a specchio. “Si, si, stiamo andando via. Piuttosto, ci sa dire dov’è la spiaggia nudisti? Cercavamo quella.” Il mr muscolo del cane a sei zampe rimane perplesso. “Mi pare che sia in quella direzione” ci dice addolcendo la voce. Effettivamente sembriamo più due innamorati che due curiosi, ma non si sa mai. Prendiamo la strada indicata dalla vigilanza e dopo aver dribblato lastre di amianto e rifiuti sparsi, e superato una discarica, arriviamo al bivio con l’indicazione “spiaggia naturista”.

Ci incamminiamo e ci troviamo di fronte a un quadro surrealista.

Di fronte a noi, il mare. La spiaggia non c’è, ci troviamo su una collinetta scoscesa che non ci permette di raggiungere il bagnasciuga. In mezzo al mare la piattaforma Gela 1, la più antica piattaforma petrolifera d’Italia. Sulla destra le torri del petrolchimico, ancora più in lontananza la fiammella, sempre lei. Dietro di noi, la certezza delle discariche. In vicinanza, un’altra macchina della vigilanza. Nel mezzo, un cartello: Spiaggia naturista. Con un’avvertenza: ATTENZIONE. Oltre questo limite è possibile incontrare bagnanti nudi. È assolutamente vietato fare sesso e compiere atti di natura sessuale. Guardo il mio accompagnatore basita. Mi racconta che l’idea della spiaggia nudista è frutto dell’ex sindaco Domenico Messinese che, con un’ordinanza del 2016, decise di istituire sei chilometri di spiaggia nudista in memoria di una sorta di oasi naturalistica attiva fino agli anni ‘70 – prima dell’avvento dell’ENI – in quegli stessi posti. Peccato che nel frattempo l’evoluzione industriale abbia logorato il territorio rendendolo irriconoscibile. “La cosa bella è che ci aveva convocato in conferenza stampa senza dirci la ragione specifica. Ci ha voluto fare una sorpresa con l’annuncio della spiaggia nudista. Io mi sono guardato con gli altri giornalisti, tutti increduli, e gli ho chiesto: ma affianco alla raffineria? Ma veramente?”

Ripercorriamo a ritroso la strada, la vigilanza è ancora lì, nel punto in cui li avevamo lasciati, ad aspettare che andassimo via, probabilmente erano insospettiti dalla nostra presenza: chi ci va mai alla spiaggia nudista con vista devastazione ambientale? Torniamo sulla strada principale, non prima di esserci messi alle spalle la discarica di fosfogessi, superiamo le vecchie strutture fatiscenti del complesso industriale ormai abbandonate, e imbocchiamo la strada che conduce a Niscemi. Da lì arriviamo alla piana delle trivelle: a destra e sinistra circa una ottantina di trivelle con un movimento più lento e preciso di un metronomo estraggono olio nero dal sottosuolo. Penso a tutte quelle volte che, per A Sud, dovevo cercare immagini di trivelle da mettere come foto per un articolo su wordpress: quelle delle trivelle al tramonto erano le preferite mie e delle mie colleghe. Alzo lo sguardo e scatto una foto. Mentre contemplo la percezione distorta della bellezza, Andrea ferma la macchina e scende. Vieni qua, cammina, ti faccio vedere una cosa. Ci incamminiamo lungo il recinto di quello che sembrava un semplice appezzamento terriero. Mi lamento della puzza ma lui non la sente. Più ci vivi in questa città, più ti ci abitui. Cammina davanti a me, a un certo punto, subito dopo una piccola salita, si ferma e mi fa voltare. In discesa sulla destra un’enorme pozza di petrolio .

Sai qual è la cosa che mi fa più arrabbiare? Che io, io, questa cosa l’ho scoperta a 27 anni. Lui di anni ne ha 34 e oltre a essere attivista e giornalista, è una delle persone più curiose che io abbia mai conosciuto. Me lo dice con amarezza, quasi con senso di colpa. Penso alla sua conoscenza del territorio e mi domando: cosa sanno oggi i ragazzi di Gela della contaminazione della loro città? Ci sono mai venuti qui, davanti questa piscina di petrolio, dove io ho già fatto almeno due stories Instagram?

Ci rimettiamo in macchina percorrendo a ritroso tutto il percorso dell’andata.

Ripenso al mio viaggio in treno da Palermo a Gela. Ripenso a quando ho cercato su google informazioni sulla raffineria. Ripenso all’espressione di Wikipedia che diceva che quello di Gela è stato un complesso industriale di raffinazione, trasformazione e stoccaggio degli idrocarburi. Mi soffermo sul passato prossimo. Un fatto avvenuto e concluso. E cosa ne è rimasto? Dal mirador della città si vedono solo resti: resti archeologici in basso e resti industriali all’orizzonte.
Nel sottosuolo: petrolio. In cielo: una fiammella che ricorda a tutti di chi è la città.

* Andrea è un attivista di Gela che da anni si batte sulle questioni ambientali della città ed è uno dei componenti di A Sud Sicilia.

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