Quiabaya è un municipio della grande provincia La Paz a cui si arriva dopo ore di strada che si inerpica, sale e scende, nelle bellissime ma inospitali vallate andine.

Sebbene la sua altezza non superi i 3000 metri il clima, più mite rispetto ad altri luoghi boliviani, è freddo umido e la sua caratteristica è la nebbia, tanto che gli abitanti, la chiamano ironicamente “Londres”, la Londra boliviana.
Quiabaya però non è una metropoli ma un municipio quasi fantasma composto da tante piccole comunità rurali arroccate tra campi coltivati principalmente a mais e patate. È qui che si sviluppa una parte del progetto Pachamama, Madre terra, realizzato da Cevi, COSPE e alcuni partner locali tra cui Cecacem. Qui la scommessa è dare la possibilità alle donne del luogo, di realizzare attività economiche e produttrici di reddito che diano loro indipendenza economica e la possibilità di avere un ruolo decisionale all’interno della comunità. Molti uomini, i più giovani sono infatti andati lontano a lavorare nelle miniere o nei latifondi monoculture o nei siti estrattivisti di grandi aziende straniere. E lasciando le famiglie composte da donne, anziani e bambini alla loro sorte. Qui la coltivazione dei campi è difficile sia per mancanza di fonti idriche costanti che per mancanza di attrezzature e strumenti idonei alla coltivazione. Le donne, poi non hanno la formazione adeguata a mandare avanti neppure le piccole parcelle di terreno familiare. Qui il progetto fornisce sia gli strumenti tecnici che formativi e assicura un’educazione all’alimentazione che è fondamentale in una comunità che per tradizione, cultura e possibilità economiche non riesce ad avere un tipo di dieta equilibrata e salutare. “Le famiglie hanno anche buoni prodotti, ma non li consumano, non sono abituati. Normalmente mangiano patate e mais e a volte fagioli e pasta”, ci racconta Emilio Quispe Vargas, l’infermiere del Centro di Salute di Quiabaya, in servizio da 14 anni: “A questo centro afferiscono circa 30 comunità, circa 20% dei pazienti soffrono di malnutrizione e un 10% di denutrizione. E’ importante fare educazione alimentare. Tra il nostro personale da qualche anno c’è infatti anche una dietista che spiega alle donne come diversificare la dieta”.

È per questo che grazie al Centro di salute locale, al Municipio di Quiabaya e, ora, con il nostro sostegno, ogni due mesi viene organizzata una “Feria de la salud”, fiera della salute, in cui il personale del presidio si mette a disposizione della popolazione per visite d’urgenza, controlli o anche per dare consigli per avere una gestione più sana della dieta e della vita. Abbiamo avuto la possibilità, nel settembre scorso durante una missione con il giornalista Martino Seniga che per Rai News ha realizzato un servizio sul progetto, di assistere a una di queste fiere. Abbiamo visto come il piccolo centro di Quiabaya si trasformi in quest’occasione in un mercato affollato, in una piccola festa paesana a cui accorrono le persone dei municipi vicini, portando prodotti alimentari e artigianali, portando i figli per una visita, portando cibi per una gara culinaria indetta dalla fiera, e portando coreografie per balli di gruppo. Un tripudio, una festa e un momento fondamentale di informazione per tutte quelle persone che non sempre ce la fanno a scendere, per mancanza di mezzi di trasporto, nella cittadina. Qui il dottor Eriberto Quispe Flores, che guida il centro, con tutto il personale, accoglie puerpere e donne anziane, pesa figli, consiglia e fa vaccini. Il presidio poi è aperto tutti i giorni dove accoglie in media 10 persone al giorno per poi arrivare a 50 durante il week end. Ha anche un piccolo laboratorio di analisi, una sala parto e un’ambulanza per i casi di emergenza, ma l’ospedale più vicino è a circa 5 ore di strada sterrata da qui. La situazione è ancora difficile ma Emilio ci racconta come le cose siano comunque andate migliorando negli ultimi anni, grazie alla legge che garantisce il servizio sanitario gratuito ai più poveri e grazie a un incremento dei mezzi di trasporto che il centro ha a disposizione per raggiungere i villaggi più sperduti e anche all’aiuto della cooperazione italiana: “Prima si andava a piedi di casa in casa. Adesso abbiamo un’auto e la possibilità medicinali di base gratuitamente. Nonostante questo siamo ancora lontani dal poter fornire a tutti le cure e l’assistenza necessaria. La prevenzione e l’informazione rimangono le migliori armi”.

Il cuy, relativamente facile da allevare e mantenere, può essere per le cholas, o cholitas, come vengono chiamate le donne quechua che abitano queste valli, funziona come attività produttiva che genera reddito sia come uno dei modi di garantire sicurezza alimentare alla propria famiglia e alla comunità, finora dedite principalmente ad allevare (pochi) ovini e avicoli ma con scarse risorse, nessuna assistenza tecnica né risorsa idrica. “Con quello che guadagneremo con la vendita dei cuy – ci racconta donna Victoria della comunità di Sili Sili, dove vive da ragazza madre con la sorella e un figlio- potremo migliorare la nostra vita, mandare i figli a scuola, vestiti per i bambini”. Un lavoro, questo del nostro progetto, in ci si intrecciano tante componenti che vanno dall’agro ecologia all’educazione alimentare che punta a mettere in risalto il ruolo sociale e i diritti delle donne, vere custodi custodi della pacha mama.


Il progetto che si sviluppa in 9 comunità dei municipi di Quiabaya e quello di Tacoma, vede tra i partner: A Sud, l’Università di Udine (Dipartimento di scienze agro alimentari ambientali e animali), Sedes (Servizio Dipartimento di salute), la Fondazione Abril, Cioec (Coordinamento delle organizzazioni economiche contadine di Cochambamba) e Cecacem, (Centro di Capacitazione e servizi per le donne).

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