Ponte Morandi: la colpa non è del destino avverso

Sono serviti il crollo di un ponte e decine di vittime per riaprire il dibattito sulle conseguenze delle privatizzazioni in Italia e mostrare il volto di una multinazionale, Benetton, che – tra le molte altre cose – da anni in Argentina attua politiche aziendali di tipo coloniale, sprezzanti dei diritti dei nativi Mapuche.

Al di là del dolore, che avremmo preferito rimanesse nella sfera privata di familiari e amici delle vittime piuttosto che lutto elaborato dall’algoritmo di facebook, passerella per la solita bagarre politica nonché celebrazione di massa a tratti aberrante, guardare alla strage di Ponte Morandi significa anche riflettere sulle privatizzazioni e su cosa significhi “cambiamento”

Destino è un incontro che ti cambia la vita, ritrovare in un posto qualsiasi del mondo un amico che non vedevi da tempo, un insieme imponderabile di cause che determinano gli eventi, ineluttabile, fatale, una forza che agisce secondo leggi imperscrutabili e immutabili. Al destino non si può fare altro che rassegnarsi. Il crollo di Ponte Morandi è invece una strage in cui il destino, il fato o il caso c’entrano poco e, per questo, anche la rassegnazione. È possibile piuttosto scorgervi responsabilità legate a scelte politiche e aziendali. Le prime riguardano l’allocazione delle risorse pubbliche, le altre gli effetti dell’applicazione a beni pubblici di logiche aziendali tese a massimizzare i profitti.

Selfie della gleba

A questo avrebbe dovuto limitarsi la dimensione pubblica e politica del dibattito sulla strage di Genova. Vite spezzate da un crollo che, anche simbolicamente, rappresenta il malessere di un Paese che da tempo ha rinunciato a costruire ponti e nasconde piuttosto i suoi problemi più profondi dietro la necessità di alzare barriere. Il dolore e il lutto appartengono invece alla sfera privata e intima di familiari e amici delle vittime, sebbene parte dei media e non solo i social lo abbiano trasformato in uno show aberrante o in un improprio palcoscenico della consueta bagarre politica. Una gara al post più strappa lacrime e intriso di retorica. Un lutto elaborato dall’algoritmo di Facebook in cui traspare una morbosa voglia di protagonismo.

Non c’è da meravigliarsi se, in un mondo di “selfie della gleba”, una donna non trovi momento più appropriato che i funerali di Stato per chiedere una foto ricordo al proprio beniamino che, dal canto suo, non trova opportuno esimersi. In quel selfie è rappresentata la poca decenza e credibilità di un Ministro ma anche una parte di paese reale che ha smarrito il confine tra rispetto e propaganda, o meglio, si presta placidamente a strumento di autocelebrazione per politici sempre più simili agli amici del bar.

Un applauso “di incoraggiamento”

Le parole possono fare di chiunque un eroe, soprattutto se amplificate dall’attenzione mediatica. Presenzialismo ed esercizio retorico diventano così la sostanza effimera di un Governo diffusamente percepito come “del cambiamento” già prima di aver effettivamente cambiato qualcosa. In un mondo in cui basta piangere sul latte versato, emozionarsi è tutto e il futuro basta immaginarlo. “Governare è far credere”, scriveva Machiavelli. Applaudire ai funerali delle vittime di Ponte Morandi e poi smettere di monitorare il “post-dichiarazionismo” non è fiducia nel Governo e senso dello Stato ma servilismo. Si aspetti, per applaudire, di esser certi che i 28,5 milioni di euro annunciati per l’emergenza siano stati spesi bene, che la ricostruzione sia stata portata a termine, che le responsabilità siano state individuate e i risarcimenti alle vittime versati. Si aspetti che agli annunci sul ritiro delle concessioni ad Autostrade per l’Italia seguano i fatti perché, ad oggi, ancora nessuno è iscritto nel registro degli indagati. Non di sole dichiarazioni può sostanziarsi il cambiamento e non è sulle parole che si misura la risolutezza e la decisione delle reazioni. Alla politica non servono applausi di incoraggiamento ma una società informata che sappia tenerla sotto critica e costante osservazione.

I funerali non hanno mai cambiato il mondo

Il 17 agosto è morta Rita Borsellino. A più di 25 anni di distanza, i mandanti delle stragi di Capaci e via d’Amelio, dove morirono i giudici Falcone e Borsellino e gli agenti delle scorte, rimangono impuniti e oscuro il ruolo che pezzi dello Stato ebbero in quegli omicidi di mafia. Anche a quei funerali di Stato ci furono fischi, applausi, commozione, dichiarazioni. Ma da allora in Italia è cambiato molto meno di quanto ci si potesse aspettare da quel gran boato celebrativo.

E cosa è cambiato dopo i funerali di Stato, anche quelli occasione di grande commozione collettiva, applausi e fischi, dopo i terremoti de L’Aquila 2009, Emilia Romagna 2012, centro Italia nel 2016 e nel 2017? Un susseguirsi di “tragedie annunciate” che hanno preannunciato quella successiva: sul rischio sismico l’Italia rimane un Paese fermo. Ricordate ad esempio “Casa Italia”? È quel programma di messa in sicurezza del territorio lanciato nel settembre 2016 dopo il terremoto di Amatrice. Per ora pare sia stato stilato l’ennesimo report pieno di incongruenze, e poi tanti annunci, pochi soldi e una decina di cantieri pilota che stentano a partire. In compenso, nel giro di 1 anno, lo staff di Casa Italia è diventato prima un nuovo dipartimento stipendiato da Palazzo Chigi che poi ne ha previsto recentemente l’assorbimento con una bozza di decreto legge approvata dal Consiglio dei Ministri il 2 luglio 2018. A Ischia, dopo il terremoto del 21 agosto 2017, le macerie sono ancora tutte lì insieme a 2.400 sfollati e 372 persone ancora costrette a vivere in albergo.

La strage annunciata

Autostrade per l’Italia non ignorava lo stato di dissesto di Ponte Morandi e, già in una relazione del 2011, parlava di “intenso degrado della struttura” dovuto alle sollecitazioni causate dal volume di traffico raggiunto nelle ore di punta.

Gli allarmi sul possibile crollo di Ponte Morandi sono dunque datati. Una consapevolezza confermata dal verbale di una riunione del febbraio 2018 tra Ministero delle Infrastrutture, Direzione generale di vigilanza, Provveditorato opere pubbliche e Autostrade per l’Italia (pubblicato da L’Espresso) in cui veniva sottolineata una corrosione del 20% dei cavi metallici interni ai tiranti di calcestruzzo.

Ad aprile 2018, Autostrade per l’Italia ha indetto il bando di gara per “interventi di retrofitting strutturale (una sorta di ristrutturazione profonda) del Viadotto Polcevera”, appalto da oltre 20 milioni di euro. Eppure, subito dopo il crollo la Società ha assicurato che “non c’era nessun elemento per considerare il ponte pericoloso”. La verità è che Ministero delle infrastrutture e Autostrade per l’Italia erano quanto meno a conoscenza dell’alto livello di rischio ma, in attesa dei lavori di retrofitting, non hanno preso provvedimenti per incompetenza, incuria o volontà di tutelare l’azienda concessionaria. Per lo Stato che doveva garantire i controlli e per chi doveva provvedere agli interventi di manutenzione era normale far transitare 25.000.000 di veicoli all’anno su un viadotto “intensamente degradato”.

Un’emergenza diffusa

Un anno e mezzo fa, in Sicilia, veniva chiuso per cedimenti e pericolo di crollo il viadotto Akragas ad Agrigento, conosciuto come viadotto Morandi, progettato dallo stesso ingegnere del viadotto crollato a Genova. Oggi emerge che lo stesso Riccardo Morandi aveva previsto in uno studio del 1979 la necessità di: “ricorrere a un trattamento per la rimozione di ogni traccia di ruggine sui rinforzi esposti, con iniezioni di resine epossidiche dove necessario, per poi coprire tutto con elastomeri ad altissima resistenza chimica”. Negli ultimi 5 anni sono più di 10 i ponti e viadotti crollati in Italia. Quanto sta emergendo negli ultimi giorni rende impossibile per Autostrade per l’Italia e per lo Stato negare l’evidenza di un’emergenza diffusa, conclamata da anni e a cui non si è voluto far fronte.

È Stato Benetton

La vicenda può essere riassunta in questi termini: Stato e privati, soci nella privatizzazione e successiva gestione di un bene pubblico e quindi correi di non aver saputo garantire la sicurezze degli utenti, adesso si rimpallano le responsabilità di una strage.

Secondo la Convenzione unica che regola la concessione ad Autostrade per l’Italia,lo Stato è chiamato a controllare i lavori svolti dal concessionario e a verifiche costanti sullo stato della rete in concessione, controlli che appunto avrebbero dovuto garantire la sicurezza di Ponte Morandi. Il compito, prima dell’Anas, è stato trasferito nel 2011 alla Vigilanza del ministero delle Infrastrutture sulle concessionarie autostradali, il cui direttore generale, Mauro Coletta, già nel 2016, denunciava una riduzione delle ispezioni da 1.400 nel 2011 a 850 nel 2015 a causa dell’assenza di fondi. Quindi mentre da anni l’Italia ascolta il mantra delle grandi opere: la TAV in Val di Susa, il Terzo Valico, il Ponte sullo Stretto, il gasdotto TAP, venivano tagliati i fondi per assicurare controlli e ispezioni sulla rete autostradale. Intanto, nel 2018, sono previste spese militari per 25 miliardi di euro. Questione di priorità!

Quanto a Benetton e alla compatibilità tra le logiche che reggono una multinazionale e l’interesse collettivo, sarebbe bastato guardare a come il gruppo, al di là di slogan e campagne pubblicitarie multirazziali, si comporta con le popolazioni indigene in Argentina. Benetton è il più grande proprietario terriero argentino da quando nel 1991 ha acquistato il 100% della Compania de Tierras Sudargentinas, in Patagonia. Con 50.000.000 di dollari, più o meno il costo di 100 appartamenti a Roma, il gruppo ha acquisito la proprietà di 900.000 ettari di terra, un’estensione più o meno equivalente a quella della Basilicata. Nella “Repubblica Benetton” oggi vengono allevati 260.000 capi di bestiame che producono circa 1.300.000 chili di lana all’anno interamente esportati in Europa. Quelle terre sono però oggetto di controversia da oltre un secolo, da quando, attraverso contratti di compravendita a dir poco dubbi, furono sottratte ai nativi Mapuche che da allora ne rivendicano l’appartenenza, subendo una violenta repressione sia sul versante argentino che su quello cileno. Compania de Tierras Sudargentinas controlla a sua volta il 60% Minera Sud Argentina i cui giacimenti si trovano a cavallo tra il Cile e l’Argentina. Oro, petrolio, acqua: Minera ha dato via da tempo ad un assalto alle risorse naturali devastante dal punto di vista ambientale. Una politica aziendale colonialista, che depaupera le popolazioni native e fonda sullo strapotere economico. Una realtà molto diversa dall’immaginario creato dalla pubblicità Benetton e dice invece molto su quanto i profitti per una multinazionale vengano sempre prima delle persone.

Dove finiscono i soldi?

Benetton è attiva nell’editoria, con quote del gruppo Rcs e del Sole 24 Ore, nella ristorazione, Autogrill, nel settore edilizio, Eurostazioni, e poi assicurazioni e banche: Generali, Mediobanca, Banca Leonardo. Attraverso la maggioranza in Atlantia, nel settore delle infrastrutture autostradali e aeroportuali, Benetton gestisce 5.000 chilometri di autostrade a pedaggio in Italia, Brasile, Cile, India, Polonia, gli aeroporti di Fiumicino e Ciampino in Italia e quelli francesi di Nizza, Cannes e Saint-Tropez.

Un impero di cui fa parte anche Autostrade per l’Italia il cui 90% del capitale è nelle mani del gruppo Atlantia controllato dalla famiglia Benetton. Autostrade per l’Italia ha fatto sapere che negli ultimi 5 anni ha speso 2,1 miliardi di euro per la manutenzione, la sicurezza e la viabilità. Poco nell’ottica di gestione di un bene pubblico strategico per il Paese e a fronte di cospicui introiti. Sempre secondo la Convenzione concessione, Società Autostrade paga infatti allo Stato un canone annuo esiguo, pari al 2,4% dei proventi netti dei pedaggi che, negli ultimi anni, in Italia, hanno avuto un aumento superiore al 30% e rappresentano la quasi totalità degli introiti della società.

Dove finiscono i soldi? Secondo i bilanci degli ultimi 5 anni, Autostrade per l’Italia ha generato utili per 4,05 miliardi di euro, distribuendone 3,75 miliardi, quasi il 93%, in dividendi all’azionista Atlantia, gruppo Benetton, e ai fondi esteri — tra questi un fondo d’investimento cinese, Silk Road Fund — che, nella seconda metà del 2017, ne hanno rilevato il 12% pagando alla holding circa 1,7 miliardi.

Oltre ai dividendi, ad Atlantia, nel 2017, sono finiti 1,1 miliardi di euro di riserve disponibili. In totale, in 5 anni, sono finiti nelle casse della holding controllata da Benetton circa 4,8 miliardi di euro, più del doppio delle spese in manutenzione sostenute da Autostrade per l’Italia. Appunto, prima i profitti poi la sicurezza. Nel frattempo la distribuzione di dividendi e riserve ha portato il patrimonio netto di Autostrade per l’Italia da 4.37 a 2.39 miliardi. Dunque, mentre il patrimonio di Atlantia si gonfia a scapito della controllata Autostrade per l’Italia, dai conti di quest’ultima emerge il conseguente calo degli investimenti sulle infrastrutture in concessione: dai 232 milioni del primo semestre del 2017 ai 197 del primo semestre 2018.

Per la manutenzione straordinaria (messa in sicurezza e miglioramento) servirebbero secondo Anas ben altre cifre: 2,5 miliardi di euro di investimenti all’anno a fronte di una spesa effettiva che ad oggi si aggira intorno ai 500 milioni di euro. Il dato insomma è che l’Italia ha tariffe autostradali tra le più alte d’Europa a fronte di insufficienti risorse investite sulla sicurezza delle infrastrutture.

Vittime di S.p.A.

Se il Governo non ha ancora meritato gli applausi, il Pd merita invece i fischi. Perché alla ricerca di un consenso maggioritario ha rinunciato da sempre ad avere una propria identità. Difende i beni pubblici ma vuole le privatizzazioni e anche su Atlantia non si esprime a favore della nazionalizzazione delle autostrade. Vuole aiutare i migranti ma “a casa loro”, parla di diritti umani ma ha visto nell’ex ministro Minniti l’artefice di accordi disumani con la guardia costiera e il “governo” libici. Allo stesso modo, sul crollo di Ponte Morandi, mentre un Paese intero prendeva coscienza delle responsabilità di Autostrade per l’Italia, mentre si iniziavano ad intravedere le conseguenze delle privatizzazioni e si chiedevano risposte a Benetton, il PD — in primis il presidente Orfini — si è affrettato a definire “polemiche e odio” o “dichiarazioni a casaccio” il dibattito su chi e con quali responsabilità avesse trascurato il rischio crollo di Ponte Morandi.

Poco diversa la posizione di Forza Italia, espressa da Renato Schifani, capogruppo del partito in commissione lavori pubblici del Senato: “Il governo sta esponendo a ulteriori danni quei cittadini che hanno investito i propri risparmi nel fondo Atlantia, società quotata in Borsa, holding del gruppo Autostrade”. Insomma, se c’è di mezzo una S.p.A., dal lutto nazionale alla preoccupazione per il mercato finanziario il passo è breve. Così le perdite del titolo Atlantia diventano quasi una responsabilità di chi su quel viadotto ci è morto e di chi chiede conto dell’operato dell’azienda. Se Atlantia perde in borsa è perché c’è chi la mette di fronte alle sue responsabilità e non perché ha fatto male il suo lavoro. Si dovrebbe dunque pensare a salvare le apparenze, non dire nulla, soprassedere sulle morti pur di tutelare gli investitori. Da questo punto di vista va riconosciuto ai 5 stelle un merito: a giudicare dalle dichiarazioni, se avessimo avuto Pd o Centro destra al governo nessuno avrebbe parlato delle responsabilità dei privati né avrebbe osato pronunciare la parola “nazionalizzazione”.

United parties of Benetton

Il caso Atlantia-Benetton ha dimostrato ancora una volta la disinvolta continuità tra classe politica e imprenditoria, rischiosa nel momento in cui si tramuta in legame tra “controllato” e “controllore” nella gestione dei beni pubblici. I legami diretti tra Benetton e la politica, nonché il giro di soldi, pongono dubbi più che fondati sull’operato dello Stato nell’azione di controllo su Autostrade per l’Italia per quanto riguarda le condizioni delle concessioni, gli interventi manutentivi e il bilanciamento tra pedaggi, costi di esercizio e investimenti.

L’elenco ripreso da fonti giornalistiche è lungo. Enrico Letta è stato membro del cda di Abertis, colosso spagnolo su cui Atlantia vorrebbe provare la scalata. Simonetta Giordani, collaboratrice di Letta che nel 2006, lavorava per Autostrade per l’Italia. Divenuta sottosegretario ai Beni culturali, dopo l’arrivo di Matteo Renzi, finisce prima in Ferrovie dello Stato come consigliere e poi torna in Atlantia alla gestione degli Affari istituzionali. Roberto Garofoli, altro lettiano con passato in Anas, da magistrato, si è più volte occupato di collegi arbitrali per la rete stradale e autostradale e oggi è capo di gabinetto del ministro Giovanni Tria.

C’è ancora il prodiano Paolo Costa, ministro dei Lavori pubblici tra il ’97 e il ’98 e delle Infrastrutture nel 2006. Nel 2010, i Benetton lo vollero come presidente del cda di Spea Engineering, controllata di Autostrade per l’Italia. Due anni fa, infine, Atlantia vince la gara per la privatizzazione degli aeroporti francesi di Nizza, Cannes-Mandelieu e Saint-Tropez e Paolo Costa viene inserito nel consiglio di sorveglianza degli stessi.

Ci sono poi le fondazioni politiche. Fabio Cerchiai, presidente di Autostrade per l’Italia, è nel consiglio della Fondazione Magna Carta di Gaetano Quagliarello mentre la stessa ASPI è socia di “Italia decide”, presieduta da Luciano Violante, uno dei “saggi” nominati da Napolitano nel 2013. Atlantia finanzia Aspen, istituto guidato Giulio Tremonti mentre Autostrade per l’Italia è official partner del meeting di Rimini di Comunione e liberazione.

Infine, il finanziamento diretto delle campagne elettorali: 1,1 milioni di euro di donazioni equamente distribuiti da Benetton ai partiti di centrodestra e centrosinistra nel 2006 (Fatto Quotidiano). Pochi mesi dopo arrivano le convenzioni che stabiliscono le condizioni per le concessioni Autostrade per l’Italia, datate 12 ottobre 2007 e approvate con il cosiddetto decreto “Salva Benetton”.

La propaganda su una strage

Ad oggi, il vicepremier e ministro degli Interni, Matteo Salvini, ha prima approfittato della tragedia di Genova per un post in cui annunciava di aver respinto l’ennesima nave della ONG Acquarius, parlando di “buona notizia” in un giorno triste. Poi è passato alla propaganda contro l’Europa e i “vincoli europei” che: “Ci impediscono di spendere soldi per mettere in sicurezza le scuole dove vanno i nostri figli o le autostrade su cui viaggiano i nostri lavoratori”.

La bufala viene presto smentita da Junker che precisa: “We think the time has come to make a few things clear. Over the 2014–2020 period Italy is set to receive around €2.5bn (£2.2bn) under European structural and investment funds for investment in network infrastructures such as roads or rail”. Soprattutto, gli investimenti per la manutenzione del ponte sulla A10 non spettavano allo Stato o all’Europa ma ad Autostrade per l’Italia.

Lo Stato è Benetton

Dal canto suo, l’altro vicepremier, Luigi Di Maio tuonava: “Nello Sblocca Italia nel 2015 fu inserita di notte una leggina che prolungava la concessione ad Autostrade in barba a qualsiasi forma di concorrenza. Si è fatta per finanziare le campagne elettorali”. Gli è toccato poi realizzare che i soldi da Benetton li avevano presi anche i suoi compagni di governo della Lega e non solo gli altri partiti e che, come ammesso dallo stesso Matteo Salvini, anche la Lega, nel 2008, aveva votato il cosiddetto “Salva Benetton”, provvedimento che sbloccava la convenzione stipulata 7 mesi prima tra Autostrade per l’Italia e l’Anas dando il via libera all’aumento delle tariffe autostradali con adeguamento all’inflazione reale e non a quella programmata, come solitamente avviene per tutti i provvedimenti economici. Gli aumenti delle tariffe scattarono ad aprile: +2,4%, esattamente la stessa percentuale sui pedaggi stabilita come canone di concessione Altra previsione riguardava l’allungamento della concessione ad Autostrade per l’Italia, inizialmente accompagnata dall’obbligo di sottostare a verifiche periodiche. Obbligo scomparso grazie ad un emendamento. Veniva inoltre prevista l’approvazione per legge di tutte le nuove convenzioni con i concessionari autostradali sottoscritte da Anas ma senza parere favorevole del Comitato interministeriale per la programmazione economica. Gli aumenti sulle tariffe venivano così assicurati fino al 2038, indipendentemente dalla valutazione sulla qualità del servizio e la realizzazione degli investimenti.

Da un lato lo Stato con le privatizzazioni ha esternalizzato l’amministrazione dei beni pubblici costruiti con il denaro dei cittadini e fatti strumento di profitto privato e distribuzione di dividendi. Vale per Ferrovie S.p.A., Trenitalia S.p.A., Autostrade S.p.A. Dall’altro, i privati, in questo caso Benetton, finanziano la politica e, con l’abolizione dei finanziamenti pubblici ai partiti, strada preferita ad una loro corretta gestione, i privati assumono ancora più forza di contrattazione nella difesa dei propri interessi.

Da questo punto di vista i governi si tramutano in appendici delle società per azioni nelle istituzioni. Nella convenzione di concessione ad Autostrade per l’Italia è così possibile leggere lo strapotere dei privati nei confronti dello Stato. Come la penale da 20 miliardi di euro per gli utili futuri non incassati in caso di ritiro della concessione.

È questa la vera sfida su cui misurare la credibilità dei pentastellati: Ponte Morandi sarà davvero l’inizio di una controffensiva alle privatizzazioni di beni e risorse strategiche per lo Stato o, quanto meno, di un loro ripensamento? Il Governo ha a disposizione le carte per far molto male ai privati se, come sostiene Guido Alpa, giurista nel cda di Finmeccanica e “maestro” del premier Conte, “C’è una disposizione del codice degli appalti (l’articolo 176 che recepisce l’articolo 44 della direttiva europea sugli appalti del 2014 n.23) che prevede la risoluzione del contratto di concessione quando c’è o la colpa della stazione appaltante o la colpa del concessionario”. Una volta accertata la colpa il codice civile stabilisce la possibilità di risoluzione del contratto e il risarcimento del danno.

La domanda è perché soltanto oggi, dopo una tragedia, si parli di nazionalizzazione della rete autostradale e nulla il governo abbia detto finora sulla ripubblicizzazione del servizio idrico, nonostante il Movimento 5 Stelle sia stato tra i sostenitori del referendum del 2011.

Vittime senza Stato

In questo panorama la scelta delle famiglie che hanno rifiutato i funerali di Stato appare lucida e dignitosa pretesa di giustizia. Lo ha ribadito con uno striscione la comunità di Torre del Greco: “Non esiste perdono senza giustizia”. Con questo messaggio sono stati salutati Giovanni Battiloro, Matteo Bertonati, Gerardo Esposito e Antonio Stanzione. Lo Stato qui è apparso colpevole, non eroe. Dolore e rabbia per un’ingiustizia che non può essere occasione di passerelle. Il senso dello Stato non può essere recuperato a suon di dichiarazioni e presenzialismo, non può essere preteso nei confronti di istituzioni che da troppo tempo aprono bocca su tutto ma non rispondono con i fatti su nulla. E per cambiare tutto questo non bastano dichiarazioni al di sopra di quanto sia realmente possibile fare.

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