Migranti in fuga dal degrado ambientale
Oggi, nonostante sentenze coraggiose come quella del 18 febbraio 2018 del Tribunale di L’Aquila, con la quale è stata accolta la richiesta d’asilo per motivi ambientali di Milon, un cittadino del Bangladesh, la questione dei migranti ambientali resta ancora sottostimata.
In occasione della Giornata mondiale del rifugiato, che viene celebrata ogni anno il 20 giugno, va ricordato che oltre i 25,4 milioni di rifugiati cosiddetti politici (UNHCR 2018), costretti a fuggire per un fondato timore di persecuzione (da parte di uno Stato) per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un particolare gruppo sociale (Art.1 Convenzione di Ginevra del 1951), ci sono milioni di rifugiati “non ufficiali”. Uomini, donne e bambini senza rifugio, in fuga dal clima o causa di altri fattori ambientali. Persone che restano fuori dalla Convenzione di Ginevra e da qualsiasi altro trattato internazionale, e che vengono considerati alla stregua dei migranti economici. Eppure non si tratta certamente di persone alla ricerca delle mezze stagioni o di chi scappa perché ha troppo caldo, come ha scritto qualche giornale, o ancora di persone che sfruttano un tema serio come l’ambiente per legittimare l’immigrazione clandestina, come invece ha commentato qualche tempo fa il neo ministro dell’Interno. Parliamo invece di persone, principalmente nel Sud del mondo, che hanno perso tutto a causa della siccità, della desertificazione, dell’innalzamento del livello del mare, dell’appropriazione di risorse attraverso pratiche (consentite anche grazie alla complicità dei governi locali) di land e water grabbing, deforestazione, estrazione mineraria da parte di Stati stranieri e delle multinazionali, o di comunità costrette a lasciare le proprie terre per fare spazio a falsi progetti di sviluppo o ancora a causa di conflitti armati collegati anche al clima, come nel caso della Siria.
Va detto che oggi i cambiamenti climatici e i disastri ambientali sono il motore principale delle migrazioni, soprattutto entro i confini degli Stati. Secondo i recenti dati del Global Report on Internal Displacement nel 2017 ci sono stati 30,6 milioni di sfollati interni, di questi 18,8 milioni si sono spostati a causa di disastri naturali (inondazioni per 8,6 milioni e tempeste, principalmente cicloni tropicali, per altri 7,5 milioni). I Paesi più colpiti sono stati la Cina, le Filippine e Cuba. Al quarto posto si posizionano invece gli Stati Uniti. Ciò a riprova del fatto che nessun Paese oggi è al sicuro, nemmeno quelli più industrializzati. Stando alle stime più ottimistiche saranno circa 250 milioni i migranti ambientali entro il 2050.
Nonostante la grande portata, la questione resta formalmente non riconosciuta, tanto che a livello internazionale manca addirittura una definizione condivisa su chi siano i profughi ambientali. Difatti, benché entrate a far parte del linguaggio comune, né l’espressione rifugiato climatico né quella di rifugiato ambientale sono mai state formalmente adottate dalle Nazioni Unite, mentre l’OIM, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, continua a parlare unicamente di migranti ambientali descrivendoli come “persone o gruppi di persone che, per motivi impellenti legati a rapidi o progressivi cambiamenti ambientali che pregiudicano le loro vite o condizioni di vita, sono costrette ad abbandonare le loro dimore abituali, o scelgono di farlo, temporaneamente o permanentemente, e che si spostano dentro o fuori i confini del proprio Paese”. Definizione questa che al momento resta la più accredita. La difficoltà nel definire la questione e dare anche una protezione giuridica a queste persone risiede non solo nella sua complessità ma anche nel fatto che i Paesi occidentali dovrebbero riconoscere i danni provocati dall’impronta ecologica di un modello di sviluppo vorace che hanno imposto e che negli anni ha avuto notevoli costi sociali e ambientali su scala globale. Significherebbe in pratica farsi carico del debito ecologico contratto nei confronti del Sud del mondo, che per uno strano gioco del destino pur avendo contribuito meno alla crisi ecologica in corso ne è la principale vittima, e implicherebbe al contempo l’obbligo di scelte più sostenibili in termini di modelli energetici, di produzione, smaltimento, ecc. Lo stesso processo di globalizzazione oggi sta mettendo in luce le drastiche conseguenze di scelte politiche, economiche e sociali sbagliate, che hanno sacrificato di pari passo, in nome della prosperità, il clima, l’ambiente e i diritti stessi delle persone. Quelle stesse persone che oggi sono costrette a migrare per cause ambientali.
Cosa si muove a livello internazionale? Tra buoni propositi e colpi di testa dei singoli Stati
Gli Stati non possono pensare di gestire singolarmente i flussi migratori e coglierne le opportunità e le sfide in campo sia per i Paesi di arrivo che per quelli di partenza. Le Nazioni Unite in tal senso hanno avviato dal 2016, con l’adozione della Dichiarazione di New York sui Rifugiati e i Migranti, una serie di negoziazioni intergovernative per ripensare con approcci e soluzioni globali la gestione dei flussi migratori internazionali e i diritti dei rifugiati. Attualmente, su disposizione della Dichiarazione di New York è in corso la definizione di 2 Global Compact uno per la migrazione e uno per i rifugiati, da adottare entro il 2018 e che dovranno prevedere principi e impegni condivisi dalla comunità internazionale, impegnando i firmatari a proteggere anche coloro che sono stati messi in fuga dai cambiamenti climatici e dai disastri naturali. I patti si presentano alquanto ambiziosi, la vera sfida resta però come sempre la loro traduzione in azioni concrete e l’assunzione da parte degli Stati delle proprie responsabilità, che in alcuni casi sono già cominciate a vacillare. Nel 2017 è stato difatti annunciato il ritiro degli Usa dai negoziati, un’azione che ha voluto rimarcare ancora una volta l’unilateralismo americano, come già accaduto per l’Accordo di Parigi sul clima.
Anche i buoni propositi dell’Italia sembrano dissolversi in una bolla di sapone, o per essere più precisi in un contratto. Nel Contratto Movimento 5 Stelle – Lega non si fa riferimento da nessuna parte alla questione dei migranti ambientali, che invece nel Capitolo 9 “Una nuova governance ambientale” del Programma ambiente dei 5 Stelle veniva affrontata e se ne parlava addirittura in termini di rifugiati spinti a emigrare a causa dei conflitti per l’accaparramento delle risorse o dai cambiamenti climatici come conseguenza delle emissioni dei Paesi industrializzati. È evidente che tutto questo viene messo da parte per dare spazio a una deriva securitaria della politica in materia di migrazione. Nel Programma ambiente dei 5 Stelle, inoltre, dopo un’analisi dei dati si affermava “Eppure il fenomeno resta di fatto invisibile alle legislazioni e alla politica”. Se le premesse sono quelle che vediamo oggi, probabilmente la strada è ancora lunga e tortuosa prima di arrivare a un riconoscimento. In Italia, come nel resto dell’Europa d’altronde, per affrontare la questione migratoria il governo ha fatto proprio il terribile binomio migrazione-sicurezza per legittimare politiche di contenimento e chiusura dei confini, oltre che alimentare un sentimento di paura tra le persone, innescare una guerra tra poveri e criminalizzare anche la solidarietà. Mentre problemi come il basso livello di scolarizzazione, l’evasione fiscale, la corruzione, la disoccupazione giovanile, i diritti negati, l’assenza di politiche per il Sud, le mafie diventano delle appendici nella narrazione. Se da un lato però il migrante è visto come la causa di tutti i mali, dall’altro viene sfruttato come manodopera a basso costo fino ad arrivare a delle vere e proprie forme di schiavitù. Per molti migranti, infatti, il viaggio iniziato nelle zone rurali del proprio Paese termina nelle campagne italiane, dove vengono sfruttati per raccogliere la frutta e gli ortaggi che arrivano sulle nostre tavole. Solo nella Piana di Gioia Tauro sono almeno 3500 i migranti che lavorano in condizioni di sfruttamento per i produttori locali di agrumi (MEDU 2018).
In conclusione, è evidente che i leader politici continuano a discutere di migrazione a una sola voce, mettendo in primo piano gli interessi dei singoli Paesi e strumentalizzando la questione. Tutto questo chiaramente cozza con i buoni propositi dei negoziati in corso a livello internazionale in materia di migrazioni e rifugiati. È palese che siamo ancora ben lontani da una gestione della migrazione orientata a proteggere le persone e promuovere i benefici associati alla migrazione per i Paesi di arrivo, per i migranti e i loro Paesi di origine. Alla luce della crisi ambientale e climatica che stiamo affrontando, i governi dovrebbero riflettere maggiormente sul fatto che stiamo oltrepassando i limiti ecologici del Pianeta e che è necessario cambiare paradigma per uscire da questa crisi che somma più congiunture: economica, finanziaria, ecologica, alimentare, energetica e migratoria. L’obiettivo dovrebbe essere quello di agire per proteggere i confini ecologici del Pianeta (che significa tutelare anche le persone) ed abbattere invece i muri che dividono i popoli.
Per approfondire:
Global Report on Internal Displacement (GRID 2018)
Crisi ambientale e migrazioni forzate. L´”ondata” silenziosa oltre la Fortezza Europa