A metà del suo percorso, il Piano Mattei continua a essere opaco: i criteri di selezione non sono pubblici, i fondi restano inaccessibili per le piccole e medie imprese e a beneficiarne sono le solite grandi aziende legate al pubblico.


Il 30 giugno è attesa in parlamento la relazione annuale sullo stato di attuazione del Piano Mattei, progetto strategico di diplomazia, cooperazione allo sviluppo e investimento in Africa, coordinato direttamente dalla presidenza del Consiglio.

La bozza del documento, visionata da IrpiMedia, circola dal 19 maggio tra chi fa parte dell’ente che coordina il Piano Mattei. Si legge che per il 2025 sono stati approvati progetti «per un ammontare complessivo di circa 170 milioni di euro, per interventi relativi a infrastrutture verdi sostenibili, rinnovabili, infrastrutture di trasporto e idriche». I pilastri del Piano sono sei: istruzione, formazione, sanità, acqua, agricoltura, energia, infrastrutture fisiche e digitali.

 

Il Corridoio di Lobito e la concentrazione dei fondi

Oltre a Marocco, Tunisia, Algeria, Egitto, Costa d’Avorio, Repubblica del Congo, Mozambico, Kenya ed Etiopia, tra i «Paesi prioritari», cioè quelli identificati come beneficiari, il governo ha aggiunto Angola, Ghana, Mauritania, Tanzania e Senegal.

Tra i progetti finanziati più significativi, c’è soprattutto il Corridoio di Lobito, , un’infrastruttura ferroviaria di circa 1.300 km che collegherà il porto di Lobito, in Angola, con due zone ricche di risorse minerarie: il Katanga, nella Repubblica democratica del Congo e il Copperbelt in Zambia.

Protagonista del vertice tenutosi il 20 giugno a Villa Pamphili, a Roma – a cui hanno partecipato, oltre a membri del governo dei Paesi coinvolti nel progetto, anche il vicepresidente della Tanzania, leader di diverse istituzioni politico finanziarie africane e la presidente della Commissione europea Ursula von Der Leyen –  il Corridoio di Lobito sarà sostenuto complessivamente con quasi un miliardo di euro, di cui 250 milioni di euro dal Piano Mattei.

Video della Commissione europea sul Corridoio di Lobito.

Nonostante sia a metà del percorso stabilito, le informazioni sui progetti e le spese effettivamente sostenute dal Piano Mattei sono ancora frammentarie e incomplete, anche per chi vorrebbe partecipare alle gare per l’assegnazione delle risorse a disposizione.

 

I soliti noti e l’opacità delle procedure

Il Piano, fin dall’inizio, si è dimostrato uno strumento poco trasparente. E i nomi delle aziende che si aggiudicano il grosso dei fondi sono sempre le stesse: società partecipate dal pubblico o a esse legate: EnelLeonardo ed Eni (anche attraverso la sua partecipata Bonifiche Ferraresi).

IrpiMedia ha ascoltato varie testimonianze di imprenditori e consulenti che hanno inviato diversi progetti a Cassa depositi e prestiti (Cdp), gestore del fondo, ricevendo rinvii e risposte ambigue sui criteri di selezione.

A quasi due anni dal lancio del Piano sono almeno quattro gli elementi poco chiari: chi può accedere ai fondi, la procedura di accesso, eventuali vincoli legati alle risorse e i criteri di scelta. Nonostante i numerosi solleciti, alla richiesta di chiarimento sui criteri e vincoli di accesso alle risorse del Piano, non hanno risposto né la Struttura di missione, istituita presso la presidenza del Consiglio dei ministri, né il Comitato tecnico, che gestisce uno dei fondi che alimenta il Piano Mattei, e nemmeno Cassa depositi e prestiti (Cdp),  che distribuisce i fondi.

Da dove vengono i soldi del Piano Mattei

Durante la conferenza stampa di presentazione dei Risultati operativi per il 2024, Cdp ha illustrato finanziamenti al Piano Mattei per 550 milioni di euro. Rappresentano solo una parte della dotazione finanziaria del Piano e non è ancora stato del tutto chiarito come siano stati distribuiti i fondi. Complessivamente, il Piano dispone di 5,5 miliardi, provenienti da due serbatoi finanziari.

Il primo ministro italiano Giorgia Meloni e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen danno il benvenuto ad Akinwumi Adesina, presidente della Banca africana di sviluppo (Afdb), in occasione del Piano Mattei per l’Africa di giugno 2025 © Massimo Valicchia/Getty

Il primo, da 2,5 miliardi di euro, consiste in fondi già stanziati per la cooperazione italiana. Si tratta, quindi, di risorse già esistenti e programmate nelle leggi di bilancio senza nessun investimento addizionale, come spiega l’associazione delle organizzazioni non governative italiane (Aoi) nel proprio documento di posizionamento sul Piano Mattei.

I fondi vengono solo spostati dai piani di cooperazione già esistenti, non solo in Africa ma anche in altri continenti, per destinarle ad aree di intervento scelte dalla Presidenza del consiglio dei ministri.

Il secondo serbatoio finanziario, da tre miliardi complessivi, è preso dal Fondo italiano per il clima (Fondo clima). È il principale strumento finanziario per progetti di contrasto al cambiamento climatico dei Paesi appartenenti all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse).

 

Il ruolo delle imprese e le contraddizioni con la realtà

È destinato «al finanziamento di interventi a favore di soggetti privati e pubblici, volti a contribuire al raggiungimento degli obiettivi stabiliti nell’ambito degli accordi internazionali sul clima e sulla tutela ambientale dei quali l’Italia è parte», recita la legge di bilancio 2022, che lo istituisce.

A ottobre 2024, la presidente del Consiglio Meloni ha varato un decreto per destinarne circa il 70% «a supporto delle finalità e degli obiettivi del Piano Mattei», con l’obiettivo di «accelerare la transizione verso un’economia a basse emissioni di gas serra e ad aumentare la resilienza dei territori agli impatti dei cambiamenti climatici»

Il ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica (Mase) nella pagina dedicata al Piano Mattei scrive che i beneficiari diretti appartengono a tre tipologie: la prima, imprese italiane ed estere; la seconda, i soggetti pubblici come i governi e le società statali dei Paesi partner; la terza, le istituzioni finanziarie pubbliche e private e i fondi di investimento.

Il Fondo clima prevede in totale 840 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2022 al 2026 e di 40 milioni di euro a decorrere dall’anno 2027. È un fondo rotativo, cioè uno strumento finanziario in cui le risorse erogate a tasso agevolato vengono restituite dai beneficiari e reimpiegate per nuovi interventi dello stesso tipo.

Il Fondo clima, inoltre, garantisce maggiore accesso alle imprese private rispetto ai tradizionali fondi di cooperazione, che hanno aperto al profit dalla legge del 2014. Nella pratica, però, non è ancora così.

Dall’annuncio del Piano Mattei a oggi, diverse società hanno cercato di comprendere come avere accesso al Fondo clima, a loro destinato, con risposte sempre diverse.

Il «contributo delle imprese». Ma quali?

«Se il Piano Mattei sarà un successo e riuscirà davvero a costruire quel nuovo modello di cooperazione e sviluppo con le nazioni africane che abbiamo in mente, molto dipenderà dal contributo delle nostre imprese, dalla possibilità di mettere le loro energie e la loro concretezza al servizio di questa iniziativa – sono parole della presidente Giorgia Meloni –. Perché ciò che distingue il Piano Mattei da tutte le altre iniziative del passato è proprio la sua concretezza. Noi non abbiamo scritto un elenco di buone intenzioni, di dichiarazioni di principio. Abbiamo scritto un piano di obiettivi fattibili, realizzabili, accompagnato da un cronoprogramma ben delineato».

Ha tenuto l’intervento nel giugno del 2024, in occasione dell’evento Piano Mattei, quali opportunità per Africa, Italia e imprese organizzato da Confcommercio. «La Struttura di missione per il Piano Mattei qui presente oggi è a disposizione delle imprese», ha aggiunto il consigliere diplomatico che la coordina, Fabrizio Saggio, durante l’evento a porte chiuse Confindustria Assafrica & Mediterraneo, a settembre 2024.

 

Le PMI escluse dai finanziamento

Nel documento strategico Il Piano Mattei per l’Africa, redatto nel 2024, il governo coinvolge esplicitamente «le maggiori imprese italiane» nel settore energetico per «moltiplicare gli investimenti pubblici e privati con impatti positivi sulle popolazioni residenti anche in termini occupazionali».

Su carta, il Piano non trascura neppure le piccole e medie imprese italiane, a cui intesta in particolare il settore istruzione e formazione. L’obiettivo, «anche in vista della programmazione di flussi migratori regolari», è «coinvolgere in particolare gli operatori italiani presenti negli Stati partner, promuovendo il “modello” italiano di piccola e media impresa».

Ci sono però imprese di piccola taglia che hanno presentato i loro progetti da più di un anno e non hanno mai ricevuto un’approvazione o un chiaro diniego della richiesta di finanziamento attraverso il serbatoio del Fondo clima. «Ci hanno detto “abbiamo bisogno di voi”, sulle tempistiche sono stati cauti, trattandosi di uno strumento nuovo», ricorda una fonte anonima che lavora da tempo in una società di consulenza per piccole e medie imprese. Dopo che Cdp aveva radunato le società di consulenze e le imprese già presenti in Africa chiedendo loro di presentare dei progetti da finanziare con il Fondo clima, a febbraio del 2024, la fonte ha raccolto una lunga e copiosa documentazione per tre progetti, la cui preparazione costa 50mila euro circa ciascuna. Ormai, sbotta la fonte, «sono due anni che ci fanno perdere soldi e tempo, è dal 2023 che ci dicono che questi fondi vanno alle imprese».

 

La realtà delle comunicazioni private

Non però nelle comunicazione private: lì i funzionari di Cdp fanno accenno alla verifica dei «vincoli di operatività» dei fondi, che potrebbero essere considerati tied aid, una dicitura data dall’Ocse che lega le risorse a determinate condizioni, e cioè che lo Stato beneficiario possa acquistare beni e servizi solo dal Paese donatore.

A gennaio del 2025, la fonte era così esasperata da decidere di rinunciare ai tre progetti presentati l’anno prima, salvo poi trovare un altro Paese finanziatore in Europa che potrebbe essere interessato a un progetto.

Infatti, da parte di Cdp, l’ente erogatore, e di altri rappresentanti del governo in Africa, l’atteggiamento verso le imprese è molto meno aperto rispetto alle dichiarazioni pubbliche di Meloni e del governo. Nelle corrispondenze intrattenute con le imprese, i rappresentanti degli enti coinvolti nel Piano Mattei da qualche tempo parlano apertamente di risorse del Fondo clima «destinate agli Stati, non ai privati».

 

Decisioni opache e criteri oscuri

Cosa significhi esattamente si è saputo il 17 giugno, quando Cdp ha incontrato i rappresentanti di alcune delle imprese che attendono l’approvazione dei progetti: «Ci hanno detto che per i progetti dove la controparte è governativa, le aziende italiane non possono accedere al Fondo clima – prosegue la fonte –. I fondi verranno dati a un governo [africano] che poi farà un bando che potrà essere vinto da chiunque, non per forza un’azienda italiana».

La restrizione si applica sui contratti Epc+f (Ingegneria, approvvigionamento, costruzione e finanziamento, in inglese), cioè accordi in cui l’appaltatore (l’impresa) è responsabile di tutte le attività, dalla progettazione all’approvvigionamento, dalla costruzione al finanziamento.

L’appaltatore fornisce una struttura completa per soddisfare i requisiti del partner pubblico, che finanzia fino al completamento del progetto. Stando agli esiti della riunione del 17 giugno, quindi, i beneficiari di progetti Ecp+f finanziati dal Fondo clima verranno decisi dai governi africani. «Se questa era la procedura di assegnazione non dovevano dirci che volevano aiutare le imprese italiane in Africa», chiosa la fonte.

Dalla Cabina di regia, una fonte coinvolta nella ricerca di partner tra i Paesi africani, anch’essa disponibile a parlare solo a garanzia dell’anonimato, conferma che per le pmi la difficoltà è «conoscere i processi di accesso al Fondo clima» perché «non c’è trasparenza». Nel complesso, però, la sua valutazione del Piano Mattei per quanto riguarda il coinvolgimento del settore privato è positiva.

Interrogata da IrpiMedia, Cdp ha dichiarato che la responsabilità di rispondere in merito al Fondo clima è in capo al Mase. Raggiunto via mail, però, nemmeno il ministero dell’Ambiente ha risposto. Nessun commento neppure dal Comitato tecnico a capo del Fondo.

Quanto valgono i criteri Rio Marker?

Secondo le informazioni accessibili dal sito del Mase, per far partire l’istruttoria per un progetto bisogna rivolgersi a Cdp che poi provvede a verificare «la sussistenza dei criteri di ammissibilità secondo la metodologia “Rio Marker”».

Si tratta di una metodologia messa in piedi dal Comitato per l’aiuto allo sviluppo (Dac) – un organo dell’Ocse composto da trenta membri che indirizza le politiche di cooperazione allo sviluppo e delinea linee guida e principi comuni, in collaborazione con il Segretariato della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc).

Questi indicatori consentono di identificare se un’attività contribuisce al raggiungimento degli obiettivi climatici e quindi merita un finanziamento. I punteggi, o indicatori, sono due:

Rio Marker 1 che ha come obiettivo la mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici e l’adattamento, e Rio Marker 2 che aggiunge ai primi due obiettivi la tutela della biodiversità e il contrasto alla desertificazione. L’indicazione Rio Marker viene fornita come 1 o 2 dalla società che presenta il progetto attraverso un climate assessment, il cui costo può variare a seconda delle consulenze richieste, sta poi a Cdp procedere alla valutazione tecnica ex post.

Il progetto che viene considerato da Cdp nella categoria 2, quindi, dovrebbe avere maggiori possibilità di ottenere un finanziamento.

Nel database dei progetti che rientrano nei criteri dell’Ocse, però, al momento gli ultimi dati sull’Italia risalgono al 2023, prima del lancio del Piano Mattei. Nella migliore delle ipotesi, quindi, sarà possibile conoscere i punteggi Rio Marker dei progetti del Piano Mattei a due anni di distanza dalla loro approvazione.

 

Caos Kenya

Dalla relazione del Piano Mattei del 2024, emerge che il Kenya abbia ricevuto finanziamenti per 260 milioni di euro. Uno dei primi progetti approvati è il Programma di riduzione delle aflatossine (sostanze tossiche prodotte da funghi che possono attaccare i cereali) finanziato con 50 milioni di euro (di cui 20 a fondo perduto). Un secondo progetto, dal valore di 75 milioni, riguarda «l’ampliamento della produzione di olio vegetale per biocarburanti» ed è realizzato da Eni Spa.

Secondo quanto è stato ricostruito da IrpiMedia, entrambi i progetti hanno ricevuto una lettera di interesse dell’esecutivo del Kenya. Non è chiaro però se il sostegno del Paese beneficiario per iscritto sia effettivamente un criterio di selezione dei progetti. Infatti non risulta scritto in nessun documento ufficiale. Interrogate sul punto, Cdp, Mase e segreteria del Piano Mattei non hanno commentato.

Per quanto riguarda Eni, il caso Kenya indica anche un’altra questione: la presunta mancanza di effettive coperture finanziarie. Durante l’assemblea degli azionisti che si è tenuta a maggio 2025, infatti, la società ha dichiarato che «ad oggi non è stato ricevuto alcun finanziamento dal Fondo italiano per il clima».

Un problema che non riguarda solo il Fondo clima, ma anche un cofinanziamento ottenuto da Eni nel maggio del 2024 dall’International Finance Corporation (Ifc), un gruppo della Banca Mondiale. Si tratta di 135 milioni di dollari ma, sempre secondo quanto dichiarato da Eni all’Assemblea degli azionisti, dall’Ifc «non è stata attivata alcuna risorsa». Alle richieste di IrpiMedia per avere conferma di quanto dichiarato da Eni, non hanno risposto né il governo italiano né l’Icf.


L’articolo originale è stato pubblicato da IRPImedia e fa parte dell’Osservatorio Eni, l’osservatorio permanente di A Sud che monitora le attività fossili di Eni, ne analizza gli impatti socio-ambientali e le reazioni di istituzioni e società civile.

Osservatorio Eni è sostenuto dai fondi Otto per Mille della Chiesa Valdese e dal Patagonia International Grants Program.

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