Mentre in Gran Bretagna l’assemblea degli azionisti di Shell è stata contestata dal vivo e in maniera spettacolare da un gruppo di ambientalist*, in Italia, secondo un’anticipazione di Repubblica, le assemblee di Eni potrebbero passare definitivamente alla modalità online, a quattro anni dalla scelta di chiudere le porte agli azionisti critici. L’assist del governo al cane a sei zampe è un ulteriore freno al dissenso, da ritenersi inaccettabile proprio mentre la crisi climatica ci ricorda che è il sistema che l’ha generata, basata sul modello estrattivista delle fonti fossili di cui Eni è regina, a dover esser messo in discussione. 

Per questo motivo riteniamo utile tornare sulle risposte fornite da Eni alle domande di A Sud, presentate anche quest’anno attraverso Fondazione Finanza Etica. Dopo le prime risposte siamo riusciti a formulare (avevamo un solo giorno di tempo a disposizione!) una serie di ulteriori quesiti, sui quali l’azienda ha continuato la sua pervicace opera di sottrazione: invece di entrare nel merito, Eni continua a formulare vaghe risposte che vorrebbero essere rassicuranti e che invece mettono in luce l’ostinazione di una politica industriale destinata prima a poi a scomparire. Noi però non ci limiteremo a guardare il disfacimento di Eni (e delle sorelle fossili) ma continueremo a spingere per una reale riconversione ecologica, sociale ed economica. 

Anche quest’anno, attraverso Fondazione Finanza Etica, A Sud ha partecipato all’assemblea degli azionisti di Eni. Lo abbiamo fatto, per il quarto anno consecutivo, in maniera virtuale: sì, perché mentre nei giorni scorsi l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha rimosso l’emergenza internazionale per la pandemia di Covid-19, il cane a sei zampe si è appigliato a un regalo del governo Meloni e ha chiuso nuovamente le porte agli azionisti critici, scegliendo di deliberare sul bilancio a porte chiuse. Impedita persino la possibilità di partecipare in streaming, abbiamo solamente potuto presentare le nostre domande sull’operato dell’azienda. Ecco cosa (non) ci hanno detto.

Passano gli anni ma Eni resta sempre la stessa: una multinazionale che fa dell’annuncio il perno delle politiche aziendali. Convinta com’è di irretire in questo modo le azioniste e gli azionisti nonché l’opinione pubblica, Eni si rifugia in quello che l’anno scorso abbiamo definitoun linguaggio formale, pieno di tecnicismi e risposte dilatorie”. È l’analoga sensazione che ne abbiamo ricavato tra ieri e oggi, quando abbiamo esaminato le risposte che l’azienda ha fornito alle domande che abbiamo posto prima dell’assemblea degli azionisti, che per il quarto anno consecutivo si terrà a porte chiuse, impedendo la partecipazione, sia fisica che virtuale, degli azionisti. Come A Sud, abbiamo inoltrato una serie di quesiti specifici dai luoghi in cui Eni opera, per verificare tra ciò che Eni dice di fare e ciò che Eni fa realmente. Ancora una volta spiace constatare che perfino la trasparenza, tanto decantata nei discorsi del cane a sei zampe, è un’utopia. Di più: per Eni le domande che arrivano dalla carne viva dei territori sono solamente l’ennesima occasione per ribadire che va tutto bene, che tutto è stato condotto nel migliore dei modi, che gli impatti ambientali, sociali ed economici di un’azienda fortemente ancorata alle fonti fossili sono quasi nulli.

Riportiamo qui alcune delle risposte che meno ci hanno convinto (seguirà una seconda parte).

eni on fire

Biocarburanti

Non è un mistero che dietro alla resistenza del governo Meloni sulla transizione dell’automotive verso l’elettrico ci sia Eni, che è già il secondo produttore europeo di olio vegetale idrogenato (Hvo) e punta a una capacità di bioraffinazione di oltre 5 milioni di tonnellate l’anno al 2030. Solo in Italia Eni possiede già due bioraffinerie: Porto Marghera, attiva dal 2014, e Gela, attiva dal 2019; mentre la terza, a Livorno, è nella fase di valutazione di impatto ambientale. Il modello è sempre lo stesso: da ex raffinerie di petrolio gli stabilimenti vengono riconvertiti a raffinerie in cui la materia prima è stata in gran parte olio di palma (fino a ottobre 2022) e adesso, invece, oli esausti e oli vegetali trattati. Si tratta dei cosiddetti biocarburanti di seconda generazione, utili, secondo l’azienda, per il trasporto pesante (soprattutto aviazione e marittimo). A noi però l’ennesima riproposizione coloniale: le materie prime necessarie ad alimentare questo presunto business energetico continuano ad arrivare da ogni parte del mondo.

Quel che è peggio è che in teoria i biocarburanti vengono preferiti ai carburanti tradizionali perché dovrebbero ridurre le emissioni nell’intero ciclo di vita. Ma quando abbiamo chiesto dettagli in più su questi calcoli ci è stato risposto che “l’iniziativa portata a termine in Tunisia è stata di carattere sperimentale” e che “i risultati ottenuti durante la sperimentazione sono in fase di valutazione per decidere su eventuali sviluppi futuri”. In più l’impronta carbonica è stata calcolata “secondo lo schema ISCC che consente di produrre una PoS (Proof of Sustainability) per ogni partita, tenendo conto dei contributi di tutta la catena”. Al di là dei tecnicismi, si tratta di una certificazione volontaria che ha riguardato un’analisi LCA (life cycle assessment), cioè dell’intero ciclo di vita, effettuata dalla società RINA. Ma Eni continua a rifiutarsi di rendere pubblica quest’analisi. Lo fa andando contro la direttiva europea CSRD che obbliga le grandi imprese europee a rendere pubblici i dati su come il loro modello di business impatta l’ambiente e le persone, nonché i nuovi indicatori di sostenibilità elaborati dall’Istituto di ricerca delle Nazioni Unite per lo sviluppo sociale, e considerato inoltre che a livello internazionale si lavora per favorire l’accessibilità e lo scambio gratuito e libero di dati LCA tramite banche dati pubbliche.

Tocca fidarsi, in pratica. Dati i trascorsi – nel 2019 Eni fu condannata dall’Antitrust per pubblicità ingannevole sulla prima versione del biodiesel – permetteteci di dubitarne. 

 

Fonte: ENI

Basilicata (gruppo ONU)

“Costruire un rapporto di fiducia tra l’azienda e la comunità”: era uno dei propositi che a ottobre 2022 si poteva leggere sul report del working group sui diritti umani e lavoro delle Nazioni Unite, che nel 2021 aveva viaggiato lungo numerosi luoghi di problematicità ambientali e lavorative – da Taranto a Foggia, passando per la Val d’Agri, Brindisi, Prato e Roma. In quell’occasione le relatrici e i relatori Onu avevano ascoltato sindacati, organizzazioni della società civile, istituzioni e imprese.

In Basilicata a essere messo sotto osservazione era stato il COVA, il Centro Oli della Val d’Agri, gestito da Eni. Dal report del working group si apprendeva poi che “l’azienda ha sottolineato i propri sforzi in materia di protezione ambientale e di coinvolgimento delle comunità. Tuttavia, sono necessari ulteriori sforzi da parte dell’Eni per condurre una due diligence significativa in materia di diritti umani e ambiente e per costruire un rapporto di fiducia tra l’azienda e la comunità, al fine di garantire la disponibilità di dati verificabili in modo indipendente per rispondere a qualsiasi preoccupazione legittima. Inoltre, le attività di monitoraggio devono essere svolte in modo trasparente dalle istituzioni competenti e i dati relativi agli sviluppi intorno al COVA devono essere resi ampiamente accessibili alla popolazione”. Insomma: quelle sollevate dal gruppo Onu erano sollecitazioni puntuali. Specie perché avvenivano in un contesto come quello lucano, sede di uno dei più grandi giacimenti petroliferi d’Europa, in una terra profondamente trasformata dall’arrivo del cane a sei zampe negli anni ‘90. E invece, con la protervia che le è propria, anche in questo caso l’azienda ha risposto che va tutto bene, che è già tutto pubblico e accessibile. Quando abbiamo insistito, ci è stato comunicato che “nella convinzione che le attività di Eni in Basilicata promuovano il pieno rispetto dei diritti umani, in un’ottica di continuo miglioramento, anche a seguito della visita del Working Group delle Nazioni Unite, Eni ha in programma ulteriori approfondimenti, al fine di rafforzare il proprio impegno nei confronti di questi temi”. Un impegno che però non dovrà restare un annuncio. Perché sono tante le contestazioni delle associazioni e della popolazione sui nuovi impianti di Eni in Basilicata, come il Blue Water che dovrà trattare i reflui petroliferi a ridosso del centro Oli di Viggiano. Noi continueremo a monitorare e a raccontare ciò che succede. Ed Eni dovrà fornire dettagli maggiori sugli “ulteriori approfondimenti”.

Come ridurre le emissioni? Con più gas!

Se vi piacciono gli spiegoni Eni ha quello che non fa per voi. All’azienda abbiamo chiesto come intende azzerare le emissioni di gas serra. Come saprete, proprio su questo tema il greenwashing è particolarmente nocivo: la crisi climatica in atto ci conferma che accanto a necessarie strategie di adattamento bisogna comunque perseguire l’obiettivo dell’azzeramento reale delle emissioni. E in Italia bisogna partire proprio dal cane a sei zampe, che da solo emette più dell’intero Stato italiano! Il nostro quesito era rivolto principalmente alle emissioni Scope 3, cioè le emissioni indirette che si verificano nella catena del valore di un’azienda: per intenderci, sono le più importanti e quelle più impattanti. Vale la pena riportare un ampio stralcio della risposta di Eni”. I target di riduzione delle emissioni scope 1+2+3 sono -35% al 2030 e -100% al 2050. Tali target sono il risultato di numerose leve di decarbonizzazione che hanno la loro efficacia in momenti temporali diversi. Dapprima avranno infatti impatto la riduzione dei volumi di prodotti oil (carburanti), grazie anche alla progressiva conversione delle nostre raffinerie in bioraffinerie, e la riduzione degli impegni di acquisto gas da terzi, progressivamente sostituiti da gas prodotto da progetti eni integrati. Rispetto a questo punto, proprio il business LNG sarà quello più sviluppato grazie alla capacità di valorizzare i nostri progetti gas, sviluppato soprattutto in paesi extra EU, necessario a sostituire le forniture oggi provenienti da terzi. Per quanto riguarda le produzioni di idrocarburi, il contributo alla riduzione delle emissioni si vedrà nel medio termine post 2030 grazie alla riduzione dei volumi, al maggiore contributo gas e alla capacità di decarbonizzare tali forniture, ad esempio con processi di CCS”. Tutto chiaro? Non proprio? Proviamo a dare una chiave di lettura. Le emissioni dovrebbero abbassarsi da qui al 2030 di poco più di un terzo, per poi colmare i successivi due terzi nei successivi 20 anni. Ma il momento in cui concentrare gli sforzi è ora: l’Organizzazione Mondiale Meteorologica ha reso noto che nei prossimi cinque anni la Terra sperimenterà nuovi record di temperatura e probabilmente già entro il 2027 il riscaldamento globale supererà gli 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, una soglia oltre la quale potrebbero esserci conseguenze disastrose per il Pianeta e la specie umana. Di fronte a uno scenario così drammatico, Eni continua a prendere tempo, promettendo soluzioni mirabolanti quando sarà ormai troppo tardi. Ma soprattutto lo fa con metodi a dir poco sballati. Come si riducono le emissioni secondo Eni? Producendo più gas! Ma niente paura, sarà gas rigorosamente a sei zampe e non più acquistato da terzi.

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