Le risposte di Eni alle contro - domande di A Sud

Mentre in Gran Bretagna l’assemblea degli azionisti di Shell è stata contestata dal vivo e in maniera spettacolare da un gruppo di ambientalist*, in Italia, secondo un’anticipazione di Repubblica, le assemblee di Eni potrebbero passare definitivamente alla modalità online, a quattro anni dalla scelta di chiudere le porte agli azionisti critici. L’assist del governo al cane a sei zampe è un ulteriore freno al dissenso, da ritenersi inaccettabile proprio mentre la crisi climatica ci ricorda che è il sistema che l’ha generata, basata sul modello estrattivista delle fonti fossili di cui Eni è regina, a dover esser messo in discussione. 

Per questo motivo riteniamo utile tornare sulle risposte fornite da Eni alle domande di A Sud, presentate anche quest’anno attraverso Fondazione Finanza Etica. Dopo le prime risposte siamo riusciti a formulare (avevamo un solo giorno di tempo a disposizione!) una serie di ulteriori quesiti, sui quali l’azienda ha continuato la sua pervicace opera di sottrazione: invece di entrare nel merito, Eni continua a formulare vaghe risposte che vorrebbero essere rassicuranti e che invece mettono in luce l’ostinazione di una politica industriale destinata prima a poi a scomparire. Noi però non ci limiteremo a guardare il disfacimento di Eni (e delle sorelle fossili) ma continueremo a spingere per una reale riconversione ecologica, sociale ed economica. 

Anche quest’anno, attraverso Fondazione Finanza Etica, A Sud ha partecipato all’assemblea degli azionisti di Eni. Lo abbiamo fatto, per il quarto anno consecutivo, in maniera virtuale: sì, perché mentre nei giorni scorsi l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha rimosso l’emergenza internazionale per la pandemia di Covid-19, il cane a sei zampe si è appigliato a un regalo del governo Meloni e ha chiuso nuovamente le porte agli azionisti critici, scegliendo di deliberare sul bilancio a porte chiuse. Impedita persino la possibilità di partecipare in streaming, abbiamo solamente potuto presentare le nostre domande sull’operato dell’azienda. Ecco cosa (non) ci hanno detto.

Passano gli anni ma Eni resta sempre la stessa: una multinazionale che fa dell’annuncio il perno delle politiche aziendali. Convinta com’è di irretire in questo modo le azioniste e gli azionisti nonché l’opinione pubblica, Eni si rifugia in quello che l’anno scorso abbiamo definitoun linguaggio formale, pieno di tecnicismi e risposte dilatorie”. È l’analoga sensazione che ne abbiamo ricavato tra ieri e oggi, quando abbiamo esaminato le risposte che l’azienda ha fornito alle domande che abbiamo posto prima dell’assemblea degli azionisti, che per il quarto anno consecutivo si terrà a porte chiuse, impedendo la partecipazione, sia fisica che virtuale, degli azionisti. Come A Sud, abbiamo inoltrato una serie di quesiti specifici dai luoghi in cui Eni opera, per verificare tra ciò che Eni dice di fare e ciò che Eni fa realmente. Ancora una volta spiace constatare che perfino la trasparenza, tanto decantata nei discorsi del cane a sei zampe, è un’utopia. Di più: per Eni le domande che arrivano dalla carne viva dei territori sono solamente l’ennesima occasione per ribadire che va tutto bene, che tutto è stato condotto nel migliore dei modi, che gli impatti ambientali, sociali ed economici di un’azienda fortemente ancorata alle fonti fossili sono quasi nulli.

Riportiamo qui alcune delle risposte che meno ci hanno convinto (seguirà una seconda parte).

eni on fire

Biocarburanti

Non è un mistero che dietro alla resistenza del governo Meloni sulla transizione dell’automotive verso l’elettrico ci sia Eni, che è già il secondo produttore europeo di olio vegetale idrogenato (Hvo) e punta a una capacità di bioraffinazione di oltre 5 milioni di tonnellate l’anno al 2030. Solo in Italia Eni possiede già due bioraffinerie: Porto Marghera, attiva dal 2014, e Gela, attiva dal 2019; mentre la terza, a Livorno, è nella fase di valutazione di impatto ambientale. Il modello è sempre lo stesso: da ex raffinerie di petrolio gli stabilimenti vengono riconvertiti a raffinerie in cui la materia prima è stata in gran parte olio di palma (fino a ottobre 2022) e adesso, invece, oli esausti e oli vegetali trattati. Si tratta dei cosiddetti biocarburanti di seconda generazione, utili, secondo l’azienda, per il trasporto pesante (soprattutto aviazione e marittimo). A noi però l’ennesima riproposizione coloniale: le materie prime necessarie ad alimentare questo presunto business energetico continuano ad arrivare da ogni parte del mondo.

Quel che è peggio è che in teoria i biocarburanti vengono preferiti ai carburanti tradizionali perché dovrebbero ridurre le emissioni nell’intero ciclo di vita. Ma quando abbiamo chiesto dettagli in più su questi calcoli ci è stato risposto che “l’iniziativa portata a termine in Tunisia è stata di carattere sperimentale” e che “i risultati ottenuti durante la sperimentazione sono in fase di valutazione per decidere su eventuali sviluppi futuri”. In più l’impronta carbonica è stata calcolata “secondo lo schema ISCC che consente di produrre una PoS (Proof of Sustainability) per ogni partita, tenendo conto dei contributi di tutta la catena”. Al di là dei tecnicismi, si tratta di una certificazione volontaria che ha riguardato un’analisi LCA (life cycle assessment), cioè dell’intero ciclo di vita, effettuata dalla società RINA. Ma Eni continua a rifiutarsi di rendere pubblica quest’analisi. Lo fa andando contro la direttiva europea CSRD che obbliga le grandi imprese europee a rendere pubblici i dati su come il loro modello di business impatta l’ambiente e le persone, nonché i nuovi indicatori di sostenibilità elaborati dall’Istituto di ricerca delle Nazioni Unite per lo sviluppo sociale, e considerato inoltre che a livello internazionale si lavora per favorire l’accessibilità e lo scambio gratuito e libero di dati LCA tramite banche dati pubbliche.

Tocca fidarsi, in pratica. Dati i trascorsi – nel 2019 Eni fu condannata dall’Antitrust per pubblicità ingannevole sulla prima versione del biodiesel – permetteteci di dubitarne. 

 

Fonte: ENI

Basilicata (gruppo ONU)

“Costruire un rapporto di fiducia tra l’azienda e la comunità”: era uno dei propositi che a ottobre 2022 si poteva leggere sul report del working group sui diritti umani e lavoro delle Nazioni Unite, che nel 2021 aveva viaggiato lungo numerosi luoghi di problematicità ambientali e lavorative – da Taranto a Foggia, passando per la Val d’Agri, Brindisi, Prato e Roma. In quell’occasione le relatrici e i relatori Onu avevano ascoltato sindacati, organizzazioni della società civile, istituzioni e imprese.

In Basilicata a essere messo sotto osservazione era stato il COVA, il Centro Oli della Val d’Agri, gestito da Eni. Dal report del working group si apprendeva poi che “l’azienda ha sottolineato i propri sforzi in materia di protezione ambientale e di coinvolgimento delle comunità. Tuttavia, sono necessari ulteriori sforzi da parte dell’Eni per condurre una due diligence significativa in materia di diritti umani e ambiente e per costruire un rapporto di fiducia tra l’azienda e la comunità, al fine di garantire la disponibilità di dati verificabili in modo indipendente per rispondere a qualsiasi preoccupazione legittima. Inoltre, le attività di monitoraggio devono essere svolte in modo trasparente dalle istituzioni competenti e i dati relativi agli sviluppi intorno al COVA devono essere resi ampiamente accessibili alla popolazione”. Insomma: quelle sollevate dal gruppo Onu erano sollecitazioni puntuali. Specie perché avvenivano in un contesto come quello lucano, sede di uno dei più grandi giacimenti petroliferi d’Europa, in una terra profondamente trasformata dall’arrivo del cane a sei zampe negli anni ‘90. E invece, con la protervia che le è propria, anche in questo caso l’azienda ha risposto che va tutto bene, che è già tutto pubblico e accessibile. Quando abbiamo insistito, ci è stato comunicato che “nella convinzione che le attività di Eni in Basilicata promuovano il pieno rispetto dei diritti umani, in un’ottica di continuo miglioramento, anche a seguito della visita del Working Group delle Nazioni Unite, Eni ha in programma ulteriori approfondimenti, al fine di rafforzare il proprio impegno nei confronti di questi temi”. Un impegno che però non dovrà restare un annuncio. Perché sono tante le contestazioni delle associazioni e della popolazione sui nuovi impianti di Eni in Basilicata, come il Blue Water che dovrà trattare i reflui petroliferi a ridosso del centro Oli di Viggiano. Noi continueremo a monitorare e a raccontare ciò che succede. Ed Eni dovrà fornire dettagli maggiori sugli “ulteriori approfondimenti”.

Come ridurre le emissioni? Con più gas!

Se vi piacciono gli spiegoni Eni ha quello che non fa per voi. All’azienda abbiamo chiesto come intende azzerare le emissioni di gas serra. Come saprete, proprio su questo tema il greenwashing è particolarmente nocivo: la crisi climatica in atto ci conferma che accanto a necessarie strategie di adattamento bisogna comunque perseguire l’obiettivo dell’azzeramento reale delle emissioni. E in Italia bisogna partire proprio dal cane a sei zampe, che da solo emette più dell’intero Stato italiano! Il nostro quesito era rivolto principalmente alle emissioni Scope 3, cioè le emissioni indirette che si verificano nella catena del valore di un’azienda: per intenderci, sono le più importanti e quelle più impattanti. Vale la pena riportare un ampio stralcio della risposta di Eni”. I target di riduzione delle emissioni scope 1+2+3 sono -35% al 2030 e -100% al 2050. Tali target sono il risultato di numerose leve di decarbonizzazione che hanno la loro efficacia in momenti temporali diversi. Dapprima avranno infatti impatto la riduzione dei volumi di prodotti oil (carburanti), grazie anche alla progressiva conversione delle nostre raffinerie in bioraffinerie, e la riduzione degli impegni di acquisto gas da terzi, progressivamente sostituiti da gas prodotto da progetti eni integrati. Rispetto a questo punto, proprio il business LNG sarà quello più sviluppato grazie alla capacità di valorizzare i nostri progetti gas, sviluppato soprattutto in paesi extra EU, necessario a sostituire le forniture oggi provenienti da terzi. Per quanto riguarda le produzioni di idrocarburi, il contributo alla riduzione delle emissioni si vedrà nel medio termine post 2030 grazie alla riduzione dei volumi, al maggiore contributo gas e alla capacità di decarbonizzare tali forniture, ad esempio con processi di CCS”. Tutto chiaro? Non proprio? Proviamo a dare una chiave di lettura. Le emissioni dovrebbero abbassarsi da qui al 2030 di poco più di un terzo, per poi colmare i successivi due terzi nei successivi 20 anni. Ma il momento in cui concentrare gli sforzi è ora: l’Organizzazione Mondiale Meteorologica ha reso noto che nei prossimi cinque anni la Terra sperimenterà nuovi record di temperatura e probabilmente già entro il 2027 il riscaldamento globale supererà gli 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, una soglia oltre la quale potrebbero esserci conseguenze disastrose per il Pianeta e la specie umana. Di fronte a uno scenario così drammatico, Eni continua a prendere tempo, promettendo soluzioni mirabolanti quando sarà ormai troppo tardi. Ma soprattutto lo fa con metodi a dir poco sballati. Come si riducono le emissioni secondo Eni? Producendo più gas! Ma niente paura, sarà gas rigorosamente a sei zampe e non più acquistato da terzi.

Le risposte di Eni alle domande di A Sud

Abbiamo presentato le nostre domande a Eni, partecipando all’assemblea annuale degli azionisti. Ecco cosa (non) ci hanno detto.

Anche quest’anno, attraverso Fondazione Finanza Etica, A Sud ha partecipato all’assemblea degli azionisti di Eni. Lo abbiamo fatto, per il quarto anno consecutivo, in maniera virtuale: sì, perché mentre nei giorni scorsi l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha rimosso l’emergenza internazionale per la pandemia di Covid-19, il cane a sei zampe si è appigliato a un regalo del governo Meloni e ha chiuso nuovamente le porte agli azionisti critici, scegliendo di deliberare sul bilancio a porte chiuse. Impedita persino la possibilità di partecipare in streaming, abbiamo solamente potuto presentare le nostre domande sull’operato dell’azienda. Ecco cosa (non) ci hanno detto.

Passano gli anni ma Eni resta sempre la stessa: una multinazionale che fa dell’annuncio il perno delle politiche aziendali. Convinta com’è di irretire in questo modo le azioniste e gli azionisti nonché l’opinione pubblica, Eni si rifugia in quello che l’anno scorso abbiamo definitoun linguaggio formale, pieno di tecnicismi e risposte dilatorie”. È l’analoga sensazione che ne abbiamo ricavato tra ieri e oggi, quando abbiamo esaminato le risposte che l’azienda ha fornito alle domande che abbiamo posto prima dell’assemblea degli azionisti, che per il quarto anno consecutivo si terrà a porte chiuse, impedendo la partecipazione, sia fisica che virtuale, degli azionisti. Come A Sud, abbiamo inoltrato una serie di quesiti specifici dai luoghi in cui Eni opera, per verificare tra ciò che Eni dice di fare e ciò che Eni fa realmente. Ancora una volta spiace constatare che perfino la trasparenza, tanto decantata nei discorsi del cane a sei zampe, è un’utopia. Di più: per Eni le domande che arrivano dalla carne viva dei territori sono solamente l’ennesima occasione per ribadire che va tutto bene, che tutto è stato condotto nel migliore dei modi, che gli impatti ambientali, sociali ed economici di un’azienda fortemente ancorata alle fonti fossili sono quasi nulli.

Riportiamo qui alcune delle risposte che meno ci hanno convinto (seguirà una seconda parte).

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GELA

Partiamo da uno dei territori più emblematici di come Eni intende la propria attività industriale. Sono passati quasi 10 anni dalla chiusura dell’ex raffineria, l’ultimo residuo degli impianti voluti da Enrico Mattei in persona. A fronte dei lasciti rimasti irrisolti – le bonifiche non attuate, i drammatici dati sulla salute della popolazione (con picchi di tumori e malformazioni), la mancata riconversione dei lavoratori – gli interessi economici dell’azienda sono sulla bioraffineria, attiva dal 2019, e sul gasdotto Argo-Cassiopea. Eni ci ha confermato che la produzione di gas sarà attiva dalla prima metà del 2024. E pazienza se, dalle prime autorizzazioni risalenti al 2014, si sono susseguiti gli appelli dell’IPCC e dell’Agenzia Internazionale dell’Energia a bloccare nuovi impianti di petrolio e gas. Nello specifico, poi, sul golfo di Gela uno studio del 2018 ha rilevato “perturbazioni nell’ambito degli ecosistemi marini da parte delle attività industriali presenti a Gela” e concentrazioni preoccupanti di uranio 238 e di torio 234. Per Eni quel che conta è che le varie autorizzazioni di questi anni  “confermano la piena compatibilità ambientale del progetto”. La crisi climatica e le preoccupazioni della popolazione possono attendere. 

Nessuna fretta, invece, per le prescrizioni ambientali sancite dal Comune di Gela a seguito del rilascio delle autorizzazioni su Argo-Cassiopea. Queste, infatti, “vanno avanti in parallelo ai lavori di realizzazione dell’impianto”, mentre sarebbe stato auspicabile, e logico, che venissero realizzate prima della posa della prima pietra del gasdotto.

Nessuna fretta pure sulle mille promesse di Eni in questi anni. Anzi, è colpa di qualcun altro! L’impianto di terapia intensiva promesso a marzo 2020 e ancora non realizzato? Colpa della lentezza delle autorizzazioni. Il banco alimentare promesso a maggio 2021? Colpa dei permessi non rilasciati. Una sede adeguata per il master universitario (e oneroso) fatto partire da Eni e dalla Kore di Enna? Colpa del Comune che non sa decidersi.

Va tutto così bene a Gela, almeno per l’azienda, che perfino sul rinvio a giudizio a dicembre 2022 di dodici dirigenti e responsabili appartenenti a Eni Rewind – con l’accusa di mancata bonifica per l’impianto di trattamento dell’acqua di falda (un progetto che risale al 2004!) – “la società ritiene che in relazione al procedimento richiamato non vi sia alcuna necessità di operare modifiche nella struttura ovvero nel management”.

RAVENNA

Quello della città romagnola è un mistero che avremmo voluto risolvere ma Eni continua a tenerci sulle spine. Abbiamo chiesto all’azienda di indicarci come intende finanziare il progetto di cattura, uso stoccaggio di carbonio che prevede, dopo l’avvio della fase pilota, l’iniezione di 4 milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno a partire dal 2027. Se da una parte Eni continua a magnificare le sorti della tecnologia CCUS (nonostante i molti studi contrari che si susseguono da anni), dall’altra spiega che servono “politiche di sostegno per promuovere la decarbonizzazione che nel caso della cattura e stoccaggio della CO2 risulta imprescindibile per i settori industriali hard to abate”. Vale a dire che senza soldi pubblici l’impianto non regge. E allora proprio per questo Eni dovrebbe indicarci dove vuole prendere i soldi. E invece, dopo il mancato finanziamento attraverso l’Innovation Found e la prima versione del PNRR, il cane a sei zampe si mantiene vago. Negli scorsi mesi Eni ha partecipato a una cabina di regia, convocata dal governo Meloni, sul nuovo capitolo REPower EU del PNRR. Insieme ad altre aziende partecipate, Eni ha presentato alcune “proposte progettuali concrete e di realizzazione nei tempi previsti dal Piano”. Quali sono queste opere? C’è anche l’impianto di Ravenna? Di fronte a due domande che ci sembravano persino banali nella loro semplicità, dato che riguardano la transizione ecologica, Eni rimbalza la palla al governo, scrivendo che dovrà essere lui “a rendere note le proprie decisioni non appena avrà vagliato e selezionato, fra le diverse proposte ricevute, quelle che intenderà accogliere”. Capito? Parlate col governo, non con noi. Come se il socio di maggioranza relativa di Eni non fosse lo Stato italiano, come se la conferma di Claudio Descalzi ad amministratore delegato non fosse stata decisa dal governo Meloni.

VIVA IL MERCATO!

Di italiano, a Eni, è rimasto solo il cuore (nero), qualunque cosa significhi. Nel senso che le scelte della multinazionale energetica più potente d’Italia vanno sempre verso gli azionisti, e i loro interessi, sacrificando quelli delle persone impattate dalle attività dell’azienda. Ne è prova la vicenda del gas a prezzo calmierato. Ricordate la vicenda? Nella scorsa legislatura il governo Draghi, visti i prezzi del gas alle stelle, aveva annunciato di voler sostenere le imprese in difficoltà. Era stato lo stesso premier, tra l’altro, a parlare per primo di extraprofitti l’anno scorso. L’obiettivo era di tassare le entrate più alte riportate dalle aziende energetiche nel 2022, che avevano approfittato appunto dell’aumento del prezzo del gas sul mercato internazionale di Amsterdam. Inoltre col decreto Aiuti Quater il governo Draghi aveva, scrive la stessa Eni, “modificato e integrato la disciplina sull’approvvigionamento di lungo termine di gas naturale di produzione nazionale, da destinare a prezzi calmierati, ai clienti finali industriali  energivori”. In pratica le aziende come Eni, che in Italia è uno dei principali fornitori di gas, avrebbe dovuto venderlo alle aziende in difficoltà a prezzi ridotti rispetto a quelli, insostenibili, sanciti dal mercato. Sarebbe stata una scelta auspicabile, seppur insufficiente, che almeno però avrebbe potuto far leva sulla parte pubblica dell’azienda. E invece è la stessa Eni a informarci che, in attesa dei decreti attuativi che il governo Meloni non ha ancora emanato, Eni deve ancora valutare l’adesione all’iniziativa. Ciò perché “Eni opera sul mercato secondo le regole definite dalle autorità preposte e secondo i consolidati principi del mercato stesso e della concorrenza trasparente”. Come a dire: pagherete il gas, lo pagherete caro e lo pagherete tutto. Senza sconti. 

 

Per approfondire, le domande e le risposte sono disponibili qui

Le risposte di Eni alle domande di A Sud

Attraverso Fondazione Finanza Etica, abbiamo presentato una serie di domande, provenienti in gran parte dai territori, per poter valutare in maniera più precisa l’operato di Eni e conoscere le intenzioni dell’azienda al di là della comunicazione. Anche nel 2022, per il terzo anno consecutivo, l’assemblea si terrà a porte chiuse, senza neppure la possibilità di una diretta online né tantomeno di una replica. Così dobbiamo accontentarci di una versione a sei zampe che ci lascia insoddisfatti e che su certi punti, anzi, aumenta le preoccupazioni.

Quando si leggono le risposte che Eni fornisce agli azionisti, in vista dell’assemblea che si tiene intorno a metà maggio, si resta sempre un po’ attoniti. Nei confronti delle domande che arrivano da ong e singoli, spesso critici con le attività della multinazionale energetica, il cane a sei zampe riserva un linguaggio formale, pieno di tecnicismi e risposte dilatorie. Dimostrandosi un’azienda senz’anima, attenta solo a compiacere chi contribuisce al suo bilancio miliardario.

 

Extraprofitti

Non potevamo non partire da uno dei temi che ha fatto più discutere (e di cui abbiamo scritto qui), vale a dire gli extraprofitti conseguiti da Eni dal 2021. A nostro avviso, quella che l’analista finanziario Alfonso Scarano ha definito una “rendita parassitaria” andrebbe totalmente redistribuita nei territori in cui Eni opera. Ed è stata la prima domanda che abbiamo posto. Nonostante i bilanci siano lì a testimoniarlo – nel primo trimestre 2022 è la stessa Eni a scrivere che sono stati conseguiti utili per 3 miliardi di euro in più rispetto al primo trimestre 2021 – l’azienda prima ci ha riservato un lungo spiegone per poi affermare, incredibile a dirsi, che “riteniamo di non aver realizzato extraprofitti dall’attività di rivendita di gas”. Bontà loro, ci hanno pure spiegato che “gli investimenti sul territorio sono un impegno costante dell’Eni che non viene meno nemmeno negli anni più difficili quali il 2020 caratterizzato dalla crisi del COVID (dove il Gruppo registrò perdite nette di oltre 8 miliardi di euro)”. Dunque dovremmo solo ringraziare il cane a sei zampe … come se le attività industriali non fossero proseguite anche nei periodi più critici della pandemia, come se l’azienda non abbia estratto valore dai territori anche quando questi hanno dovuto fermarsi.

 

Abruzzo

Ad aprile ha fatto discutere la scoperta, resa pubblica dal programma tv Report, di perdite in atmosfera della centrale gas Eni a Pineto, in provincia di Teramo. L’impianto di Eni tra l’altro era stato già oggetto di un precedente scoop della Reuters lo scorso anno, con le immagini di una grossa perdita da un serbatoio che avevano fatto il giro del mondo. Alla domanda se era possibile pretendere una riparazione definitiva, Eni ci ha rassicurato affermando che “attraverso un intervento di manutenzione, la perdita è stata prontamente e definitivamente riparata”. E le emissioni sono state monitorate? Sì, risponde Eni, e si è “evidenziato un valore non significativo”, che però non viene specificato. È lecito avere qualche dubbio, dato che ci sono volute due denunce giornalistiche prima che l’azienda provvedesse a tappare definitivamente il buco?

Sollecitati da alcuni attivisti del territorio, abbiamo poi posto una domanda precisa: a Ortona Eni possiede ancora il pozzo Granciaro 001, nel campo Miglianico, anche se questo non è più allacciato. Se è così, abbiamo chiesto, perché Eni non rinuncia al pozzo e lo restituisce all’uso collettivo? L’azienda ha risposto che “sono in corso rivalutazioni per l’eventuale utilizzo futuro del pozzo nell’ambito della concessione Miglianico, anche alla luce delle nuove norme contenute nel PiTESAI”. Francamente non comprendiamo quale sia il nesso con il PiTESAI, visto che il Piano voluto dal governo si limita a indicare l’area abruzzese come idonea per eventuali nuove esplorazioni. Si tratta di una notizia che preoccupa non poco, visto che nella prima decade degli anni ‘2000 l’intenzione di Eni e delle amministrazioni locali era quella di costruire a Ortona, proprio a partire dal pozzo Miglianico e in una zona ad alto valore naturalistico, un centro oli. Ricordiamo infine che già l’attuale deposito oli, sempre di proprietà di Eni, sorge a fianco delle riserve naturali di Ripari di Giobbe e di Acquabella.

 

Gela e Licata

È forse il capitolo più corposo e significativo. Come abbiamo già scritto, Gela si appresta a diventare la capitale italiana del gas attraverso il gasdotto Argo-Cassiopea su cui punta molto anche il governo Draghi. L’azienda spiega che “nel 2023 è prevista l’installazione del gasdotto” mentre “l’avvio della produzione di gas è previsto nel 2024”. Intanto Eni smitizza la credenza per cui il gas italiano dovrebbe costare meno rispetto a quello acquistato a livello internazionale: ha infatti annunciato di essere “in attesa di verificare le condizioni di applicazioni” della richiesta, fatta dal governo italiano col decreto Energia, di “cedere il gas a prezzi ragionevoli”. Il cane a sei zampe, dunque, non intende “regalare nulla”. Ha pure confermato che “non è prevista erogazione di royalties ai Comuni” interessati dal gasdotto. È vero che ciò vale per tutte le produzioni naturali di gas in mare, così come previsto dalla legge. Ma così l’azienda chiude ulteriormente ogni porta a un territorio come Gela, ancora in difficoltà dopo la chiusura della raffineria nel 2014.

Figurarsi che, dopo tre anni di sperimentazioni del progetto pilota waste to fuel (che ricava acqua dal trattamento della frazione organica dei rifiuti), Eni fa comprendere che l’eventuale produzione industriale potrebbe non restare a Gela, dato che si limita a scrivere che “la realizzazione degli impianti industriali avverrà in funzione dei fabbisogni e delle condizioni di mercato”.
Intanto, però, “è stata chiesta la proroga della concessione fino al 2028” per le estrazioni di petrolio dagli impianti a terra. Dunque Eni continua a considerare Gela come terra di estrazione di petrolio e gas, senza sviluppare altri impianti industriali.

A dir la verità l’unico reale impianto “alternativo” è la cosiddetta green refinery, che dall’1 gennaio sarà costretta a non trattare più, come avviene da tre anni, olio di palma proveniente dall’Indonesia. Con cosa sostituirlo? Avremmo auspicato soluzioni più circolari e a filiera corta. E invece la nuova materia prima della “bioraffineria” sarà olio di ricino proveniente dall’Africa. Scrive Eni che “l’olio di ricino, durante la prima fase di produzione, che durerà un anno, sarà trasportato con flexibag che viaggeranno via mare e saranno scaricati nei porti di Palermo e Catania. Successivamente, all’incrementarsi dei volumi, il trasporto avverrà via nave”. Addirittura l’azienda spiega che “sono in fase di perfezionamento i calcoli emissivi associati” di tali trasporti. Di fronte a questa mancanza di valutazione, l’azienda poi prova a rimediare aggiungendo che si tratta in ogni caso di valori “comunque sensibilmente inferiori, lungo l’intera catena produttiva, rispetto ad altri feedstock di origine vegetale che saranno spiazzati da queste nuove disponibilità”. Ma come fanno a conoscerli se non li hanno calcolati?

Lo stesso approccio poco attento al territorio si evince infine dal corso di laurea magistrale in “Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio”, che Eni dovrebbe realizzare in convenzione con l’università Kore di Enna. A parte i ritardi nella realizzazione, che il cane a sei zampe imputa all’università, a precisa domanda l’azienda scrive che “Eni, avendo supportato tutti i costi relativi alla ristrutturazione e rifunzionalizzazione della sede che ospiterà i corsi di studi, non ha previsto agevolazioni per gli studenti gelesi”.

 

Taranto

Dalle risposte di Eni apprendiamo che la città pugliese sarà oggetto di numerose sperimentazioni. La più degna di nota è l’intesa siglata a ottobre 2021 tra Comune di Taranto, Kyma e Eni, che “mira a sviluppare una serie di iniziative in vari ambiti tra cui: l’individuazione di soluzioni integrate per la mobilità sostenibile nel trasporto pubblico locale, attraverso l’utilizzo di biocarburanti e di biometano per la flotta Kyma, l’installazione di colonnine per la ricarica elettrica dei mezzi del trasporto pubblico e l’ottimizzazione della raccolta dei rifiuti di interesse energetico (UCO)”. I tavoli tecnici sono però stati sospesi a causa dello scioglimento del Comune, e dovrebbero riprendere dopo le elezioni.

Il resto è ancora più fumoso. “Per quanto riguarda il tema della decarbonizzazione del settore marittimo – si legge nelle risposte dell’azienda – Eni ha presentato una manifestazione di interesse finalizzata ad acquisire eventuali dati necessari alla valutazione della riduzione dell’impronta carbonica delle attività portuali”.

Senza esito, poi, una sperimentazione avviata nel 2019 su quattro mezzi di raccolta dei rifiuti, alimentati dal biocarburante Eni Diesel +, per capire se convenisse rispetto al diesel classico. Dopo sei mesi di monitoraggio dei rifornimenti e dei percorsi, la sperimentazione ha dato risultati contrastanti “non consentendo così di giungere a conclusioni univoche”. Viene dunque da chiedersi: ma è lo stesso Eni Diesel + che l’azienda continua a magnificare nelle pubblicità? Tuttavia l’azienda intende ora “stimolare l’adozione di nuove tecnologie di start up finalizzate alla produzione di biocarburanti da macro-alghe”.

 

Basilicata

“Il Distretto Meridionale (DIME) si è dotato di strumenti dedicati all’ascolto delle esigenze degli stakeholder secondo le Linee Guida internazionali, come il Grievance Mechanism, che consente di ricevere, indagare, rispondere e risolvere reclami o lamentele in modo tempestivo ed equo, e lo Stakeholder Management System, che consente di “mappare” gli stakeholder e di individuare criticità e temi rilevanti, al fine di predisporre azioni di risposta o di comunicazione ad hoc”.

Difficile immaginare una risposta più lontana dai territori, eppure è la difesa di Eni alle osservazioni del gruppo Onu sui diritti umani. Lo scorso ottobre una delegazione è stata in Val D’Agri e poco dopo il presidente del working group, il professor Surya Deva, ha dichiarato che in Basilicata “i vertici aziendali devono uscire dagli uffici e mettersi in ascolto”. Non sembra che il consiglio sia stato recepito, tanto che Eni continua a indicare come strumento di ascolto e di comunicazione il nuovo sito e la nuova app, mentre quando abbiamo chiesto di indicarci le migliori pratiche industriali adottate in Val D’Agri ci è stato fornito un lungo elenco, composto però quasi esclusivamente da strumenti digitali.

Intanto il cane a sei zampe informa che “non sono previsti nuovi sviluppi a gas in Basilicata”. O, meglio, “il gas prodotto attualmente da Eni proviene esclusivamente dal giacimento della Val d‘Agri”. Resta da capire, però, se il giacimento verrà ulteriormente “spremuto”, e in che modalità, vista la sete di gas a livello nazionale.

 

Ravenna

Un mistero a sei zampe: potrebbe titolarsi così la storia dell’impianto ccs di Ravenna, che dovrà occuparsi della cattura e dello stoccaggio di carbonio. Annunciato due anni fa, non è ancora possibile consultare neppure una scheda tecnica del progetto, nonostante Eni lo preveda in tutti gli ultimi documenti interni. Abbiamo perciò chiesto qualche informazione in più. Scrive Eni che

“la Fase 1, in accordo con la normativa vigente, ha l’obiettivo di iniettare circa 25 mila tonnellate l’anno di CO2 provenienti dalla centrale a gas Eni di Casal Borsetti, fino al massimo di 100 mila tonnellate totali. Lo start-up è previsto entro il 2023 a valle dell’ottenimento delle necessarie autorizzazioni. Questa fase sarà finanziata con capitale proprio. La Fase 2 prevede a partire dalla metà del 2027 l’iniezione di 4 milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno, che potrà essere incrementate in seguito in funzione della richiesta che verrà dal mercato. L’iniziativa sarà rivolta inizialmente alla decarbonizzazione del settore industriale del Nord Italia, ma la grande capacità di stoccaggio dei giacimenti a gas depletati in Adriatico superiore a 500 milioni di tonnellate potrebbe consentire di abbattere significativamente le emissioni hard to abate di altri poli industriali Il progetto Ravenna CCS ha il solo e unico scopo di evitare le emissioni in atmosfera di gas serra provenienti da attività industriali, e i giacimenti esauriti coinvolti nel progetto saranno convertiti in modo permanente ed irreversibile a questo fine. L’utilizzo dell’anidride carbonica a fini estrattivi non è previsto né compatibile con l’attività di stoccaggio del progetto”.

La buona notizia è che Eni esclude l’uso della Co2 per rivitalizzare i giacimenti esausti, come pure avviene in altre parti del mondo. Accanto a ciò restano i dubbi sul mega progetto in cui potrebbe arenarsi l’azienda, dato che un impianto così grande è inedito per questa tecnologia e che la stessa suscita, anche a livello scientifico, più perplessità che certezze. In un recente report il think thank Ecco l’ha definita una tecnologia “costosa, insufficiente e insicura”.

Per approfondire, le domande e le risposte sono disponibili qui.