Il rapporto pubblicato dal centro di ricerca SOMO, in collaborazione con l’ong Friends of the Earth Europe, ha analizzato i bilanci dal 2010 al 2023 di 841 società quotate in borsa. In Italia è Eni a fare scuola in questo modello finanziario che dà priorità alla ricchezza di pochi a scapito del pianeta


Con Eni e più in generale le multinazionali da tempo ci si è abituati all’idea che il profitto di pochi conti più della salute del pianeta e di chi lo vive. O, per dirla in un altro modo, “il problema è dare priorità all’azionista a discapito degli investimenti”. A dirla in questa seconda maniera più soft, che però conferma la forma più radicale della prima affermazione, è un rapporto pubblicato da SOMO, un centro di ricerca che dal 1973 monitora l’operato delle multinazionali con l’obiettivo, come si legge sul proprio sito, di “un mondo equo e sostenibile in cui gli interessi pubblici prevalgono sugli interessi aziendali”.

Ed è attraverso questa lente che si possono leggere le 17 pagine del report “Shareholders over solutions – How big industry favours payouts over the energy transition”. Co-firmato da SOMO e Friends of the Earth Europe, il report analizza i bilanci di 841 società quotate in Europa e le cui attività riguardano i settori chiave della transizione energetica: dall’automotive all’energia, dall’estrazione ai servizi. Il periodo preso in esame va dal 2010 al 2023. E il risultato principale è che le aziende continuano a perseguire gli interessi finanziari invece che favorire la produzione industriale. Più precisamente su 2100 miliardi di euro di utili netto oltre il 75%, vale a dire 1600 miliardi di euro, è stato distribuito tra gli azionisti. Come scrive Rodrigo Fernandez, senior reseacher di SOMO, “queste aziende danno priorità a ingenti pagamenti agli azionisti anziché investire nelle proprie attività e adattarsi alla transizione energetica”.

 

Numeri che rovesciano la narrazione

Un dato che non sorprende, e di cui anche su EconomiaCircolare.com abbiamo più volte scritto. Tuttavia il merito principale del report di SOMO e FEE è di aver rovesciato, attraverso la forza dei numeri, la narrazione sostenuta non solo dalle stesse aziende ma anche dai governi e dai giornali mainstream. Altro che eccessiva ambizione ecologica dell’Unione Europea col Green Deal o mancato sostegno pubblico alla transizione energetica: la verità è che fino a quando alle aziende verrà consentito di mettere al primo (se non unico) posto il profitto, per far gongolare poche persone a discapito delle moltitudini, il collasso climatico proseguirà senza sosta. E in questo senso il ruolo dell’Unione Europea può essere fondamentale.

 

Non mancano i soldi, manca la giusta allocazione

Il 26 febbraio la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen svelerà al mondo il tanto atteso Clean Industrial Deal. si tratta di un piano pluriennale che intende supportare le industrie europee ad alta intensità energetica (come acciaio, alluminio e cemento). Un  nuovo Green Deal? Non proprio. Secondo diverse analisi, infatti, sarà molto più pragmatico o, per dirla in altro modo, più attento alle esigenze delle industrie. A ricordarlo è lo stesso reporto di SOMO e FEE.

“Si prevede che questo pacchetto di politiche segua il tenore della Dichiarazione di Anversa, un documento di lobbying approvato da oltre 1.000 delle aziende più influenti di Europa e Stati Uniti, insieme alle principali associazioni imprenditoriali – si legge – La dichiarazione sostiene un cambiamento fondamentale nella politica industriale dell’UE, basato su due pilastri chiave: un maggiore accesso al capitale per le aziende e una riforma normativa. Fortemente sostenuta dall’industria, definisce il finanziamento pubblico come essenziale per le aziende per finanziare i loro piani di transizione energetica”.

 

La falsa narrazione della scarsità di capitale

A sostenere questa ultima tesi è anche il rapporto Draghi, che ha costitutito la base della bussola per la competitività illustrata da von der Leyen poco essere stata rieletta, e che sostanzialmente sostiene l’urgente necessità di fondi pubblici per “ridurre il rischio” degli investimenti privati. Che però, nel frattempo, si sono fortemente ridotti perché si è preferito arricchire ulteriormente i già lauti guadagni degli azionisti. Secondo l’indagine di SOMO e Friends of the Earth Europe la realtà è ben diversa da come ci è stata finora raccontata.

Eni 1

“Nonostante le loro affermazioni contrarie, le principali aziende europee nei settori chiave della transizione energetica hanno già un accesso sostanziale al capitale – scrive Rodrigo Fernandez, senior researcher di SOMO – Le prove dimostrano che il problema principale non è la mancanza di accesso al capitale, ma un’errata allocazione delle risorse finanziarie esistenti. Queste aziende danno priorità a ingenti pagamenti agli azionisti anziché investire nelle proprie attività e adattarsi alla transizione energetica. Nel periodo di 13 anni da noi esaminato, l’insieme totale di 841 società quotate in borsa nei settori chiave della transizione energetica ha generato 49,4 trilioni di euro di vendite combinate, ha realizzato 2,1 trilioni di euro di utile netto combinato e ha distribuito 1,6 trilioni di euro agli azionisti, che corrispondono al 75,3% dei loro utili netti totali. Dall’accordo di Parigi del 2015, questa tendenza si è intensificata. Gli utili netti collettivi hanno raggiunto 1,4 trilioni di euro, con 1,1 trilioni di euro pagati agli azionisti. Il pagamento agli azionisti (dividendi e riacquisto di azioni) è aumentato costantemente come quota del fatturato dal 2,4% nel 2010 al 4,4% nel 2023. Allo stesso tempo, la transizione energetica ha distribuito il 97% (Shell), l’86% (Total Energies) e il 40% (Mercedes-Benz Group AG) dei propri profitti agli azionisti”.

 

Il (mancato) ruolo dell’Unione Europea

Per oltre 40 anni – prosegue la denuncia – la governance aziendale ha dato priorità agli azionisti, determinando distribuzioni record attraverso dividendi e riacquisti di azioni. Questo approccio distoglie fondi da investimenti, salari, tasse e ricerca e sviluppo, portando a imprese vuote. Il nostro rapporto rivela che i tassi di investimento sono diminuiti costantemente, in media, dal 18,4% nel 2010 al 14,9% nel 2023. Nonostante ciò, le attuali politiche continuano a sovvenzionare le aziende che privilegiano i profitti degli azionisti rispetto alla sostenibilità a lungo termine. Il problema è sistemico. Non si tratta solo di distribuzioni che superano gli investimenti, ma di un modello finanziario che dà priorità ai guadagni degli azionisti a breve termine a scapito del nostro futuro collettivo”.

 

Una via d’uscita collettiva

Eppure la chiave per uscire fuori da questa spirale autodistruttiva esiste. Ed è lì, sotto gli occhi di tutte e tutti: i fondi pubblici devono (dovrebbero) servire a garantire interessi collettivi. E’ proprio perseguendo tale auspicabile obiettivo che l’UE potrebbe davvero porsi leader della transizione ecologica, come troppe volte ha dichiarato ipocritamente in passato. Una svolta che in un’era di autoritarismi nazionalisti e retroguardia ambientale porrebbe le istituzioni europee all’avanguardia.

“Interrompendo il ciclo di eccessivi compensi degli azionisti e implementando strategie di investimento pubblico responsabili – si legge ancora – l’UE può garantire che i fondi pubblici siano utilizzati in modo efficace per costruire un futuro sostenibile ed equo. Invece di fornire fondi pubblici incondizionati a società guidate dagli azionisti e già redditizie, l’UE deve:

  • Allineare gli investimenti pubblici e privati ​​con la supervisione democratica, assicurando chiare condizioni sociali e ambientali.
  • Dare priorità agli investimenti pubblici e al controllo nei settori chiave piuttosto che semplicemente ridurre il rischio degli investimenti privati.
  • Imporre condizioni severe a qualsiasi finanziamento pubblico per garantire che venga utilizzato per investimenti genuini, non per pagamenti agli azionisti.
  • Spostare il sostegno verso le industrie decarbonizzate e ritenere gli inquinatori responsabili dei danni ambientali”

Insomma: è tempo di politiche coraggiose e di investimenti responsabili. Affinché si possano bilanciare “le esigenze delle persone, del pianeta e dell’economia” e non si ricorra ancora a  “sussidi che avvantaggiano in modo sproporzionato i pochi ricchi a spese dei molti”.

Purtroppo in Italia c’è una multinazionale che della finanziarizzazione dei propri bilanci ha fatto scuola.

Di chi fa gli interessi un’azienda come Eni?

Delle 841 aziende esaminate dal report Shareholders over solutions ce n’è una che, a dirla tutta, non ci sorprende. Di più: non ci sorprende neppure sapere che è tra quelle che “hanno pagato dividendi agli azionisti che hanno superato i loro profitti netti”. Di chi parliamo? Di Eni, ovviamente. Proprio nel 2023, ultimo anno preso in esame dal report, il cane a sei zampe è diventata la più ricca azienda italiana, come ha accertato Mebiobanca, con un fatturato di 93,7 miliardi di euro. Dal 2021 al 2024 Eni ha ottenuto più di 40 miliardi di euro di profitti, in gran parte redistribuiti agli azionisti e con continue operazioni di buyback (acquisto di azioni proprie).

Con tali enormi profitti il management avrebbe potuto perseguire due strade a livello industriale: mantenere e potenziare l’assetto fossile o riconvertire gli asset più inquinanti e meno produttivi. Non solo si è perseguita la prima opzione ma tutti i rami aziendali che non sono dedicati a petrolio e gas sono stati “messi in vetrina” per poterne ricavare ulteriori e immediati profitti, invece di favorire ambiti meno monetizzabili come ricerca e sviluppo.

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Fonte: screen dal report “Shareholders over solution”

Un futuro in svendita

E’ il caso, ad esempio, di Enilive, il cui logo azzurro campeggia da anni al festival di  Sanremo e nei campi di calcio della serie A maschile. Enilive è la società di Eni che si occupa dei servizi legati alla mobilità: dai biocarburanti al car-sharing Enjoy fino alla cucina gourmet delle stazioni di rifornimento. Negli scorsi giorni Eni ha annunciato di aver firmato un accordo per un incremento della partecipazione del fondo finanziario statunitense KKR in Enilive: un ulteriore 5% che fa salire la presenza di KKR al 30%. Come denuncia sui social l’esperto di finanza Alessandro Volpi, KKR è “il fondo avvoltoio che già possiede il 60% della ‘nuova’ Tim e che ha comprato e chiuso stabilimenti in varie parti d’Italia”. E, come ha osservato il senatore del M5s Pietro Lorefice, “l’operazione è stata accompagnata da festanti dichiarazioni dei vertici di Enilive che annunciano ulteriori iniziative per ‘rendere i business legati alla transizione energetica appetibili per futuri partner industriali e finanziari’”.

D’altra parte l’operazione di Enilive non è neanche l’unica: la stessa operazione era già avvenuta nel 2024 con Plenitude, la società che si occupa di vendita al dettaglio di gas ed energia elettrica, il cui 10% è stato ceduto al fondo svizzero EIP. Infine, secondo un’anticipazione del Corriere che non è stata smentita da Eni, l’amministratore delegato Claudio Descalzi potrebbe cedere fino al 49% di  Enibioch4in, la società che si occupa di biometano; in lizza fondi francesi e tedeschi. Caustico il commento del senatore Lorefice: “ma sì, mettiamo tutto in vetrina e cuciniamo un ghiotto spezzatino al prossimo offerente (…) Pezzi di paese se ne vanno in saldo, facendo posto a chi intende estrarre valore dalle nostre comunità e dai nostri asset promettendo di restituirne un po’. Sappiamo tutti come andrà a finire”.

 

Da Mattei a Descalzi: la parabola di Eni

Una previsione che sa di Cassandra. E che tuttavia potrebbe essere smentita dalla più importante e influente azienda italiana. Che nel passato, quando era governata da Enrico Mattei, osava e tracciava rotte inedite, e che negli ultimi anni invece si limita a imitare le tendenze delle altre aziende fossili. Cercando pure di accaparrarsi fondi pubblici – come nel caso dei biocarburanti e della cattura e lo stoccaggio di carbonio, come abbiamo testimoniato con l’associazione A Sud attraverso l’Osservatorio Eni. Con uno scopo, quindi: destinare i proventi di questi fondi pubblici a fondi finanziari esteri. In quella che appare una vera e propria migrazione di denaro dal pubblico al privato. Il governo dell’interesse nazionale non ha nulla da eccepire?


L’articolo originale è stato pubblicato da EconomiaCircolare.com e fa parte dell’Osservatorio Eni, l’osservatorio permanente di A Sud che monitora le attività fossili di Eni, ne analizza gli impatti socio-ambientali e le reazioni di istituzioni e società civile.

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