La strada per la pace passa attraverso il femminismo e l’ecologismo
“Chi non fa nulla per la pace, chi non fa nulla per l’ambiente, implicitamente ci invita a rassegnarci a questo stato di cose, a rinchiuderci nel ‘qui e ora’, senza esplorare con lo sguardo né lo spazio né il tempo. E quindi si capisce molto bene che taccia, che non prenda parte, che parli di rado e solo con pochi argomenti stereotipati, che non agiti né pensieri, né bandiere, che faccia appello soltanto ad una solidarietà silenziosa”. Sono parole di Laura Conti, partigiana, scrittrice e deputata che ha incarnato il nesso tra pacifismo, femminismo ed ecologismo, un nesso oggi più che mai attuale e utile a fornire prospettive diverse per capire la guerra che stiamo vivendo.
Partiamo da un dato: la Russia ha le più grandi riserve mondiali di gas naturale. L’Europa dipende dal gas russo per il 40 per cento circa delle importazioni. In Italia la percentuale sale al 45 per cento, ed è cresciuta costantemente, quasi raddoppiando, nell’ultimo decennio. Oggi improvvisamente l’Europa scopre e condanna, dopo essersi girata dall’altra parte per anni, la politica militare aggressiva di Mosca, la repressione dell’opposizione, le violazioni sistematiche dei diritti umani compiute da un uomo al potere dal 1999. Per vent’anni, fino all’aggressione all’Ucraina, le ragioni economiche hanno prevalso sulla tutela dei diritti umani e dei processi democratici; sulle crisi umanitarie, l’avanzare dell’emergenza climatica e l’acuirsi delle disuguaglianze.
Ora che ci ritroviamo in guerra, cosa possiamo fare da femministe ed ecologiste per non “rinchiuderci nel qui e ora”, per non accettare passivamente ciò che accade? Dire no alla guerra è il primo passo. Dobbiamo rifiutare il nazionalismo, il militarismo, l’accaparramento delle risorse e le gerarchie di genere che implicano, rifiutare le semplificazioni fatte in nome della guerra e sottrarci alla richiesta di aderire in modo acritico alle decisioni degli uomini (soli) al comando. Mandare armi non è la risposta: è distruggere ogni possibilità di diplomazia, è partecipare al braccio di ferro che si gioca sulla pelle dei civili.
In questo contesto, il femminismo non è teoria, ma pratica di relazione: sfidare la “solidarietà silenziosa” vuol dire essere coinvolte, entrare in relazione con le donne, che più subiscono la guerra. Secondo l’Onu i profughi ucraini sono già più di un milione e sono destinati a crescere. Ma sarebbe più corretto parlare di profughe, visto che si tratta principalmente di donne e bambini. Vengono in italia per ricongiungersi a parenti e conoscenti, anche in questo caso soprattutto donne. Sono circa 177mila le ucraine residenti nel nostro paese, il 37 per cento del totale europeo (dati Eurostat 2020). Queste donne sono oggi un riparo per chi è in fuga: chiediamoci e, soprattutto, chiediamogli come possiamo sostenerle. Moltissime sono anche le donne che in Ucraina combattono, rappresentano tra il 15 e il 20 per cento dell’esercito, un numero che stona con la retorica del maschio eroe usata per riempire titoli e pagine di giornali.
Intanto in Russia le donne sono protagoniste dell’opposizione alla guerra e a Putin: in un appello diffuso nei giorni scorsi le femministe russe affermano di essere state meno colpite dalla repressione rispetto ad altri gruppi, perché in quanto donne sono considerate innocue da un potere maschilista. Ora organizzano le proteste, chiedono solidarietà internazionale, di condividere e dare visibilità alle manifestazioni, di non essere lasciate sole. “Siamo l’opposizione alla guerra, al patriarcato, all’autoritarismo, al militarismo. Siamo il futuro che prevarrà”, scrivono Ascolto, solidarietà, relazione sono alla portata di ognuna e ognuno di noi. Fare qualcosa con loro e per loro vuol dire fare qualcosa per la pace.
Se vogliamo la pace, dobbiamo mobilitarci per l’ambiente. Il conflitto sta confermando quanto è lontano un futuro libero dai combustibili fossili e dal potere politico e militare che deriva dal loro controllo. Ci stiamo dimenticando che guerra e crisi climatica sono prodotti dello stesso sistema, basato su sfruttamento, concentrazione di potere e risorse, devastazione ambientale e violazione dei diritti. Il conflitto peggiorerà la crisi climatica; l’urgenza dettata dalla guerra rischia di far passare in secondo piano l’urgenza di un’azione forte per contrastare l’emergenza climatica. Le prime risposte alla crisi energetica lo dimostrano: rilancio della produzione nazionale, tutta petrolio e gas, ritorno al carbone, corsa ad accaparrarsi accordi con nuovi fornitori come (nel caso dell’Italia) Stati Uniti, Algeria, Azerbaigian. Se pensiamo di risolvere l’emergenza percorrendo la stessa strada che ci ha portati fin qui, commettiamo un grosso errore.