La Cop-flop si chiude senza impegni
A Sud: “Non possiamo aspettare le loro decisioni. Portiamo gli Stati in tribunale”
Il Commento di A Sud a conclusione della Cop26: «L’Italia deve triplicare gli sforzi per ridurre le emissioni».
Dopo il susseguirsi di bozze, la COP26 arriva al documento finale ma si tratta di un preoccupante passo indietro su tutti i fronti. Il vertice di Glasgow elabora risposte vaghe e non all’altezza della sfida: dalla road map di decarbonizzazione, al ruolo delle fonti fossili, fino alle regole per implementare l’accordo o alla finanza climatica. La COP scozzese sarà ricordata come l’ennesima occasione persa nella corsa contro il tempo per fermare l’emergenza climatica. E l’Italia non fa meglio.
La questione centrale resta quella degli obiettivi di riduzione delle emissioni. Nel documento finale resta il riferimento agli 1,5 °C di mantenimento della temperatura entro il 2030, ma si tratta di un’intenzione non sostenuta da impegni. Perché di nuovo quell’obiettivo è indicato solo come “raggiungibile”, ma non vincolante. E soprattutto, non è legato alla necessità, per i paesi, di tagliare la quantità di emissioni necessaria a realizzarlo. Come a dire: certo sarebbe bellissimo arrivarci ma ad assumere impegni pensiamo – forse – la prossima volta.
Occorrerà attendere infatti altri 12 mesi, la fine del 2022, per fare un bilancio sulla revisione (si spera al rialzo) degli NDC nazionali, ovvero dei contributi di riduzione delle emissioni che ogni Paese parte è chiamato a elaborare.
Nel frattempo, nel capitolo dedicato alla mitigazione si accenna alla riduzione al 2030 delle emissioni di gas a effetto serra, invitando ad accelerare l’eliminazione dell’energia prodotta da quelle fonti la cui tecnologia “non permette di abbattere le emissioni”. Tradotto: riduciamo il carbone ma via libera al gas e alle tecnologie come la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica. Tecnologie che non risolvono il problema ma lo spostano in avanti nel tempo, oppure dall’atmosfera al sottosuolo.
Con le decisioni in campo, includendo anche i timidi passi di Glasgow, gli scenari a fine secolo sono desolanti. Dai +2,4°C calcolati dal CAT ai quasi +5°C prospettati nel peggior scenario IPCC al 2100. Significa indicatori climatici impazziti, migrazioni di massa, conflitti armati. La fine del mondo per come lo conosciamo.
«Gli impegni presi a Glasgow spostano ancora in avanti gli orologi rimandando ai prossimi incontri la decisione più importante: l’aumento dei target di riduzione delle emissioni. Non c’è neanche l’ombra dell’atteso accordo globale sul phase out dal carbone. Sul metano il passo avanti è minimo. I 5,7 trilioni di dollari di sussidi globali alle fonti fossili potranno continuare ad essere erogati senza disturbo. A meno che non siano “inefficienti” dunque degni di essere “gradualmente” eliminati. Il multilateralismo sarà pure faticoso e basato sul compromesso, ma l’incapacità di mettere sul tavolo impegni concreti ha un prezzo troppo alto da pagare, è un futuro di devastazione imposto come destino a tutti i popoli del pianeta» commenta Marica Di Pierri, portavoce di A Sud.
Dal testo finale sono poi spariti i 100 miliardi promessi entro il 2023 ai Paesi meno sviluppati (less developed). Un impegno formulato per la prima volta nel 2009 alla COP15 di Copenaghen e confermato a Parigi nel 2015, ma da allora mai tradotto in realtà. Per Laura Greco, presidente di A Sud «è incredibile che anche a Glasgow, come in tutte le occasioni precedenti, una volta arrivati al punto, i paesi industrializzati si siano tirati indietro, non riconoscendo le proprie responsabilità storiche e ignorando che il trasferimento di fondi e tecnologie è essenziale per correggere il carico di ingiustizia e di violazione dei diritti umani che l’emergenza climatica scarica sui paesi più vulnerabili».
Anche i pochi punti che rappresentano dei seppur timidi passi avanti, ad esempio l’accordo per fermare la deforestazione al 2030 o il mini accordo sul metano hanno un limite non da poco: sono manifestazioni di intenti non vincolanti e senza l’esistenza di meccanismi di controllo e sanzione la loro implementazione resta tutta da vedere.
Per questo riteniamo che non ci sia scelta. Non possiamo sperare in una risposta dall’alto. Dobbiamo agire. Dobbiamo fare causa agli Stati, alle imprese, ai rappresentanti delle aziende fossili, e costringerli per via giudiziaria a rispondere in Tribunale delle loro responsabilità.
L’Italia passerà alla storia per quello che non ha deciso
L’Italia esce dalla COP26 collezionando strette di mano, selfie, sorrisi ma poco altro. Si è sfilata dall’accordo sul settore automotive per un’uscita rapida dalla produzione di veicoli a benzina e il nostro ministro è tornato a parlare di nucleare come panacea di tutti i mali e del gas come migliore amico della transizione.
Quando si è trattato di prendere posizione sulle fonti fossili Cingolani è tornato a fare spallucce: all’alleanza BOGA (Beyon Oil and Gas Alliance), che punta a una graduale eliminazione della produzione di petrolio e gas attraverso obiettivi tangibili e misurabili, il nostro Paese darà il suo sostegno “as a friend” ovvero come osservatore esterno, senza impegnarsi a prendere alcuna decisione.
Ad oggi, a politiche correnti, l’Italia ridurrà di appena il 26% le emissioni al 2030, circa la metà del più blando dei target raccomandati della comunità scientifica. Con il PNIEC ha previsto di aumentare la percentuale al 36%, ma il piano implementativo langue. Se tutti i Paesi seguissero il nostro esempio lo scenario a fine secolo sarebbe torrido, con +3 °C di temperature medie. Calcolando il carbon budget dell’Italia e le sue responsabilità storiche, in uno studio commissionato da A Sud, Climate Analytics, una delle più importanti organizzazioni che si occupano di ricerca sul clima, ha calcolato che il nostro paese dovrebbe diminuire le sue emissioni di ben il 92% entro il 2030 per poter rimanere in linea con gli accordi di Parigi. Più del triplo di quanto attualmente in campo.
«L’Italia non è un buon esempio in ambito climatico. Anche in questi negoziati si è distinta per ciò che non ha voluto decidere. Non stupisce, dato che al di là di una retorica istituzionale molto green, è tra i Paesi europei che nel PNRR investe meno sulla cosiddetta transizione energetica. Abbiamo target di riduzione ridicoli, continuiamo a parlare di nucleare mentre tutto il mondo ci chiede di puntare sulle fonti rinnovabili. Preferiamo voltarci dall’altra parte anche di fronte ai disastri climatici che sempre più spesso riguardano il nostro territorio. Da questa consapevolezza ha preso le mosse Giudizio Universale, l’azione legale climatica che abbiamo promosso contro lo Stato. Chiediamo al giudice di dichiarare che l’Italia è responsabile di inazione climatica e che i target di riduzione nazionali vanno rafforzati senza rimandare oltre. Il 14 dicembre saremo in tribunale a Roma per la prima udienza. Visto che i luoghi di governance non bastano, porteremo le rivendicazioni di giustizia climatica nelle piazze e nei tribunali», conclude la portavoce di A Sud Marica Di Pierri.
Nei giorni scorsi a sostegno della causa contro lo Stato è stata lanciata una petizione su Change.org per chiedere al governo Italiano di aumentare considerevolmente i suoi obiettivi di riduzione delle emissioni clima-alteranti.
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