Come ti senti, a livello emotivo, come insegnante nel 2024 con l’inizio del nuovo anno scolastico?

La prima parola che mi viene in mente è “persa”. Nel senso di “perdita del tempo”, abbiamo questa grossa interruzione estiva che ci restituisce il tempo per leggere e ritrovarci, ma sappiamo che sarà praticamente impossibile avere questo tempo durante l’anno scolastico, anche se dovrebbe essere assolutamente essenziale per il lavoro di un’insegnante. Il lavoro per come si è strutturato negli ultimi anni è infatti pieno denso di appuntamenti burocratici, funzioni aggiuntive necessarie perché la scuola vada avanti, compiti organizzativi e compiti legati a progetti. Sono attività indispensabili ma che non sono retribuite adeguatamente. Questo rende molto difficile fare un lavoro che per essere svolto al meglio richiede tante ore. Sappiamo che la qualità della vita corrisponde anche alla qualità che uno può mettere nel lavoro. Le nostre retribuzioni sono tuttavia le più basse d’Europa. 

E quindi sono preoccupata, perché nei primi giorni di scuola, quando rientriamo e ci confrontiamo sul da farsi, gli elementi più scabrosi riguardano proprio la mancanza di risorse umane. 

Noi iniziamo un percorso senza sapere ancora quali saranno lə insegnanti che completeranno il nostro orario. Questo significa che non solo non puoi programmare le attività ma neanche condividere un’idea su come impostare una classe.

Ad esempio ho la fortuna di avere un collega che copre la maggior parte delle ore che non svolgo io, su quaranta in totale. Nonostante questo io svolgo 22 ore, lui 11 e le ore rimanenti le deve coprire un insegnante che non conosco. Se quindi noi diamo per scontato di lavorare su una classe cooperativa, in cui i bambini si aiutano, in cui la programmazione si basa su quello che portano, sulle loro esperienze ed intuizioni, non so se poi mi troverò davanti ad un insegnante che non conosce queste pratiche ed è in grado solo di fare lezioni frontale classica. Questo lo saprò non so quando. Come non so quando arriverà un’altra figura che ancora oggi manca, che è quella del sostegno. La disabilità verrà quindi affidata ad una persona che ancora non conosciamo e che quindi non conosce il gruppo, la classe, i bambini. È una situazione che non può realmente iniziare, perché manca il lavoro collettivo. 

Tutte le classi si trovano in questa situazione, perché il precariato è un fatto endemico, che sarebbe risolvibile in maniera molto semplice. Prima di dare indicazioni sui massimi sistemi servirebbe prima garantire una struttura. Io penso che la struttura materiale venga prima della sovrastruttura, e la struttura materiale è fatta dal personale scolastico che ci lavora e che in questo momento è precario. Ad esempio, un altro argomento dei primi giorni di scuola è: cosa fare quando qualcuno di noi si ammala? Quando ci sono le assenze, che sono naturalmente endemiche, chi ci sostituisce? Nella primaria la regola è che mai sarà nominato qualcuno il primo giorno. Questo vuol dire che il primo giorno alcune classi verranno sicuramente smembrate in gruppi di 5 persone e mandate in altre classi. Prendo come esempio la mia classe che è una terza. Nel caso dovesse succedere, a chi andrà bene, sarà assegnata una classe dello stesso anno, gli altri si troveranno a dover far lezioni negli anni successivi, nelle quarte. Questo avviene attraverso un trasporto caotico tra bidelli, banchi e materiali che mancano. 

Un’ultima preoccupazione riguarda la continuità. È molto triste pensare che il metodo cooperativo che cerchiamo di trasmettere, nonostante questa situazione precaria, verrà cancellato con un colpo di spugna non appena finiranno le elementari. Noi cerchiamo di impostare fin dall’inizio della prima elementare un lavoro di autonomia anche del corpo, ad esempio per far decidere direttamente allə bambinə quando andare in bagno, senza il bisogno di chiedere il permesso, attraverso l’accordo collettivo della classe, oppure 

per renderli autonomi nell’andare nei laboratori. Poi quando arrivano alle medie, per fare qualsiasi cosa devono chiedere il permesso, non possono uscire dalla classe. Noi proviamo a portare avanti un discorso ma poi tutto il resto della scuola lo azzera, ancora di più nelle scuole superiori. La soggettività e autonomia degli studenti è considerata un impiccio, l’importante è trasmettere i contenuti e presentare le discipline. 

Le nuove proposte del ministro Valditara, dalla reintroduzione del voto numerico e dell’utilizzo punitivo del voto in condotta fino alla definizione di nuove indicazioni nazionali, che puntano sulla valorizzazione di un’identità italiana, sembrano delineare un cambiamento significativo per il mondo scolastico. Qual è la tua opinione a riguardo? 

Ogni ministro vuole lasciare un ricordo di sé. Alle loro dichiarazioni va data quindi la debita considerazione perché sono il segnale di quello che poi vive la nazione in generale, rispetto alle questione sull’accoglienza e la cittadinanza per esempio, e la scuola copre sicuramente una parte importante. 

Mi sembra che queste dichiarazioni provino a semplificare una realtà che è estremamente complessa. Per quanto mi riguarda, che lavoro alla scuola Pisacane (IC Salacone di Roma) dal 2008, in un contesto multiculturale in cui si incontrano 19 diverse cittadinanze, è impossibile pensare di prescindere dalle lingue, dal pensiero creato da una cultura diversa dalla mia. E mi sembra una semplificazione che ci porta ai dibattiti ottocenteschi. La scuola da quando si è formata si è bloccata proprio su questo dibattito anche linguistico: si doveva dare accesso ai dialetti italiani oppure si doveva dare accesso all’unica lingua nazionale, quella toscana? Sembra che periodicamente si debba tornare a questioni di questo tipo, senza mai risolverle. Io penso, al contrario, che la dialettica sia sempre necessaria. Non toglie niente all’esistere di un luogo e di una lingua. L’identità è fatta da chi ci sta, e se dellə bambinə parlano tante lingue bisognerebbe trovare una maniera di valorizzare questo aspetto. 

Questo genere di proposte identitarie invece mi paiono degli spot, fatti per creare una questione nuova, quando in realtà si tratta di una questione a cui la scuola ha sempre risposto partendo da chi c’è. L’identità italiana non è infatti qualcosa di astratto, ma cambia a seconda delle epoche storiche. Abbiamo la possibilità di vivere e di creare la cultura italiana nella maniera in cui si vive adesso e con le persone che ci stanno. Le raccomandazioni sono quindi banali e non capisco come dovrebbero tradursi, non capisco cosa intendono loro per identità italiana..

Quindi da un lato prendo le dichiarazioni con serietà, perché è un segnale politico che va attenzionato, però dall’altro lato lo vivo allo stesso modo in cui nel 2010 la Gelmini fece il provvedimento per il tetto del 30% degli alunni stranieri per classe: semplicemente è impraticabile per come viene descritto. Per questo voglio continuare a fare scuola per come l’ho vissuta. Noi continueremo ad impegnarci per fare ogni anno la festa della lingua madre e incontri culturali caratterizzati dalla condivisione reciproca. 

La scuola deve essere un laboratorio, non può essere qualcosa che si pensa e si attua. Non può avere una matrice idealista a cui una forma si applica per tutti uguale. Questo discorso è fortemente collegato al discorso della disciplina e del voto in condotta. In queste proposte si presuppone che lə studenti siano tutti uguali. In questo modo non si riesce mai a entrarci davvero in relazione. Al contrario, si ignora che un comportamento potenzialmente sanzionabile per le regole disciplinari, è in realtà una forma di comunicazione, di linguaggio, un elemento in cui strutturare il rapporto educativo. Se un bambino tira un banco per aria, probabilmente vuole dire qualcosa. Se io gli metto 5 in comportamento non ho risolto niente a lui, a me e alla scuola. Invece, se io in quel momento mi fermo e il gruppo riesce a dialogare, tenendo in conto di tutte le difficoltà, si sta facendo un lavoro educativo. La “sala professori” è un film che riesce a cogliere molto bene questo aspetto, perché ritrae una scuola molto ben organizzata, con regole precise caratterizzate dal metodo “tolleranza zero”. Queste regole portano a gestire con rigidità una situazione che potrebbe essere semplice, provocando lo smarrimento del ragazzo più bravo della classe. 

È esattamente ciò che si rischia mettendo in atto questa cosa, soprattutto nei ragazzi più grandi. Gli adolescenti hanno fragilità enormi in questa fase storica. Ai miei tempi eravamo tanti ed organizzati. Quindi qualsiasi cosa di strano facessero gli adulti, ci sentivamo molto forti. Adesso invece gli adulti occupano ancora tutti i posti che dovrebbero essere dei giovani. A scuola si entra di ruolo molto più tardi rispetto a prima, anche a 50 anni. 

In questo contesto, come rispondi a questa fragilità? Con la sanzione? L’adulto nel percorso scolastico, come figura di riferimento presente per molti anni, non dovrebbe sanzionare, ma accompagnare il ragazzo in tutte le crisi di trasformazione che la crescita comporta. 

Questo discorso per me vale anche per i casi estremi di teppismo. Piuttosto che sanzionare dovremmo andare a vedere il contesto sociale: nel nostro quartiere, Torpignattara, ci sono famiglie che vivono di spaccio e bambinə che crescono con quella cultura familiare di sopraffazione, violenza e illegalità. Qual è il nostro ruolo in questo? Non sono già abbastanza sanzionati? Prendere sul serio il fatto di essere un’istituzione significa assumersi un compito, che nel nostro caso è quello educativo. Il nostro compito è educare, non fare i poliziotti. Inoltre chi sta zitto non è detto che stia bene, non è che essere bravi e buoni è una garanzia di benessere personale e della scuola.

Credo quindi che proposte non siano strutturate dal punto di vista del mestiere che facciamo, ma siano solo parole con cui il governo vuole dimostrare di saper gestire e risolvere la situazione, creando invece soluzioni impraticabili. 

 

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