Come ti senti, a livello emotivo, come insegnante nel 2024 con l’inizio del nuovo anno scolastico?

 

Io sono un insegnante di scuola primaria di ruolo, con un contratto a tempo indeterminato. Quest’anno avrò una quarta che mi porto dietro dalla prima elementare, e ho la fortuna di avere questa bellissima cosa che molti insegnanti e bambinə purtroppo non hanno: la continuità. Nonostante questo, da un punto di vista emotivo mi sento molto provato. Lo considero un bellissimo lavoro, si lavora sempre con bambinə e con soggetti in formazione, si cerca di dare opportunità a chi non le ha da un punto di vista sociale. Questo è davvero molto gratificante. Ma a volte fatico molto per via della troppa burocrazia e della scarsa comunicazione che a volte si instaura tra insegnanti e genitori, tra colleghi, tra colleghi e dirigenza. La mia scuola, la Pisacane, può essere considerata un’isola felice, visto che c’è un continuo scambio tra la comunità educante, cosa che non tutte le scuole e il territorio riescono a fare. Si tratta dell’istituto che porta il nome di Simonetta Salacone, le cui idee sono un faro che ci illumina la strada da intraprendere non solo da un punto pratico ma proprio di visione. 

Tuttavia nella classe docente noto spesso proprio una mancanza di visione. Se non hai un ideale di cittadino a cui tendere, che cosa insegni? Quando entri in classe cosa vorresti che lə tue alunnə facessero? Riesci ad ascoltarlə o vuoi solo metterci qualcosa di tuo? Sono domande che rimangono aperte naturalmente, perché l’insegnamento è una ricerca-azione continua, non c’è un vademecum o un libro che apri e che va sempre bene, perché i bambini ogni anno sono sempre diversi. Soprattutto al rientro dalle vacanze estive, dopo tre mesi di vacanze, vedi proprio un cambiamento e una nuova ricerca di adattamento alle abitudini della scuola. 

Ovviamente la condizione dell’insegnante è sempre tragica un mestiere sottopagato, con sempre più responsabilità e sempre meno tutele, che non vanno confuse con quelle proposte recentemente. Le tutele che vogliamo sono, ad esempio, quelle che riguardano la nostra supervisione, visto che si tratta di un lavoro logorante da moltissimi punti di vista, non solo da quello fisico ma anche quello psicologico. Per svolgere al meglio il nostro lavoro dobbiamo essere psicologi, sapere gestire i gruppi. Invece, danno per scontato una serie di competenze che scontate non sono affatto. Spesso ti ritrovi in una classe con storie anche molto difficili, e quindi con famiglie con grandi difficoltà, e per questo dovresti sapere non solo come accoglierli ma anche come stargli accanto. Questa professionalità non è né riconosciuta, né evidentemente ricercata dal nostro stato, viste le modalità e i requisiti degli ultimi concorsi. Questo provoca un grande stato di frustrazione. 

Anche perché sembra che tutti si sentano insegnanti, tutti sanno come fare, molti genitori hanno la presunzione di dire come si deve svolgere il nostro lavoro. La differenza però è che loro quando arrivano a casa si trovano un/a figlio/a, che spesso nemmeno gestiscono, a scuola invece si tratta di gestire una piccola comunità di 20/25 bambinə. Si tratta inoltre di ragazzə ormai disabituatə a stare insieme, trovandosi spesso in una situazione in cui non solo sono da solə a casa, ma in cui i loro bisogni sono immediatamente soddisfatti spesso prima ancora di essere richiesti. A scuola non funziona così: bisogna imparare a convivere insieme ad altre persone diverse da te e su cui ci si può non trovare d’accordo. Si vive in una piccola società in cui si deve imparare a vivere democraticamente ed esprimere le proprie idee, a confrontarle con gli altri e trovare soluzioni condivise. 

Tutto questo è davvero molto bello e stimolante. Del contesto in cui si svolge non si può purtroppo dire la stessa cosa: al 6 settembre ci mancano ancora 30 insegnanti di sostegno e non so quanti di ruolo. E ogni anno è così. Nonostante le iscrizioni termini già a fine Gennaio, mi trovo ancora settembre a dover programmare un anno scolastico tenendo in conto colleghə che ancora non esistono. Non è mai successo che ad inizio settembre l’organico fosse già programmato.  

Inoltre 1300 euro al mese li prende un militare di leva per 6 ore al giorno senza una specializzazione. Io con due lauree, una specializzazione per non parlare dei corsi di formazione, prendo lo stesso stipendio e mi ritrovo molte volte costretto a svolgere molte ore fuori dall’orario lavorativo non pagate, con una grandissima responsabilità. Vivendo a Roma e con due figli non è proprio facile arrivare a fine mese. 

Le nuove proposte del ministro Valditara, dalla reintroduzione del voto numerico e dell’utilizzo punitivo del voto in condotta fino alla definizione di nuove indicazioni nazionali, che puntano sulla valorizzazione di un’identità italiana, sembrano delineare un cambiamento significativo per il mondo scolastico. Qual è la tua opinione a riguardo? 

Le prospettive non sembrano affatto belle. Sicuramente in primaria si vogliono cambiare le indicazioni nazionali molto valide e innovative. Talmente attuali e innovative che molti non le conoscono nemmeno… per questo invito tuttə a leggerle, è la prima cosa che facciamo durante le riunioni con i genitori. Bisogna chiarire una cosa però: le indicazioni nazionali non sono un programma, non ci dicono cosa dobbiamo fare. Nessuno obbliga ad esempio a studiare i dinosauri in terza elementare. Piuttosto, il grave errore della scuola primaria sono i libri di testo. Molti insegnanti li seguono come fossero fondamentalisti, e perciò è il libro che spesso detta il programma. Nelle indicazioni tutto questo non c’è scritto, sono presenti invece conoscenze e competenze che vanno sviluppate nellə ragazzə: sono conoscenze che implicano il rispetto delle soggettività ma anche una cittadinanza attiva e partecipe. Questo ci porta alla questione del voto in condotta: anche a livello scientifico le neuroscienze hanno dimostrato come la repressione non porta a nessun apprendimento. Quest’ultimo avviene al contrario solo se c’è piacere. Non significa che ci deve essere mancanza di fatica, ma questa fatica deve passare attraverso l’interesse in quello che si studia, non dalla paura di prendere un brutto voto. La pedagogia del terrore non ha mai funzionato: si possono apprendere nozioni per la verifica che poi mi scorderò, posso fingere di fare il bravo durante le ore di scuole e poi fare quello che mi pare una volta uscito.

Noi non vogliamo lavorare per questo. Vogliamo invece aiutare a diventare cittadini liberi e critici, che migliorino la società in cui viviamo. Non vogliamo cercare di addomesticare le persone, il futuro appartiene a bambinə e ragazzə, per questo loro non si devono adeguare a quello che facciamo.  Questo non significa che debbano decidere tutto, al contrario dobbiamo trovare una forma di dialogo, stabilendo collettivamente le cose che non va bene fare e quelle che vanno fatte. Non dovrebbe il metodo delle sanzioni a stabilire e imporre quali cose non devono essere fatte.

Ad esempio, se qualcuno protesta, piuttosto che sanzionare dobbiamo dotarci degli strumenti che ci rendano in grado di ascoltarlo. Altrimenti torniamo al modello di società basato sui manicomi, sulle scuole separate per ragazzi e ragazze, oppure una società in cui i figli dei contadini fanno ancora i contadini e i figli degli imprenditori fanno gli imprenditori anche se non ne sono in grado.  

Uno stato non può puntare su questo: l’intelligenza e la creatività ce l’hanno tutte le persone, ed è per questo che la scuola è fondamentale, perché può dare opportunità a bambinə e ragazzə che altrimenti non ne avrebbero. Questo è un investimento che lo stato fa su se stesso: avere cittadinə critici, che puntano al bene comune piuttosto che a quello personale significa vivere in una società migliore. Dovremmo dare più spazio e opportunità future, ascoltando i loro bisogni, e non tenerli sotto una campana in modo da essere più comodi noi. Noi non possiamo stare comodi: c’è una crisi climatica, ci sono guerre che scoppiano ovunque e che lo stato non solo non prova a fermare ma che avalla, vendendo armi. E questo non è un buon esempio: diciamo allə ragazzə di non occupare le scuole per protestare, per poi vendere armi in giro. E da che mondo e mondo tutti sanno che l’esempio vale più di mille parole: chiunque nel nostro governo può riempirsi la bocca ma poi di fatto cosa si fa nel concreto? Mettiamo i voti numerici. E a che cosa servono questi voti esattamente, a classificare?  Se si conoscesse un po’ di docimologia, che è la scienza che studia proprio questo, ci dice che i voti sono fallimentari, anche nelle superiori bisognerebbe toglierli. Non si studia per il voto. La pedagogia del ricatto non ha funzionato prima e non funzionerà nemmeno adesso. Questo perché se l’obiettivo è solo quello di prendere 8, vuol dire che non sto imparando niente, e quindi come professore ho fallito. Se un ragazzo è buono perché minaccio di dargli un 3, ho fallito. E soprattutto se qualcunə sta subendo un’ingiustizia e sta zitto, perché ha paura di essere bocciato, io come educatore ho fallito. Perché alle ingiustizie bisogna dire sempre no: sia che le fa un amico, sia che le fa un papà, un docente o il papa. E lə cittadinə che abbiano le conoscenze da cittadinə, devono sapere dire no. La critica non significa essere disfattisti, ma è la base della democrazia. 

Adesso l’istruzione non è più associata a questione pubbliche: il ministero si chiama “dell’istruzione e del merito”. Ma esattamente, merito di chi? Ora, io non posso fare commenti diretti perché, grazie alle nuove normative, potrei essere sanzionato come docente se rilascio dichiarazioni che possono offendere la sensibilità del ministro o del ministero. Senza quindi parlare di qualche particolare ministro, io credo che il merito lasci davvero molto a desiderare nei nostri governanti. Tuttavia lo pretendono dagli alunni. 

E poi il merito chi lo dovrebbe decidere, degli insegnanti che fanno dei concorsi che nemmeno li preparano ad essere insegnanti? Questa è un’altra cosa interessante: adesso spesso il titolo per accedere e salire in graduatoria nei concorsi te lo puoi comprare in università private telematiche, che stanno non a caso proliferando. Ma se come docente imparo a fare le cose online, come posso pretendere di potere gestire le dinamiche reali di una classe? Un gruppo di 24 persone adolescenti magari? Cosa ci importa della psicologia dello sviluppo e delle dinamiche di gruppi se con 7mila euro posso fare un corso online di un’università privata per accedere al titolo?

Quindi se lo stato permette questo: di che merito stiamo parlando? Ma sopratutto perché poi scarichiamo le responsabilità sullə ragazzə, quando lo stato da tutti i segnali che mostrano il suo disinteressamento sull’investimento nell’istruzione? La classe dirigente si forma da un’altra parte, non di certo una scuola pubblica. 

Insomma, le parole sono importanti e segnano la direzione in cui si sta andando. Le parole che si stanno utilizzando dovrebbero iniziare a preoccuparə tuttə, e formare nuove alleanze.

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