Lo scorso luglio, sotto il sole cocente di una Roma riarsa dalla peggiore siccità degli ultimi due secoli, 40 giovani attivisti da tutto il mondo si sono incontrati per ragionare insieme su come far fronte alla crisi climatica in atto.

Quello che è emerso, da una settimana di climact camp densa di seminari, dibattiti, workshop e condivisione di spazi e idee, è la campagna globale ClimateChangingMe.

Alla base della riflessione condivisa c’è la constatazione della mancanza di consapevolezza e di attivazione dell’opinione pubblica su un tema invece centrale e drammaticamente rilevante come i cambiamenti climatici. Ciascuno ne ha sentito parlare, ma continua ad averne una percezione distorta: che si tratti di un fenomeno lontano dalle nostre vite, che interessa popoli di altre zone del mondo o di un rischio eventuale, ma ancora remoto nel tempo. Ancora, si ritiene erratamente che sintomi degli stravolgimenti climatici siano solo eventi estremi ed eclatanti come cicloni, uragani o siccità prolungate. Infine, c’è la diffusa valutazione per cui si tratti di un tema troppo complicato perché un semplice cittadino possa efficacemente occuparsene e che dunque esso debba essere appannaggio di scienziati, tecnici e decisori politici.

La campagna ClimateChangingMe punta a scardinare queste visioni proponendo una narrazione alternativa: il cambiamento è già in atto da decenni, gli effetti – anche quelli meno spettacolari – sono già ampiamente visibili, e soprattutto colpiscono tutti, nel Sud come nel Nord del mondo. Per raggiungere questo obiettivo, la campagna ha lanciato una raccolta di testimonianze a livello internazionale sugli effetti dei cambiamenti climatici nella vita quotidiana delle persone comuni, in modo che ciascuno, attraverso il proprio racconto di vita, contribuisse con un tassello a comporre un quadro complessivo capace di narrare l’estrema vulnerabilità delle comunità umane, ovunque insediate, di fronte alla più grande sfida ambientale del secolo. La campagna è stata lanciata ufficialmente a inizio novembre, in occasione della Conferenza di Bonn sul clima, e ad oggi sono già state raccolte oltre un centinaio di testimonianze provenienti da oltre venti diversi Paesi.

Il messaggio che la campagna ha lanciato è quindi diametralmente opposto a quello che passa attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Ogni volta che cade una ricorrenza istituzionale, come il giorno internazionale della Terra, o si celebrano eventi rilevanti per la governance ambientale globale, come l’annuale conferenza sul clima delle Nazioni Unite, i giornali e la tv sembrano ricordarsi dell’emergenza climatica e delle crisi ambientali connesse.

Il pubblico viene bombardato di scenari tragici e previsioni disastrose sul riscaldamento globale, la siccità, lo scioglimento dei ghiacci, la perdita di biodiversità e di ecosistemi, l’innalzamento del livello del mare, la sempre maggior frequenza di fenomeni climatici estremi, e così via. Ogni volta viene intervistato l’esperto di turno, che sciorina dati e informazioni difficilmente comprensibili e assicura che i “grandi”, ovvero i governi e gli scienziati, se ne stanno occupando. Inevitabilmente, superato il momento, tutto cade nel dimenticatoio.

Questo tipo di comunicazione, confusa, limitata, spettacolarizzata, finisce col fare il gioco della classe politica e delle multinazionali responsabili in larga parte dell’aumento di gas clima alteranti in atmosfera che sono la principale causa dei cambiamenti climatici. Nel 2017, il rapporto della Thomson Reuters Global 100 greenhouse gas performance: new pathways for growth and leadership, ha calcolato che 100 aziende da sole emettono in atmosfera il 25% dei gas serra globali. Sono multinazionali del carbone, del petrolio e del gas. Tra esse, ben piazzata al 14° posto, troviamo l’impresa di casa nostra, l’Eni, con le emissioni in crescita rispetto al 2014.

È dunque chiaro che né i grandi gruppi economici né in ultima istanza i decisori politici hanno interesse ad avere cittadini informati e preoccupati che interferiscano con le blande decisioni assunte in nome della lotta al climate change.

Mentre nella narrazione mediatica dominante e nel dibattito pubblico internazionale l’Accordo sul Clima firmato a Parigi durante la Cop 2015 viene presentato come la panacea di tutti i mali, la fragile trama degli impegni assunti, la loro insufficienza a realizzare gli obiettivi fissati, la mancanza di strumenti di controllo e sanzione e alcune pecche di fondo riguardanti l’impianto stesso dell’accordo sono stati messi sotto i riflettori dalla comunità scientifica e dal mondo dell’ambientalismo.

Nonostante l’obiettivo fissato nell’Accordo di mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C infatti (che implicherebbe in ogni caso impatti catastrofici sull’ambiente e sulle attività umane), gli impegni sottoscritti, qualora strettamente rispettati, porterebbero secondo gli scenari disegnati della UNEP a un aumento di 3° C. L’Accordo prevede inoltre che gli impegni siano periodicamente rivisti, nell’auspicio che i governi decidano di renderli più ambiziosi, ma non sembra questo il trend attuale.

Basti da esempio la decisione di Donald Trump di ritirare gli Stati Uniti e la riluttanza dei Paesi sviluppati ad abbandonare le fonti energetiche di origine fossile, responsabili del 70% delle emissioni globali antropiche.

La verità è che siamo ancora lontanissimi dall’adozione di misure concrete sia per una efficace mitigazione, sia per l’adattamento ai cambiamenti già in atto e la gestione dei danni inevitabili causati dagli stravolgimenti climatici. Un esempio in tal senso ci è fornito dal cosiddetto meccanismo loss and damage, riguardante perdite e danni che si prevede si verifichino colpendo soprattutto i Paesi del Sud del mondo e in attesa di definizione sin dalla sigla dell’accordo di Parigi, all’ultima Cop di Bonn svoltasi ben due anni dopo, alla fine del 2017, non si è quasi parlato. L’unica soluzione proposta contro i disastri climatici riguarda il settore assicurativo privato.

Questo esempio rivela che l’ottica sottesa ad una valutazione critica del climate change, che pretenderebbe il formale e sostanziale riconoscimento di una responsabilità differenziata dei diversi paesi, non è in alcun modo tradotta in misure pratiche.

Non è un’opinione ma un fatto che i paesi più colpiti dai cambiamenti climatici siano quelli che meno hanno contribuito in misura minima alle emissioni di CO2: si tratta di paesi con condizioni socio-economiche di maggiore vulnerabilità e con tessuti produttivi meno industrializzati. Questa riflessione è stata tradotta dai movimenti sociali (ambientalisti, rurali, indigeni) in prima linea nella battaglia per inchiodare poteri pubblici e economici alle loro responsabilità, nel concetto di giustizia climatica.

Tale concetto richiederebbe l’assunzione di responsabilità politica e di impegni economici rilevanti da parte dei paesi industrializzati, capaci di far fronte anche alle sfide poste dai cambiamenti climatici nei paesi maggiormente vulnerabili. A ciò dovrebbe unirsi un contesto di regole coercitive, globalmente fissate, utili a promuovere l’abbandono delle fonti fossili e la transizione a tappe serrate verso una low carbon economy. Dalla teoria alla pratica le cose sono molto diverse: secondo l’ultimo rapporto dell’OECD, le imposte previste sulle emissioni sono una “barzelletta climatica”, di gran lunga troppo basse per spingere effettivamente verso la decarbonizzazione dell’economia.

Le cose non vanno meglio a casa nostra, dove le politiche dei governi che si sono succeduti negli ultimi decenni sono state tutte volte ad affermare l’interesse, ritenuto primario e irrinunciabile, delle lobby dell’oil&gas nonostante gli impegni internazionali e le dichiarazioni di intenti.

In Italia, il 2017 è stato l’anno con meno precipitazioni degli ultimi due secoli, secondo i dati del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). A parte gennaio, settembre e novembre, in tutti gli altri mesi le piogge sono rimaste ben al di sotto della media, con deficit intorno al 30% e, per sei mesi, di oltre il 50%. L’assenza di rovesci ha scatenato la grave siccità dell’estate scorsa, che ha colpito l’intero Paese, con gravi conseguenze come il prosciugamento di laghi e corsi d’acqua e ha obbligato al razionamento delle risorse idriche in molte regioni. L’estrema secchezza dei campi e delle foreste ha facilitato la diffusione degli incendi e causato ingenti danni alla biodiversità e all’agricoltura. Il primo mese del nuovo anno non ha dato segni di un cambiamento di tendenza: le piogge sono state del 12% in meno rispetto alla media e le temperature ben più alte, tanto che i mandorli nel Meridione sono in fiore e tutte le coltivazioni stanno maturando in largo anticipo.

ClimateChangingMe nasce dalla valutazione di tutti questi fattori. È cruciale aumentare la consapevolezza dei cittadini, affinché si attivino con azioni dirette e azioni di pressione sui decisori politici. È fondamentale trasmettere il senso di urgenza e la passione per questi temi alle nuove generazioni e raggiungere più persone possibili, per unire le forze e trovare anche soluzioni creative ed innovative. Prima che sia troppo tardi.

Per una analisi della coerenza delle politiche nazionali con l’Accordo i Parigi e per una lettura critica della Strategia Energetica Nazionale 2017 cliccare qui.

Per informazioni sulla campagna cliccare qui.

Questo articolo è anche su La Bottega del Barbieri.

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