Vecchi e nuovi conflitti, persecuzioni anche climatiche, e tutto ciò che ne deriva, come insicurezza alimentare,
povertà, violazione dei diritti umani, difficoltà nella costruzione di percorsi di pace, sono alla base di una
popolazione mondiale in fuga arrivata, a maggio 2024, a contare 120 milioni di persone.

 

Alla vigilia della Giornata mondiale del rifugiato una doppia tragedia si è consumata in mare, con più di 70 morti e dispersi, di cui 26 sarebbero bambini. Intere famiglie di origine afghana, secondo il racconto dei superstiti, sono state inghiottite dalle onde. Secondo la stima dell’Agenzia ONU per i Rifugiati” (UNHCR), dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) e del Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (UNICEF) sarebbero già ottocento i morti e dispersi nel Mediterraneo nel 2024. Una media di cinque persone al giorno. “Ogni naufragio rappresenta un fallimento collettivo, un segno tangibile dell’incapacità degli Stati di proteggere le persone più vulnerabili”, è quanto dichiarato dalle agenzie delle Nazioni Unite, che hanno, inoltre, ribadendo la necessità di un maggiore impegno da parte degli Stati europei nelle operazioni di ricerca e soccorso in mare, nonché nel favorire vie sicure e regolari di accesso in Europa al fine di evitare nuove stragi. Parole che suonano ancora più pesanti all’indomani della coalizione per prevenire e contrastare il traffico di migranti lanciata dai leader mondiali in occasione del G7 in Puglia.

Il numero di persone in cerca di un rifugio sicuro a livello mondiale è raddoppiato negli ultimi dieci anni. Per comprendere la dimensione del fenomeno bisogna immaginare, come ci invita a fare l’UNHCR, a tutti gli abitanti del Giappone in fuga, ossia il dodicesimo Paese al mondo per ampiezza della popolazione. Eppure difronte a numeri in costante crescita, il tema delle migrazioni resta nell’agenda politica tra strumentalizzazioni e scontri, a fronte di conflitti che non trovano pace e una crisi climatica che pesa sempre di più sulla sopravvivenza e i diritti di milioni di persone e ancora troppo poco sugli impegni degli Stati. 

Al riguardo, significativo della scala di priorità che i Paesi dell’Unione europea assegnano alle varie questioni, sono le campagne elettorali per il rinnovo del Parlamento europeo (dal 6 al 9 giugno), dove la questione climatica è rimasta, se non per qualche eccezione, a margine mentre il tema delle migrazioni per i partiti di destra ha costituito uno dei cavalli di battaglia. Spot elettorale anche per il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che ha visitato i centri di prima accoglienza in Albania disciplinati dal protocollo di collaborazione tra Italia-Albania in materia migratoria, operativi probabilmente da agosto. Il vento di estrema destra soffiato nell’UE, guardiamo ad esempio alla vittoria di Bardella in Francia, ai voti ricevuti dall’AfD in Germania, nonché al 29% di Fratelli d’Italia, lascia intuire che questioni già di non facile governo, dall’immigrazione al green deal, saranno ancora più conflittuali e divisive. D’altronde negli ultimi anni la linea degli Stati e dell’Unione europea sulle politiche migratorie è stata abbastanza netta, basandosi sulla stipula di accordi bilaterali con governi autoritari, come Libia, Turchia e Tunisia, arrivando alla militarizzazione ed esternalizzazione dei confini. Un quadro politico securitario che può fare leva, dallo scorso 10 aprile, sul Nuovo Patto su migrazione e asilo, diventato legge dopo l’approvazione del Parlamento europeo. Il Patto per come si presenta rischia di avere forti conseguenze sul diritto di asilo e di non respingimento, nonché sui diritti umani sia alle frontiere esterne che negli Stati europei.

Dalla lettura su l’Internazionale dei risultati del sondaggio condotto – tra marzo e aprile –  per la rete televisiva franco-tedesca Arte, nei 27 Paesi dell’UE le questioni che preoccupano principalmente gli europei (con le dovute differenze regionali e di genere) sembrano essere salute, guerra, potere d’acquisto e ambiente e in settima posizione la questione migratoria. Riguardo alla questione migrazione, si legge sempre su l’Internazionale che “Sulla difesa e l’immigrazione la maggioranza degli europei che ha partecipato al sondaggio pensa che serva una politica comune. L’immigrazione è vista come un problema da più di un europeo su due, soprattutto nei paesi dell’Europa centrale e orientale come Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria e negli stati Baltici. Sette europei su dieci ritengono che il loro paese accolga troppi migranti e sono ampiamente favorevoli a un maggior controllo dei flussi. Quando si tratta delle misure proposte in questo campo, gli europei si dicono favorevoli a stabilire delle quote di migranti da accogliere (74 per cento) e a una politica comune per contrastare l’immigrazione irregolare (85 per cento), percentuali che per l’Italia salgono all’81 e all’87 per cento”.

L’analisi dei nuovi dati sui flussi di persone in fuga nel mondo

Alla fine del 2013 secondo i dati del Global Trends 2024, pubblicato il 13 giugno dall’UNHCR, circa 117,3 milioni di persone in tutto il mondo sono state costrette a spostarsi (dato arrivato a 120 milioni a maggio 2024). Vale a dire un aumento dell’8%, ossia 8,8 milioni di persone in più rispetto alla fine del 2022 e l’equivalente di 1 persona su 69, ovvero l’1,5% dell’intera popolazione mondiale, è ora sfollata con la forza.

Ad aver inciso notevolmente su questi numeri sono principalmente i conflitti in Sudan, Repubblica Democratica del Congo e in Myanmar. Pesante è il bilancio della catastrofe umanitaria nella Striscia di Gaza dove, secondo l’UNRWA, l’Agenzia dell’ONU per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente, a dicembre del 2023, sono stati registrati 1,7 milioni di persone sfollate (ovvero oltre il 75% della popolazione). Mentre la Siria con i suoi 13,8 milioni di profughi detiene il triste primato della più grande crisi di rifugiati al mondo. A livello globale i numeri più alti riguardano però i cosiddetti sfollati interni, persone che si muovono forzatamente entro i confini del proprio Paese, che hanno raggiunto nel 2023 complessivamente i 75,9 milioni. Mentre, nello stesso anno, è stata registra una popolazione globale di rifugiati e altre persone bisognose di protezione internazionale di 43,4 milioni

L’analisi dei dati ci aiuta nella comprensione del fenomeno non solo rispetto alla sua dimensione, ma anche alle cause e alle nazionalità di provenienza, nonché nell’impresa di scardinare la retorica dell’invasione di migranti in Europa, al riguardo l’UNHCR ci mostra, con dati alla mano, un’altra storia rispetto a quanto siamo abituati a sentire. La maggioranza dei rifugiati si trova infatti in Paesi limitrofi a quelli della crisi (69%) e il 75% risiede in Paesi a basso e medio reddito. Guadando sempre ai dati, il 73% dei rifugiati sotto il mandato dell’UNHCR proviene da soli cinque Paesi: Afghanistan (che conta la popolazione di rifugiati più numerosa a livello globale), Siria, Venezuela, Ucraina e Sudan, mentre i Paesi che ospitano le popolazioni di rifugiati più numerose sono: Iran (3,8 milioni), Turchia (3,3 milioni), Colombia (2,9 milioni), Germania (2,6 milioni) e Pakistan (2 milioni). 

Bisogna però sempre ricordare, come dichiarato anche da Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, che “Dietro a questi numeri, in netto aumento, si nascondono innumerevoli tragedie umane. Questa sofferenza deve spingere la comunità internazionale ad agire con urgenza per affrontare le cause profonde degli sfollamenti forzati”. Grandi ha aggiunto che “È giunto il momento che le parti in conflitto rispettino il diritto bellico e il diritto internazionale. Il fatto è che senza una cooperazione migliore e sforzi concertati per affrontare conflitti, violazioni dei diritti umani e crisi climatica, il numero di persone costrette alla fuga continuerà a crescere, portando nuova miseria e costose risposte umanitarie”. 

I rifugiati climatici esistono (?)

Spazio nel Global Trends 2024 anche alla crisi climatica, con un focus circa l’impatto sempre crescente sulle persone in fuga. Come si legge nel rapporto, alla fine del 2023 circa tre quarti di chi è costretto a spostamenti forzati si trova in Paesi con un’esposizione elevata ai rischi legati al clima. I cambiamenti climatici stanno così intensificando le esigenze di protezione e al contempo i pericoli per chi è già costretto a spostarsi. 

Una questione di rilevo per il riconoscimento della protezione internazionale per chi è costretto alla mobilità per cause climatiche e ambientali è data dalla sempre più evidente sovrapposizione tra i territori più vulnerabili alla crisi climatica e i Paesi teatro di conflitti, persecuzione, violazione dei diritti umani. Alcuni esempi arrivano dalla Repubblica Democratica del Congo, dalla Somalia, dal Sudan, così come dalla Siria e dallo Yemen. 

Gli effetti della crisi climatica sono già una minaccia ai diritti fondamentali delle persone, previsti dal Patto internazionale per i diritti civili e politici, innescando così obblighi di non respingimento e il diritto ad una forma di protezione in caso di danno imminente. Al riguardo si rimanda alle opinioni del Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite sul caso Ioane Teitiota verso la Nuova Zelanda.

Inoltre, conflitti tradizionali stanno diventando in diverse aree del mondo delle vere e proprie guerre del clima per l’accesso a beni vitali come l’acqua e le terre fertili, sempre più scarse a causa dell’aumento delle temperature e dello sfruttamento scellerato di queste risorse. Ancora, un fondato timore di prevaricazione potrebbe derivare dall’esclusione delle categorie più vulnerabili o già marginalizzate (come comunità indigene o altri gruppi appartenenti a minoranze) rispetto all’accesso alle risorse naturali o all’esclusione da piani di prevenzione.

In occasione della Giornata mondiale del rifugiato va ricordato che sebbene non tutte le persone costrette alla fuga nel contesto della crisi climatica soddisfino la definizione di rifugiato, così come regolata dalla Convenzione di Ginevra del 1951, molte fra di esse potrebbero invece aver diritto al riconoscimento dello status di rifugiato.

Di fronte al quadro delineato e al costante aumento delle temperature – secondo i dati rilevati da Copernicus il mese di maggio 2024 è il dodicesimo mese consecutivo con temperature da record, i Paesi più industrializzati non possono continuare a relegare in un limbo giuridico milioni di persone che si muovono a causa della crisi climatica e del degrado ambientale, devono invece rafforzare la protezione internazionale.

Un nuovo paradigma per la valutazione del rischio di sfollamento in caso di disastri naturali, associati alla crisi climatica.

In generale, va tenuto conto che la capacità di stimare il numero di sfollati a causa dei disastri aggravati dalla crisi climatica può avere significative implicazioni politiche in diversi settori, che vanno dalle misure di adattamento e mitigazione, agli aiuti umanitari e alle operazioni di soccorso, alla protezione dei diritti umani, nonché alle allocazioni finanziarie e all’entità delle perdite e dei danni. Così come una migliore conoscenza delle dinamiche che portano agli sfollamenti e le probabilità con cui questi si verificano può contribuire certamente a mettere in campo risposte di intervento più efficaci per la tutela degli sfollati interni, che restano ad oggi tra le categorie di persone più vulnerabili. 

È proprio in quest’ottica che l’IDMC ha collaborato con la Fondazione CIMA – Centro Internazionale in Monitoraggio Ambientale – alla ricerca “Una nuova metodologia per la valutazione probabilistica del rischio di alluvione” (pubblicata ad aprile 2024 su Frontiers in Climate). Il lavoro si focalizza sui modelli di valutazione del rischio di sfollamento in caso di disastro. Come si legge nello studio, la valutazione del rischio è stata basata su una catena modellistica che comprende: il pericolo, l’esposizione e la vulnerabilità in diversi scenari climatici. In sintesi e in termini applicativi, la metodologia prevede, come descritto dalla Fondazione CIMA, la selezione di un determinato scenario climatico, mentre a seguire il modello idrologico Continuum – sviluppato dalla stessa Fondazione – consente di simulare le portate dei fiumi. In seguito un secondo modello simula le alluvioni, utilizzate per creare delle mappe di pericolosità, che a loro volta consentono di stimare i dati sull’esposizione delle persone, delle aree agricole, dei servizi e delle industrie esposte al rischio e di valutare il fattore vulnerabilità. Tali dati infine permettono di calcolare il rischio di sfollamento.

Questa nuova metodologia per la valutazione del rischio – applicata per la prima volta alle isole Figi e Vanuatu – tiene conto contemporaneamente non solo dei danni alle strutture abitative ma anche – come elemento che affina e amplia la letteratura in materia – ai mezzi di sostentamento (direttamente inclusi nel calcolo) e all’accesso ai servizi (come sanità e istruzione), che rendono probabile lo spostamento delle persone. Tale metodologia costituisce un nuovo tassello per allargare il raggio di comprensione delle motivazioni che portano allo sfollamento. È importante sottolineare, come fatto dagli stessi ricercatori, che, sebbene focalizzata sul fenomeno delle alluvioni, la metodologia sviluppata può essere estesa ad altri rischi climatici.

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