È con grande dolore che apprendiamo della morte di Giorgio Nebbia, uno dei nostri maestri, pioniere del movimento ecologista in Italia, pensatore lucidissimo, analista critico, storico dell’ambiente, dedito alla ricerca non meno che alla generosa condivisione del suo sapere.

Un uomo che non ha mai smesso di interrogarsi e di trovare, offrendole senza riserve agli altri, risposte illuminanti. Fino alla fine, a 93 anni, non si è mai ritirato a vita privata continuando ad essere per noi tutte e tutti, attivisti e ricercatori al servizio della giustizia ambientale, un faro e assieme un compagno di strada, riferimento irrinunciabile e alleato di innumerevoli battaglie.

Tre anni fa, in occasione del suo 90° compleanno, raccogliemmo entusiasti la proposta della Fondazione Micheletti di partecipare con un contributo ad un libro che ne celebrasse il portato umano, scientifico e politico. In questo triste giorno, affidiamo alle parole scritte allora il nostro ricordo di un uomo eccezionale.

A lui – all’impegno, la dedizione e la genialità e ancor più all’estrema umiltà, alla gentilezza e all’infinita disponibilità – vanno il nostro ringraziamento e il nostro caloroso, addolorato saluto.

Alla sua famiglia e alla sua comunità il nostro affettuoso abbraccio.

Le attiviste e gli attiviste A Sud

“Per Giorgio Nebbia. Storia industriale e conflitti ambientali” di Marica Di Pierri

Per un gruppo di attivisti ambientali con velleità da ricercatori come noi, nell’olimpo dei maestri non può mancare il nome di Giorgio Nebbia. A lui, alla sua fervida intelligenza e grande generosità, alla preziosissima e vasta produzione teorica e – non di meno – alla sua appassionata attività di tessitore di reti va, per cominciare, la nostra più sincera gratitudine.

Consci che la capillare diffusione, il livello di pervasività e i conclamati impatti della degradazione dell’ambiente sulla qualità della vita delle comunità umane fossero ormai fattori evidenti e onnipresenti a tutte le latitudini e longitudini del globo, anni or sono ormai scegliemmo come lente focale delle nostre attività un fenomeno dilagante e strettamente legato al campo di interesse e di ricerche cui Nebbia ha applicato tempo e dedizione: quello dei conflitti ambientali. Ci parve allora – e ci pare tutt’oggi – che essi potessero a ragione considerarsi elementi utili a disegnare un’inoppugnabile sintomatologia dell’insostenibilità, una condanna razionale, non puramente ideologica, di un modello economico basato sul sovra sfruttamento di uomo e risorse e sulla diseguale allocazione presso le diverse comunità umane di vantaggi e svantaggi connessi allo sviluppo economico.

Alla ricerca di una definizione esaustiva di questo tipo di conflitti, risolvemmo che essi dovevano veder convergere due elementi fondanti: il rischio di compromissione (in termini di quantità o qualità) delle risorse naturali disponibili in un dato territorio, e l’esistenza di una opposizione sociale più o meno organizzata a difesa dell’ambiente e – sovente – di altri diritti, a partire da quello alla salute. Ci rendemmo conto da subito che se da un lato lo studio, la sistematizzazione e la rappresentazione di tali conflitti configurava una geografia di devastazione ambientale e di violazioni di diritti umani connessi, dall’altra era possibile tracciare – attraverso la moltitudine di esperienze sociali sorte dai e nei conflitti – una disomogenea eppur unificante geografia della resistenza popolare al neoliberismo.

Ci immergemmo allora con entusiasmo nelle ricostruzioni teoriche, ben meno vetuste di quelle europee, provenienti dall’altra sponda dell’Atlantico, dove, negli Stati Uniti degli anni Ottanta, sorgeva dall’incontro tra scienze sociali ed economiche, codificato dal sociologo Robert Bullard, la categoria della giustizia ambientale. Tale felice concetto metteva originalmente e doverosamente a fuoco le connessioni tra degrado ambientale, disagio socioeconomico, godimento dei diritti fondamentali e discriminazione razziale, riconoscendo a tutti gli esseri umani gli stessi diritti di accesso ai benefici dell’offerta di beni e servi- zi ambientali e culturali a livello globale. A questo riconoscimento corrispondeva di converso l’osservazione di un modello di distribuzione invece assai iniquo nell’esposizione delle differenti comunità umane agli impatti negativi del modello di estrazione, trasformazione, produzione e smaltimento di beni.

Per comprendere le dinamiche economiche e politiche sottese ai conflitti ambientali, il lavoro dello storico dell’ambiente risulta di enorme, irrinunciabile importanza. Abbiamo sempre avuto contezza del fatto che conoscere la storia della produzione industriale e la sua evoluzione ci avrebbe aiutato, per utilizzare le stesse parole di Nebbia “a comprendere gli errori compiuti, ad analizzarli e possibilmente a correggerli”. In tal senso, l’opera di Nebbia è stata per noi fondamentale – ad esempio – nella ricostruzione della nascita e del declino dei cosiddetti poli di sviluppo nazionali, quasi tutti poi qualificati come siti di interesse nazionale per le bonifiche (SIN).

“Quali fabbriche esistono nel territorio di ciascuna città o paese? Che cosa producono? Quali materie prime vengono introdotte e quali merci escono? Che cosa contengono i fumi che escono dal camino dietro la scuola o il quartiere? Che cosa veniva prodotto nelle fabbriche di cui si intravedono i ruderi, e nel cui sottosuolo sono forse ancora sepolte scorie nocive? La ricostruzione della geografia storica delle manifatture in Italia, a cominciare dall’età dell’industrializzazione, sarebbe di grande utilità anche ai governi – nazionale e locali – che volessero intraprendere le necessarie corrette bonifiche: la storia dei rapporti fra imprese, ambiente e territorio permette di ricostruire i motivi delle scelte di localizzazione delle industrie, i complessi rapporti fra popolazioni e imprese, le ragioni della concentrazione delle imprese, e avrebbe un effetto educativo di grande importanza”. Queste le parole di Giorgio Nebbia nel contributo scritto e pubblicato all’interno del nostro focus Il paese dei fuochi apparso nel 2014 prima sulle pagine della rivista “Lo Straniero” e poi pubblicato e massicciamente diffuso in e- book. Un saggio, questo, necessario a dipanare la trama e le dinamiche di uno sviluppo industriale asimmetrico e spesso miope, fondamentale per ricostruire con rigore la mappa della devastazione ambientale italiana e, assieme, delle condizioni di lavoro degli stabilimenti industriali.

Parlando della storia dello sviluppo industriale italiano, con particolare riferimento alla fase convulsa e di ebbrezza collettiva che fu il secondo dopoguerra, la ricostruzione di Giorgio Nebbia è disarmante: “Gli stabilimenti industriali siderurgici, chimici e petrolchimici che furono costruiti o ristrutturati modernamente nel Mezzogiorno destarono grandi speranze. È con dolore che si guardano oggi le strutture abbandonate e arrugginite – ruderi di fabbriche che non hanno mai prodotto niente, costruite con pubblico denaro finito in tasche private – e gli effetti ambientali negativi dovuti a produzioni fatte da tecnici e dirigenti improvvisati che spesso non conoscevano e, soprattutto, non amavano la terra in cui erano mandati a lavorare. Le delusioni arrivarono presto; la presenza di una industrializzazione affrettata e priva di cultura manifatturiera e di dirigenti appassionati, la mancanza di università capaci di creare una nuova classe di dirigenti industriali locali, hanno provocato ben presto conflitti con le popolazioni e alterazioni della struttura urbana, agricola ed ecologica. Dal punto di vista ambientale i dirigenti delle industrie nel Mezzogiorno ben poca cura hanno avuto per la lotta all’inquinamento e al corretto smaltimento dei rifiuti”.

L’asimmetria con cui le comunità umane hanno goduto e godono vantaggi – o hanno subito e subiscono svantaggi – produce dunque da un lato degradazione delle matrici ambienta- li e violazioni di diritti fondamentali e dall’altro istanze popolari fondate sulla richiesta di strumenti di informazione, partecipazione e tutela. Quest’ultimo elemento spinge ad una ulteriore considerazione: ad ogni conflitto è sotteso quello che può definirsi un “vulnus partecipativo”, ovvero la mancanza di agibilità politica della comunità locale rispetto al governo del proprio territorio. D’altro canto, abbiamo assistito negli ultimi decenni all’affermazione di pratiche decisionali sempre più verticistiche ed escludenti, segno ennesimo del doloroso fallimento culturale e politico della democrazia rappresentativa – e delle socialdemocrazie europee in primis.

A ben guardare, nelle dinamiche di attivazione popolare territoriale, due elementi assumono grande centralità: la comunità – e dunque il comune – e la critica radicale di modello come elemento costitutivo. Il primo elemento si declina nella difesa dei legami comunitari, del tessuto socioeconomico locale, della qualità della vita, del diritto all’autodeterminazione. Il secondo elemento, invece, è declinato in termini di critica ai meccanismi di funzionamento del neoliberismo: massimizzazione dei profitti e conseguente concentrazione di ricchezze presso pochi da un lato, ottimizzazione dei costi e conseguente socializzazione degli impatti ambientali, socioeconomici e sanitari presso la comunità dall’altro. Questa forma di capitalismo distruttivo, rapace verso le risorse naturali non meno che verso le persone, vede comprensibilmente crescere in maniera incontrollata e capillare forme di opposizione contro la sottrazione di risorse e territorio e contro l’autoritarismo politico-economico.

Il riconoscimento del ruolo della popolazione nella presa di coscienza e nella diffusione di una consapevolezza collettiva circa i rischi ambientali del territorio ha più volte interessato il lavoro di Nebbia. In un paragrafo successivo del citato saggio, Nebbia spiega che “l’esame dei rapporti fra produzioni di merci, territorio e abitanti offre una interessante occasione per esaminare anche la storia dei movimenti popolari per la conquista di ‘nuovi diritti’, fra i quali quello di conoscere a quali pericoli si è esposti come lavoratori e come cittadini. La storia degli inquinamenti dovuti alle attività manifatturiere mostra che la consapevolezza degli inquinamenti e dei relativi danni non è venuta dai governi – nazionali o locali – (e tanto meno dagli imprendi- tori), ma dalla protesta popolare, dai movimenti che potremmo chiamare di ‘contestazione ecologica’. Appare così che tali movimenti sono riconoscibili fin dall’alba dell’età dell’industrializzazione, prima nei paesi più industrialmente avanzati (e quindi prima inquinati), poi in seguito in Italia. È questa una delle pagine meno conosciute della storia dei rapporti fra popolazioni locali (talvolta con i loro interessi specifici), imprese, lavoratori e loro organizzazioni sindacali, governi, ‘scienziati’”.

Uno dei grandi meriti da riconoscere all’opera di Nebbia è senz’altro la resa di concetti complessi e sovrastrutturati con un linguaggio chiarissimo, quasi didascalico, di pronta ed immediata comprensione. Con questa ricostruzione Nebbia contribuisce definitivamente al riconoscimento e alla valorizzazione del fondamentale ruolo delle organizzazioni sociali e della società civile in generale nella difesa del territorio e dei diritti fondamentali delle comunità in esso insediate. La stessa prospettiva si ritrova nei filoni di ricerca interdisciplinari noti come “ecologia politica” e “economia ecologica”: da questo punto di vista la legittimazione scientifica delle conoscenze e dei know-how accumulati come corpi sociali portatori di legittimi interessi assume il rango di fonte nella documentazione dei singoli conflitti. In economia ecologica si parla in tal senso di “scienza post-normale”, noi preferiamo parlare più comprensibilmente di conoscenze diffuse e di saperi popolari.

In una fatica più recente, la prefazione generosamente dona- ta al nostro testo La democrazia alla prova dei conflitti ambien- tali, Giorgio Nebbia fa un passo ulteriore, sposando – ci pare – la definizione di giustizia ambientale e puntando l’attenzio- ne sui diritti alla base di istanze di tutela ricorrenti nei conflit- ti ambientali. Nebbia individua felicemente quattro categorie di soggetti coinvolti nelle dinamiche di conflitto: l’inquinatore, l’inquinato, lo Stato, gli scienziati. Su quest’ultima categoria di soggetti, Nebbia ci aiuta a sfatare un altro mito di difficile ma necessaria demolizione: il mito dell’imparzialità della scienza. “Alcuni scienziati aiutano l’inquinato a riconoscere chi viola i suoi diritti e a difendersi; altri aiutano l’inquinatore spiegando che l’inquinamento non arreca poi così grande danno all’inquinato, che le malattie lamentate dall’inquinato hanno origini di- verse dall’inquinamento provocato dal suo cliente”.

In definitiva, può argomentarsi che i conflitti ambientali sono saldamente connessi a battaglie che chiedono di riformare profondamente i modelli decisionali, a partire dalla dimensione locale; inoltre la loro diffusione e intensità contribuisce oggigiorno ad affermare la necessità e l’urgenza di ripensare il modello produttivo e, assieme, di implementare strumenti di coinvolgimento popolare capaci di rispondere efficacemente al contrasto – e alla differenza di potere di incidenza – tra i divergenti interessi in gioco. Anche su questo, la miriade di contributi, articoli, saggi e riflessioni elaborati da Nebbia sui diversi aspetti della conversione ecologica hanno contribuito a radicare in noi la convinzione che la denuncia delle storture prodotte dal sistema economico attuale non possano esimerci dal contribuire al disegno di un orizzonte di alternativa, con tutte le complessità che ciò comporta. “Un ‘nuovo corso’ di industrializzazione italiana – scrive Nebbia – oggi deve fare i conti con la forte offerta di mano d’opera a basso prezzo esistente nei paesi poveri del mondo che ha spinto gli imprenditori a trasferire le attività manifatturiere italiane in tali paesi, nei quali le normative di sicurezza e di attenzione per la qualità delle merci e dell’ambiente spesso sono più permissive di quelle europee. Nello stesso tempo la globalizzazione sta portando ad una crescente immigrazione in Europa di mano d’opera talvolta adatta a lavori poco qualificati, ma che in futuro sarà sempre più specializzata e rappresenterà una sfida ulteriore per i nostri tecnici e laureati”.

L’orizzonte cui tendere non potrà che rifondare le logiche produttive sulla riterritorializzazione delle produzioni, sulla transizione energetica, sul passaggio dalla produzione su grossa scala alla differenziazione e interconnessione, sulla mobilità dolce e sostenibile, sullo stop al consumo di suolo, sulla gestione partecipata dei servizi pubblici, sull’elaborazione – tardiva e necessaria – da parte del potere politico, di politiche industriali nazionali che investano nella circolarità, nel recupero delle materie prime, nella sostenibilità ambientale e sociale, nella giustizia intergenerazionale.

Per tutte queste ragioni, e per molte altre che per brevità non abbiamo qui modo di approfondire, Nebbia, a dispetto del nome, quasi a sberleffo del nome, è per noi un faro, utile ad orientare analisi, puntualizzare concetti, intravedere scenari, elaborare proposte.

Questo contributo è contenuto, assieme a molti altri scritti dedicati al lavoro di Nebbia, nel volume

“Per Giorgio Nebbia – Ecologia e giustizia sociale”

© 2016 Fondazione Luigi Micheletti, Brescia

ISBN 978-88-90-87171-9

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