Vent’anni. Duecentoquaranta mesi. Settemilatrecentoquattro giorni. Tanto è passato, tra la zona rossa del 2001, le immagini di via Tolemaide, Carlo disteso in Piazza Alimonda, le urla della notte nella Diaz, le torture di Bolzaneto. Tra l’incredulità di quei giorni, la rabbia, la paura, il senso di ingiustizia; l’impunità di questi anni.

E il ritrovarsi, oggi – dopo una lunga asfissia, dopo aver attraversato entusiasmi e batoste, battaglie e campagne, resistito ad attacchi sempre più feroci, a crisi drammatiche, a un anno e mezzo di sindemia. Ritrovarsi a Genova, oggi. Vent’anni dopo.

Esserci è una boccata d’aria. È riprendere calore e colore, è sentirsi di nuovo parte di un campo ampio. Nel tendone allestito di fronte al Palazzo Ducale, promosso e facilitato dalla Rete Genova 2021, un’altra consapevolezza, dello stesso segno, ha sostituito “Voi G8, noi 6 miliardi” ed è “Voi la malattia, noi la cura”. L’obiettivo non è fare retorica, non è la celebrazione di quel che fu o di quel che poteva essere, ma è guardarsi di nuovo in faccia, riconoscersi, rinnovarsi nella consapevolezza e nella gioia di non essere solə dalla parte giusta della barricata. Ma soprattutto, è cercare nuovi modi e strumenti per connettere le istanze e accumulare la forza necessaria a imporre quelle ragioni che erano tutte là, già vent’anni fa. E che oggi si trovano, solide e incontrovertibili come allora, al cospetto di un capitalismo bulimico e ancor più feroce, con una crisi sociale, ambientale, economica e culturale sempre più mordace.

Dove siamo?

Già venti anni fa a Genova i temi oggi centrali nell’agenda dei movimenti c’erano tutti. Lotta alle disuguaglianze sociali e alla devastazione ambientale, difesa dei diritti, della sovranità alimentare, redistribuzione della ricchezza e del potere decisionale, democratizzazione dei processi e delle istituzioni. C’erano anime, pratiche, percorsi e sensibilità diversi, una moltitidine di menti e corpi, ma l’analisi era condivisa e le dita tutte puntate contro il modello economico e la globalizzazione capitalista. Era già lampante che si trattava di un’etichetta dietro cui si malcelava un sistema di sfruttamento distruttivo e pervasivo, basato sull’estrazione di valore da tutto e tutti: esseri umani, ecosistemi, risorse – persino dalle crisi.

A Seattle e poi a Genova era già chiaro che quel processo di globalizzazione non era e non sarebbe mai stato un processo che avrebbe parlato la lingua della democrazia, lavorato per l’ampliamento degli spazi di partecipazione o per diffondere diritti e benessere.

Il rischio che ingrandire la dimensione geografica dei processi macroeconomici avrebbe significato ampliare ancora il perimetro della mercificazione della vita e della natura in tutte le sue forme è divenuto una prassi consolidata e aberrante. Una pratica implicitamente accettata dalle istituzioni politiche e dal diritto, incluso quello internazionale, che – tradendo l’anelito di universalismo su cui era nato – sulle leggi del mercato si è forgiato, finendo con il legittimare, incoraggiare e difendere nella prassi più le libertà economiche che i diritti umani fondamentali.

Oggi le istanze, le vertenze, le denunce e le rivendicazioni presenti in quel movimento che affollò le strade di Genova sono ancora qui in tutta la loro urgenza, spinte da un potenziale di distruzione ancor più drammatico di allora.

La centralità del nodo ambientale

In questi anni le dinamiche di sfruttamento che costituiscono il fil rouge del sistema capitalista potenziato dalla globalizzazione senza regole hanno esacerbato – da un lato – il processo di concentrazione della ricchezza in un numero progressivamente più esiguo di individui; dall’altro – hanno spinto le emergenze ambientali (a partire di quella climatica) verso un livello tale da mettere a rischio il godimento di tutti i diritti umani fondamentali e la sopravvivenza stessa di molte specie – tra cui quella umana – sul pianeta. Tutte le crisi ambientali (nonostante incalcolabili conferenze, report, dichiarazioni e accordi internazionali) sono invariabilmente peggiorate; l’emergenza climatica è esplosa acuendo disuguaglianze a tutte le latitudini del mondo; la visione di chi sosteneva già allora che giustizia ambientale e sociale fossero inscindibili è ormai confermata da evidenze e statistiche.

Mentre ragioniamo dell’impatto sulla vita e sulla salute della pandemia (o – più propriamente – della sindemia) in corso, dimentichiamo che sono stimati tra i 7 e i 9 milioni l’anno i morti per inquinamento atmosferico nel mondo, una ogni cinque morti premature, e che altri 5 milioni di morti l’anno sono collegabili agli eccessi di caldo e di freddo causati dagli squilibri climatici. Un’altra pandemia, indisturbata, con numeri da capogiro, ma silenziosa, progressiva, che avanza inesorabile, e di cui la politica non si occupa.

È invece nella società che è col tempo penetrata una consapevolezza via via maggiore dell’impatto delle crisi ambientali e del loro legame con la povertà, i diritti e la democrazia.

Il portato del “movimento dei movimenti” di Genova si è così evoluto negli anni successivi: la presa di coscienza della necessità di costruire un altri modelli economici e sociali, e la consapevolezza che ciascuna battaglia ambientale, lungi dal parlare soltanto del proprio territorio, non poteva che avere questo orizzonte e questa ambizione, ha permeato tutte le lotte contro le grandi opere inutili e dannose, contro le infrastrutture militari, la contaminazione del territorio, l’estrattivismo, le privatizzazioni. In Italia come in America Latina e nel resto del mondo. Tutte queste istanze, mosse da attori sociali con culture politiche anche diverse, fino alla comparsa sulle scene di un inedito movimento di opinione giovanile di massa, quello dei Fridays for future, hanno costruito il caleidoscopio di un movimento globale per la giustizia ambientale e climatica che è una delle esperienze più interessanti, sfaccettate e in continua evoluzione di questi ultimi decenni.

L’ecologismo non è giardinaggio

Questo cammino multiforme, percorso da milioni di gambe, dal nord al sud del mondo, dalle foreste dell’Amazzonia al Delta del Niger all’asfalto delle metropoli ci ha confermato in questi anni che l’ecologismo o è politico, o è giardinaggio. Che di fronte alla gravità delle crisi ambientali essere ecologisti significa essere radicali. Significa mettere in discussione il sistema di estrazione, produzione, consumo e smaltimento e mettere in atto azioni radicali: uscire dal fossile, azzerare i sussidi ambientalmente dannosi, fermare la deforestazione e la cementificazione, riprogettare i sistemi di produzione in maniera autenticamente circolare, ritornare a una agricoltura che non danneggi il pianeta e la salute, ripensare i modelli di consumo.

L’ecologismo a-politico che pensa di poter correggere il sistema con piccoli aggiustamenti, promuovendo il capitalismo verde o la green economy dei grandi player della dark economy ritinteggiata per l’occasione o – ancora – proteggendo una specie di pipistrelli nel Borneo mentre intere comunità muoiono avvelenate e attorno tutto brucia, non è la risposta.

L’eredità della generazione di Genova, la stessa di Seattle, è germinata dunque in una moltitudine di frutti: nelle citate battaglie territoriali per la difesa del territorio e dei beni comuni, contro le privatizzazioni, i trattati capestro e un commercio internazionale che schiaccia i paesi del sud e contemporaneamente nelle battaglie dei lavoratori e delle lavoratrici; nel movimento giovanile per la giustizia climatica, nei contenziosi legali che stanno portando la lotta climatica nelle aule dei tribunali. E, ancora, nelle esperienze di mutualismo, nelle reti di supporto ai migranti, nelle navi che organizzano i salvataggi in mare, nelle mobilitazioni transfemministe, nelle campagne per la salute pubblica e contro i brevetti sui vaccini, nel movimento Black Lives Matter. Nella lotta contro tutte le ingiustizie, contro ogni discriminazione.

Da dove ripartiamo

Ma c’è di più. Tutte queste battaglie sono unite dalla necessità di superare un grande malinteso culturale, filosofico, etico. L’imperativo irrimandabile è ripensare radicalmente la relazione tra esseri umani e tra esseri umani e ambiente, attraverso la ricomposizione di una dicotomia che ha portato a organizzare il modello economico e sociale sull’ingannevole convinzione di essere padroni del pianeta e non sua parte integrante. Ciò ha finito per eleggere la sopraffazione, la competizione (anziché la solidarietà, la cooperazione, l’interdipendenza) a meccanismo di funzionamento delle dinamiche economiche, politiche e sociali.

Per battere le logiche del capitalismo rapace la battaglia non può che partire da qui. Solo curando questo delirio di onnipotenza che si chiama antropocentrismo potremo minare alle basi le altre forme di dominazione e discriminazione: il razzismo, il patriarcato, il sessismo, il colonialismo e il neocolonialismo – che è culturale prima ancora che economico e politico.

C’è bisogno di una rivoluzione filosofica e culturale dunque. Ma anche di uno sforzo creativo. Di innovare pratiche e costruire nuove modalità.

Lasciamo Genova con il proposito che questi giorni siano costituenti.

Le energie ci sono, la volontà anche, le ragioni sono dalla nostra da sempre.

Che la forza sia con noi.

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