“La marcia degli impianti della green refinery non si ferma. La gran parte del personale locale di Enimed opererà in smart working”.

Quello che scrive il 12 marzo il Quotidiano di Gela conferma ciò che è noto da tempo, ovvero che il profitto resta il principale motore dell’industria. Anche ai tempi del coronavirus. Così, mentre in tutta Italia alla popolazione viene chiesto di restare a casa, Eni sceglie di continuare a tenere viva la produzione. Anche se come al solito si conferma la disparità tra dipendenti del diretto e lavoratori dell’indotto.
A Gela, infatti, gran parte delle aziende che “gestiscono i contratti di manutenzione per conto della multinazionale, ha comunicato ai dipendenti lo stop, ad eccezione degli interventi per assicurare l’ordinaria marcia degli impianti”. Coi lavoratori costretti a ricorrere alle ferie anticipate e con il probabile scenario che dovranno lavorare a pieno regime, senza pause, durante il periodo estivo (quando si spera che la pandemia del Coronavirus avrà allentato la sua morsa).
In un comunicato stampa pomposamente intitolato “Eni è con l’Italia nella lotta al coronavirus”, l’azienda rende nota “una serie significativa di interventi che saranno immediatamente operativi in campo medico e sociale”: si va dalla realizzazione di un nuovo pronto soccorso dedicato alle malattie infettive, all’Ospedale Sacco di Milano, alla fornitura di equipaggiamento sanitario come monitor per rianimazione e dispositivi di protezione individuale, al Policlinico di San Donato. Interessante anche, in prospettiva futura, le “partnership con l’Istituto dei Sistemi Complessi del CNR e con l’Istituto Superiore di Sanità per l’utilizzo delle capacità di calcolo e modellizzazione per la ricerca medica collegata alle malattie infettive, del supercalcolatore Eni/HPC5 tra i più potenti al mondo”.
Tutte azioni meritorie, degne della più importante azienda italiana e figlie anche della presenza, come socio di maggioranza, dello Stato. Stonano però tre aspetti. Innanzitutto lo sbandieramento dello sforzo un po’ pacchiano, con la nota che fa notare come “l’impegno economico per questa serie di interventi è pari a circa 30 milioni di euro”. Così come risulta incredibile la mancanza di aiuti al Sud – e dire che da Taranto a Brindisi, da Milazzo fino ad arrivare a Gela, i siti in cui Eni opera sono tanti e sono soprattutto quelli che, come confermato dalla quinta edizione dello studio Sentieri, avrebbero più bisogno di sostegno.
Mancano infine precise indicazioni su come l’azienda sta fronteggiando la più grave crisi sanitaria della Repubblica all’interno dei propri impianti, in Italia e negli altri 66 paesi dove Eni è presente. Certamente il coronavirus comporterà importanti conseguenze per gli assetti della multinazionale energetica. Appare ormai certa la terza riconferma di Claudio Descalzi come amministratore delegato di Eni. Già nei giorni scorsi, prima dell’arrivo del coronavirus, il manager nominato dall’allora premier Matteo Renzi nel 2014 catturato la benevolenza dell’attuale governo confrontandosi più volte con Riccardo Fraccaro, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e uomo scelto dal M5s per condurre la partita delle partecipate. Proprio quel Movimento 5stelle che era stato acerrimo accusatore di Descalzi alla notizia della presunta corruzione internazionale in Africa – il caso Opl 245 vede attualmente in corso al tribunale di Milano il processo di primo grado per una presunta tangente da 1,092 miliardi di dollari che sarebbe stata pagata da Eni e Shell, agli uomini dell’allora presidente della Nigeria, Jonanath Goodluck, per aggiudicarsi la licenza esplorativa di uno dei giacimenti di petrolio più promettenti del Paese. Quella che è stata definita, sempre se fosse accertata, la tangente più grande della Storia sembra passare ora in secondo piano rispetto ai rinnovati equilibri di potere. Fonti interne al M5s assicurano che “Descalzi va dove va il potere, quindi meglio avere uno che conosce già la macchina piuttosto che nominare qualcuno non avvezzo a quei meandri”. Real politik, insomma. Anche perché in tempi di emergenza, secondo l’indirizzo del governo che trapela dai giornali, meglio dare stabilità – alla popolazione e ai mercati. L’orizzonte più prossimo è il 13 maggio, il giorno in cui dovrebbe tenersi l’assemblea degli azionisti. Ma il condizionale è d’obbligo. Le cronache di questi giorni raccontano infatti che si stanno valutando varie opzioni: o videoconferenza o partecipazione dal vivo rispettando le misure precauzionali (distanza di un metro tra i partecipanti e controlli sanitari all’ingresso) o rinvio di un mese. Pur se in uno stato di eccezione destinato a durare, il pericolo del coronavirus non può comunque legittimare altre forzature. Non vorremmo che quando tutto questo finirà, in nome della ripresa che verrà (che dovrà venire), si rafforzi il modello di sviluppo che ha portato ai disastri attuali. Sembrano lontani i tempi in cui si parlava di cambiamento climatico. Eppure, finita la crisi sanitaria, i mali del mondo torneranno a riemergere. E di certo non potranno sanarli le fonti fossili.

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