Il progetto Pachamama si pone il macro-obiettivo di promuovere il ruolo della donna nell’affermazione della sicurezza alimentare.

Nel dicembre 2019 ha preso avvio presso l’Università di Udine il progetto di ricerca sulle pratiche agricole e sulla gestione sostenibile del suolo in Bolivia, che è parte di un progetto più ampio finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS): il progetto Pachamama.
Il progetto ha luogo nei Dipartimenti di Cochabamba e La Paz ed è gestito da CeVI e COSPE rispettivamente. Nel suo complesso il progetto Pachamama si pone il macro-obiettivo di promuovere il ruolo della donna nell’affermazione della sicurezza alimentare, che è strettamente connessa alla conservazione dei suoli che assieme all’acqua costituiscono elemento essenziale per le produzioni agricole. Una gestione corretta e conservativa del suolo può infatti favorire la ritenzione dell’acqua e la sua maggiore disponibilità per le piante, oltre che una maggiore produttività data dall’aumento di sostanza organica e quindi di nutrienti e di una migliore struttura del suolo: si stima che la gestione sostenibile possa aumentare la produttività fino al 58%.

Come è stato spiegato da Lucia Piani durante il convegno che si è tenuto all’Università il 5 febbraio 2020 per introdurre la ricerca alla comunità accademica, i progetti che mirano a favorire l’adattamento ai cambiamenti climatici devono avere sempre un’ottica di sostenibilità a 360 gradi: sociale, ambientale, economica e politica; ecco perché il progetto è così ampio e prevede diversi livelli di intervento. Successivamente Maria De Nobili, docente di chimica agraria, ha sottolineato come i problemi legati all’erosione del suolo siano strettamente legati al fenomeno del cambiamento climatico. Oltre ad essere importante per la produzione di alimenti, il suolo rappresenta uno stock di carbonio, che, in caso di erosione, viene rilasciato in atmosfera sotto forma di biossido di carbonio, contribuendo alle emissioni del gas serra. Ma una gestione sostenibile può portare anche al sequestro, con un potenziale stimato di compensazione delle emissioni dei combustibili fossili del 5-15%. Infine Greta Braidotti, assegnista di ricerca che segue il progetto, ha illustrato le caratteristiche climatiche delle aree di studio e i cambiamenti effettivamente percepiti, che si possono riassumere nel termine “eventi estremi”: precipitazioni più concentrate ma minori in quantità, temperature mediamente più alte ma maggiori eventi di siccità e gelate, e di conseguenza scioglimento dei ghiacciai, scarsità d’acqua, perdita dei raccolti,
ma anche erosione del suolo, franamenti, allagamenti. Queste comunità infatti, pur essendo la fonte di una parte irrisoria delle emissioni globali, devono affrontare gli impatti più severi, soprattutto in relazione al fatto che sono completamente dipendenti dall’ambiente in cui vivono. Le popolazioni indigene non vedono l’ambiente come qualcosa da tutelare di per sé o da sottomettere al bisogno, ma come un insieme complesso di fattori biotici e abiotici in cui l’uomo deve trovare la sua collocazione avendo rispetto per ognuno di essi. Hanno anche una maggiore capacità di accettare questa complessità, che noi occidentali cerchiamo spesso di semplificare per favorire la comprensione. Questo modo di ragionare permette loro di essere proattivi di fronte all’adattamento ai cambiamenti dell’ambiente in cui vivono, attingendo sia alle loro conoscenze e alla loro capacità di osservazione, sia accettando le nuove tecniche o tecnologie proposte dall’esterno.

Molti progetti in queste zone si sono concentrati quindi proprio sullo studio dei vantaggi dati dalle tecniche sostenibili utilizzate in alcune comunità, e sul favorire momenti di scambio tra i coltivatori in modo da espandere le buone pratiche tra diverse comunità. La ricerca si propone quindi di:
1. raccogliere informazioni sulle buone pratiche utilizzate dalle comunità locali,sulle difficoltà e sulle necessità dei produttori attraverso rilievi ad hoc;
2. analizzare le caratteristiche dei suoli in laboratorio per creare una banca dati che ponga in correlazione i dati riportati dagli agricoltori e le qualità chimiche e strutturali dei terreni;
3. definire una strategia partecipata per consentire una migliore gestione dei suoli e dell’acqua.

Siccome queste valutazioni sono imprescindibili dallo studio dell’uso di agro-chimici, che oltre ad inquinare le acque sotterranee causano compattazione e salinizzazione del suolo e ne peggiorano la struttura, lavoreremo assieme all’associazione A Sud Onlus, che si occuperà di approfondire questa tematica. Nelle comunità rurali agricole boliviane, si è infatti diffuso negli ultimi anni moltissimo l’utilizzo di pesticidi, fertilizzanti e altri prodotti chimici che, se a primo acchito hanno un impatto positivo sull’abbondanza e la resistenza dei raccolti, alla lunga rendono i suoli aridi e sterili, nonché danneggiano pesantemente la salute di chi coltiva e di chi consuma gli ortaggi. Questo tanto più perché la compravendita di questi prodotti passa per lo più per vie informali e attraverso l’importazione illegale da Paesi confinanti come il Brasile, con il risultato che si finisce per utilizzare in maniera estensiva sostanze estremamente tossiche, spesso ufficialmente vietate. Il progetto Pachamama si propone quindi con la propria attività di ricerca anche di raccogliere maggiori informazioni su questo grave fenomeno ancora troppo poco indagato.

Per cominciare, nel mese di marzo verrà effettuato un campionamento preliminare e un’analisi dei suoli, che ci permetterà di raccogliere informazioni per riuscire a districarci nella diversità estrema di questi ambienti e nella scarsità di dati che impediscono di valutare accuratamente la situazione sul posto. Successivamente, a luglio, si effettuerà la vera e propria campagna di raccolta dati.
Durante il convegno tenutosi nel mese di febbraio abbiamo avuto la fortuna di avere con noi Valmir Soares de Macedo, del Centro de Agricultura Alternativa Vicente Nica in Brasile, con cui il CeVI ha instaurato una fruttuosa collaborazione. Valmir ci ha raccontato di quanto lui trovi importante, di fronte a eventi inesorabili come il cambiamento climatico, o disastrosi come le azioni dell’essere umano incapace di crearsi una nicchia sostenibile sul Pianeta, aiutare piccole comunità che hanno voglia di riprendere il controllo della loro vita e dei luoghi in cui vivono con estrema consapevolezza rispetto all’ambiente in cui vivono.


Fonti:

1 – FAO 2015: http://www.fao.org/fileadmin/user_upload/soils-2015/docs/IT/IT_Print_IYS_food.pdf
2 – Reid R.S., Fernández-Giménez M.E., Galvin K.A. 2014. Dynamics and resilience of rangelands and pastoral peoples around the globe. Annu. Rev. Environ. Resour. 2014. 39:217–42.
3 – Lal R. Soil carbon sequestration impacts on global climate change and food security. Science 11 Jun 2004: Vol. 304, Issue 5677, pp. 1623-1627. https://science.sciencemag.org/content/304/5677/1623
4 – Quiroga B.R., Salamanca L.A., Espinoza Morales J.C., Torrico C.G. 2008. Atlas. Amenazas, vulnerabilidades y riesgos de Bolivia. OXFAM e FUNDEPCO. Pluraleditores, La Paz, Bolivia.DOI: 10.2307/25765295.
5 – Boillat S., Berkes F. 2013. Perception and Interpretation of Climate Change among Quechua Farmers of Bolivia. Indigenous Knowledge as a Resource for Adaptive Capacity. Ecology and Society, Vol. 18, No. 4 (Dec 2013). https://www.jstor.org/stable/26269399seq=1#metadata_info_tab_contents

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