Decreto clima, quando le buone pratiche non bastano
Il provvedimento tanto atteso non incide sui settori principalmente inquinanti.
Proprio nei giorni della Cop25 la Camera ha approvato il tanto atteso decreto clima.
Un provvedimento che però, dopo quattro mesi di percorso accidentato e molteplici compromessi, è privo della necessaria ambizione. Ad ammetterlo a denti stretti anche esponenti della maggioranza, che è dovuta ricorrere alla fiducia dopo che al Senato il dibattito lungo più di un mese aveva sfibrato gli iniziali entusiasmi. “Di fronte al primo decreto nella storia che riguarda esclusivamente l’ambiente, mettere anche solo un euro su questo tema mentre si sterilizzano 23 miliardi di Iva non è un argomento banale», ha detto Riccardo Ricciardi del M5S commentando le scarse risorse economiche destinate.
Pochi soldi, dunque, ma per cosa? E davvero non si poteva fare di più? Le opposizioni hanno lamentato che la fiducia ha strozzato il dibattito parlamentare.
Eppure proprio dal passaggio a Palazzo Madama era partito il confronto che avrebbe portato alla rimozione di uno dei capisaldi del decreto stesso: il taglio dei sussidi ai combustibili fossili, che lo stesso ministero definisce ambientalmente dannosi. Nella sua prima versione il decreto prevedeva infatti l’eliminazione totale dei sussidi entro il 2040, partendo dal 2020 con tagli annui di almeno il 10%. Nella versione finale, ha vinto la linea di chi voleva procrastinare la scelta a data da destinarsi. Un vero peccato se si pensa che nel 2017, ultimo anno censito, la cifra destinata a tali sussidi si aggirava intorno ai 19 miliardi di euro (circa come una manovra finanziaria) e – cosa di particolare rilievo – il loro l’ammontare risultava superiore ai sussidi ambientalmente favorevoli. I dubbi sul decreto, tuttavia, non sono legati solo a questo aspetto, ma alla mancanza di una visione sistemica necessaria a un vero cambio di modello. Di certo non si può non accogliere positivamente l’istituzione di «Informambiente», un portale che mira a facilitare l’accesso dei cittadini ai dati ambientali, così come la decisione di puntare sulle scuole avviando campagne di formazione e sensibilizzazione.
Da apprezzare anche la decisione di incentivare la mobilità sostenibile nelle aree metropolitane per un ammontare di 255 milioni di euro o di investire nella realizzazione di progetti sperimentali tra cui l’avvio di un servizio di trasporto scolastico per bambini e ragazzi delle scuole con mezzi ibridi o elettrici. Non mancano poi finanziamenti per i progetti di riforestazione urbana o per il miglioramento della sostenibilità delle attività in ambito cittadino, per migliorare la qualità dell’aria e della salute pubblica, promuovere l’economia circolare e favorire la transizione ecologica. Vengono infine istituiti contributi economici a fondo perduto (per un importo massimo di 5000 euro) per chi attrezza spazi dedicati alla vendita di prodotti sfusi o alla spina, alimentari e per l’igiene personale.
Buone iniziative, senza dubbio, che però non riescono a supplire all’evidente mancanza di un approccio d’insieme, sostituito nel decreto da un catalogo di minuziose buone pratiche. Prive di un quadro organico, rischiano di risultare meri palliativi. La sfida dei cambiamenti climatici richiede di più: non ci si può accontentare di un buon passaggio durante gli ultimi minuti di gioco di una partita di calcio che si sta perdendo. Le emissioni di gas climalteranti in Italia stanno diminuendo con un andamento talmente lento da sembrare stabili, tanto più che parte di questa riduzione è dovuta principalmente alla crisi economica del 2008 e al conseguente calo della produzione, o comunque alla delocalizzazione di alcuni settori produttivi all’estero.
In particolare secondo l’Ispra al 2017 le emissioni si erano ridotte di appena il 17.4% rispetto al 1990, mentre già nel 2007 l’Ipcc (l’organismo scientifico sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite) chiedeva di ridurre le emissioni del 25-40% entro il 2020. Tale condizione è aggravata dal fatto che l’aumento della temperatura media registrato in Italia negli ultimi 30 anni è stato quasi sempre superiore a quello medio globale sulla terraferma.
Per affrontare la gravità del problema quindi non ci si può limitare alla realizzazione di progetti di adattamento ma occorre strutturare una politica di mitigazione che includa settori come quello dell’approvvigionamento energetico e delle industrie che, secondo le stime dell’Ipcc, rappresentano (a livello globale) il 56% delle emissioni. Pensare di limitarsi al finanziamento di buone pratiche senza pensare a una riduzione stringente dei target emissivi italiani equivale a continuare a guardare il dito, anziché la luna.