Dalla parte dei popoli indigeni

Nel 2017 sono stati uccisi 197 difensori dell’ambiente, di cui la metà indigeni. Nel 2016 più di 200 gli attivisti ambientali assassinati, una media di quattro morti a settimana.

Questi i dati che emergono dal rapporto annuale di Global Witness, l’ONG impegnata a denunciare e combattere le violazioni dei diritti umani e dell’ambiente che avvengono nel mondo.

Come confermato da FrontLine Defenders, l’organizzazione internazionale nata per difendere i difensori dei diritti umani in pericolo e secondo la quale i difensori uccisi nel 2017 sarebbero 312, il Paese dove si registra il maggior numero di omicidi contro attivisti è il Brasile, seguito da Colombia, Messico e Filippine.

Proprio dal Brasile e dalle Filippine sono venute a Roma due figure di spicco nella difesa dei diritti delle comunità e dei territori indigeni, rispettivamente Francinara Baré, Coordinatrice della COIAB (Confederazione Delle Organizzazioni Indigene dell’Amazzonia Brasiliana) e Vicky Tauli-Corpuz, leader indigena del popolo Kankana-ey Igorot e Relatrice Speciale ONU sui Diritti dei Popoli Indigeni. Vicky e Francinara sono state ospiti e relatrici dell’incontro “Dalla parte dei popoli indigeni”, organizzato il 22 marzo alla Città dell’Altra Economia da In Difesa Di – per i diritti umani e chi li difende, una rete di oltre 30 organizzazioni e associazioni italiane attive su tematiche quali diritti umani, ambiente, solidarietà internazionale, pace e disarmo, diritti dei lavoratori, la libertà di stampa e lo stato di diritto. Un incontro che merita di essere raccontato.

A colpire di più è senza dubbio la storia umana e politica di queste due donne. La loro personalità e le battaglie di cui si fanno portavoce fanno di loro due testimonianze viventi di incredibile forza e determinazione, fonti di ispirazione per tutti quelli che si battono per i diritti umani e dell’ambiente.

Soia, bestiame e sangue nel Brasile di Francinara

Nel parlare della sua attività politica, Francinara ricorda con orgoglio e dolore il suo ruolo di mamma. Dolore per via della lontananza da suo figlio da ormai 6 anni per motivi di sicurezza, orgoglio perché è anche per lui che lotta in prima linea in difesa dell’Amazzonia e delle sue popolazioni. Di origine Baré (una popolazione indigena dell’Amazzonia brasiliana), Francinara Soares Martins Baré, Nara, è stata la prima donna a ricoprire il ruolo di coordinatrice del COIAB, la più grande organizzazione indigena brasiliana di cui sono parte 160 popolazioni dell’Amazzonia (il 60% della popolazione indigena dell’area). Nara è venuta in Italia come parte di un tour europeo in cerca di appoggio e solidarietà.

Ci ricorda che l’Europa è il primo importatore di prodotti brasiliani come soia e bestiame, alla cui produzione è legato il versamento del sangue indigeno e contadino. Solo nel 2017 in Brasile sono stati uccise 46 persone coinvolte in vertenze ecologiste, indigeni per lo più, ma non solo. Consapevole che le decisioni economiche e commerciali tra i due Paesi vengono prese da attori disinteressati alla salute e al benessere delle popolazioni su cui ricadono tali decisioni, Francinara lancia un appello alla solidarietà diretta tra i popoli e ricorda come la battaglia dei popoli indigeni per l’ambiente è una battaglia per tutta l’umanità.

L’antiterrorismo come strumento per criminalizzare gli attivisti Filippini

Victoria Tauli-Corpuz – Vicky – è una donna indigena filippina di circa 50 anni, calma e determinata, agguerrita ma rilassata, con un sottile e costante umorismo da cui traspare la serenità con cui affronta le battaglie per le quali rischia la vita.

Il nome di Vicky è stato infatti inserita questo febbraio in una lista nera compilata dal governo di Rodrigo Duterte assieme ai nomi di 649 persone accusate di essere membri o sostenitori di organizzazioni terroriste, prime tra tutte il Partito Comunista delle Filippine e il suo braccio armato, il NPA (New People’s Army). Nonostante Vicky non abbia una storia di militanza in tali organizzazioni, è rea, agli occhi del governo, di aver denunciato pubblicamente le esecuzioni extragiudiziali di attivisti indigeni nelle proteste contro le occupazioni illegali dei territori indigeni per mano di imprese minerarie e dell’industria agroalimentare. Secondo la relatrice speciale, questa operazione è una chiara rappresaglia contro le sue dichiarazioni (per le quali era già stata accusata dal presidente di voler umiliare il governo), posizione questa condivisa anche dal Consiglio ONU sui diritti umani. Come noto al Consiglio, infatti, non è la prima volta che il governo di Duterte ricorre alla legislazione antiterrorismo (il National Security Act del 2007) per mettere a tacere Relatori Speciali delle Nazioni Unite. Già Agnès S. Callamard, Relatrice Speciale ONU sulle esecuzioni sommarie, aveva ricevuto minacce per aver denunciato le esecuzioni extra-giudiziali avvenute nell’ambito della cosiddetta “lotta alla droga”, nel nome di cui sono stati commessi circa 2000 omicidi, in gran parte nei confronti delle popolazioni indigene.

A differenza di altri attivisti indigeni, Vicky gode dell’immunità garantita dalle Nazioni Unite nell’esercizio delle sue funzioni. Tuttavia, come ricorda durante il suo intervento, i rischi che corre sono aggravati non solo dal suo ruolo nell’ONU, evidentemente bersaglio del governo, ma anche dall’ostilità che questo ha nei confronti delle donne (dimostrato in numerosi comunicati contro altre donne in posizione di potere nel Paese) e delle popolazioni indigene, ostacolo costante ai suoi grandi progetti di “sviluppo”. Inserire il suo nome nella lista nera è risultato quindi conveniente al governo, continua Vicky, per attaccarla su ognuna delle scomode categorie che compongono l’intersezionalità di genere, etnia e ruolo sociale propria della sua persona.

Un oppressore comune: lo sviluppo

Ad accomunare le due storie – e sfortunatamente molte altre – vi è non solo la criminalizzazione operata dai governi nei confronti delle difensore dei diritti di comunità e territori (accentuate in entrambi i casi dall’intersezionalità delle identità sociali delle due attiviste), ma anche i contesti in cui tale criminalizzazione avviene. I mega-progetti promossi dai governi con l’appoggio delle istituzioni internazionali e del business dello sviluppo, sono ormai i campi di battaglia dove hanno luogo i conflitti più aspri tra i difensori dei diritti socio-ambientali e i grandi interessi del capitale.

Come ci ricorda Wolfgang Sachs nel suo libro “Il Dizionario dello sviluppo”, lo Sviluppo è una ideologia nata in un momento storico per mano di attori e con finalità ben definiti, riconoscibili e in fondo mai nascosti. Secondo l’attivista messicano Gustavo Esteva, l’era dello sviluppo nasce con il discorso d’insediamento del presidente Truman il 20 gennaio 1949, in cui, per consolidare la posizione egemone degli Stati Uniti postbellici, li esortava a “imbarcarsi in un nuovo e deciso programma per rendere disponibili i progressi scientifici e industriali alle aree del mondo sottosviluppate”. L’uso del termine sottosviluppato in questo contesto non solo ha aperto le porte ad un’interpretazione dello sviluppo fatta di dighe, miniere, autostrade o produzioni agroalimentari, con conseguenze sociali ed ambientali devastanti, ma ha anche aperto le porte dei mercati del sud del mondo alle imprese occidentali, anzi li ha completamente formati nella sua peggiore immagine e somiglianza.

Nel creare la sua area di egemonia, l’occidente ha necessariamente collaborato con quelli che sono gli unici veri “beneficiari” dei loro mega-progetti di sviluppo: i governi e le imprese amiche. Grazie al loro supporto attivo, sono stati e continuano ad essere possibili la contaminazione dei territori, lo sfruttamento delle comunità che li vivono, prime fra tutte quelle indigene, e la persecuzione di difensori e difensore dei diritti. Impostazione questa che non è mutata con l’emergere delle nuove potenze economiche sullo scenario globale, ma è semmai peggiorata con la rincorsa ossessiva alla crescita economica.

Il carattere neocolonialista dello sviluppo, più volte denunciato dalle organizzazioni ambientaliste e dal mondo accademico, è emerso in tutta la sua forza dagli interventi di Francinara e Vicky. Vista la mole di documentazione e report relativi alla devastazione ambientale, agli espropri illegittimi delle terre contadine, alle persecuzioni delle comunità indigene, all’incuranza dei governi verso i diritti umani e agli omicidi degli attivisti, sorprende che ancora non ci si chieda sistematicamente: chi beneficia di questo tanto sognato “sviluppo”? Sviluppo sì, ma di chi?

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