COP26, l’accordo sulla deforestazione e la condanna dei popoli
“I Paesi sviluppati responsabili di genocidio”
Il Glasgow Leaders’ Declaration on Forests and Land Use assomiglia ancora una volta a una dichiarazione di buone intenzioni, che non riesce a delineare impegni.
L’accordo sulle foreste siglato il 2 novembre a Glasgow dai 133 paesi presenti che coprono oltre il 90% delle foreste del pianeta sarà ricordato come l’ennesimo accordo non vincolante firmato dai capi di Stato del mondo.
Ciò che sicuramente preoccupa, è la tempistica con la quale i 133 paesi si impegnano a fermare la deforestazione. La data è fissata al 2030, un tempo giudicato insufficiente per i movimenti ambientalisti e le popolazioni indigene, che chiedono che l’80% dell’Amazzonia sia protetto entro il 2025.
Nell’Accordo inoltre, si legge che i gli Stati firmatari si impegnano per “migliorare i mezzi di sussistenza rurali, anche attraverso l’empowerment delle comunità, lo sviluppo di un’agricoltura sostenibile e il riconoscimento dei molteplici valori delle foreste, riconoscendo al contempo i diritti delle popolazioni indigene e delle comunità locali, coerentemente alle relative legislazioni nazionali e gli strumenti internazionali”. Per fare questo, saranno messi a disposizione 12 miliardi di dollari, e il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha già annunciato di voler contribuire con 7,2 miliardi di dollari aggiuntivi. Tra i partecipanti decine di multinazionali e di donatori privati che dichiarano di voler “ripulire” e promuovere la conservazione delle foreste.
L’8 novembre, in concomitanza con la firma dell’accordo è arrivata la notizia di un attacco armato alla comunità amazzonica dello Stato brasiliano del Parà.
Decine di persone armate che hanno malmenato circa 80 famiglie indigene e dato fuoco alle abitazioni. Dalla comunità oggetto dell’attacco proviene, infatti, una delle rappresentanti oggi presenti alla COP26 di Glasgow.
L’attacco arriva a seguito di un periodo di tensioni tra gli agricoltori che vivono nella zona e alcuni allevatori locali, interessati alle aree per renderle adatte al pascolo.
Si pensi che secondo l’ultimo rapporto della Ong Global Witness, nel solo 2020 almeno 227 attiviste e attivisti impegnati sui temi dei cambiamenti climatici e la tutela del diritto alla terra sono stati assassinati. È il numero più alto registrato per il secondo anno consecutivo, nel 2019 le vittime sono state 212.
Secondo quanto riferito, quasi il 30% degli attacchi è stato collegato allo sfruttamento delle risorse (disboscamento, estrazione mineraria e agroindustria su larga scala), alle dighe idroelettriche e ad altre infrastrutture. Di questi, il disboscamento è stato il settore legato al maggior numero di omicidi, contando 23 casi.
Stupisce che il nuovo Accordo, che sostituisce la Dichiarazione di New York del 2014, allora non firmata da Brasile, oggi sia sottoscritta anche da Jair Bolsonaro, denunciato da alcune ONG alla Corte penale internazionale dell’Aia per “crimini contro l’umanità”, per essere responsabile di 180.000 morti indirette in questo secolo a causa dell’aumento delle temperature globali dovute alla deforestazione dell’Amazzonia.
Le critiche alla Cop e al sistema escludente delle negoziazioni e degli accordi tra paesi sui temi della deforestazione, e non solo, arriva dall’ Assemblea Mondiale dell’Amazzonia (AMA) riunita oggi, 9 novembre, presso lo spazio del CCA, Centro di Arte Contemporanea di Glasgow messo a disposizione dei movimenti globali per la giustizia climatica riuniti nel People’s Summit.
L’Assemblea si apre con il verdetto del Tribunale Internazionale dei Diritti della Madre Terra, che ha esaminato nei giorni passati due casi di ingiustizia ambientale, e tra questi le violazioni perpetrate nell’ultimo secolo ai danni dell’ecosistema amazzonico, considerato un essere vivente ed un vero e proprio soggetto di diritto.
“Dobbiamo tornare ad avere una connessione affettiva con l’Amazzonia, amarla. La regione amazzonica custodisce la più vasta foresta pluviale al mondo e il più ricco sistema fluviale”, dichiara il filosofo Leonardo Boff, tra i giurati del Tribunale, ricordando che il Rio delle Amazzoni raccoglie quasi il 20 per cento dell’acqua dolce che si trova sulla Terra, e per questo la foresta condiziona e regola il clima dell’intero pianeta. Il verdetto del Tribunale lancia un’accusa gravissima ai governi e alle imprese responsabili di ecocidio, etnocidio e genocidio per aver permesso la realizzazione o essere direttamente coinvolti in progetti predatori e in politiche estrattiviste portate avanti nei territori amazzonici, che hanno avuto come conseguenza espropri, morti e danni ambientali irreversibili.
Seguono gli interventi dei protagonisti delle lotte che negli ultimi 30 anni si sono articolati in organizzazioni locali, nazionali e regionali per difendere la foresta amazzonica. Sono i popoli indigeni, i guardiani della terra, i difensori della Selva, i padri spirituali e materiali e gli abitanti ancestrali di queste terre, senza i quali gli equilibri ecologici sarebbero più in pericolo di quanto non lo siano già.
Sono organizzati nella COICA, Coordinadora de las Organizaciones Indígenas de la Cuenca Amazónica, che racchiude le organizzaizoni di 9 paesi, Colombia, Ecuador, Brasile, Bolivia, Perù, Guyana, Guyana francese, Suriname, Venezuela.
Il portavoce della COICA, Gregorio Mirabal, lancia un grido di speranza : “l’Amazzonica si può salvare! Dobbiamo crederci, stringere alleanze e credere che insieme, popoli del nord e del sud del mondo, ce la possiamo fare”. Tuttavia in tutti gli interventi dei delegati indigeni è forte la frustrazione di non essere stati consultati e coinvolti nei tavoli negoziali della COP26, dove i numeri dei rappresentanti indigeni sono la metà rispetto a quelli dei rappresentanti delle lobbies del mondo dell’industria fossile. A dimostrazione della direzione che questa COP intende prendere. “Dobbiamo ridisegnare le politiche pubbliche di gestione della foresta amazzonica, occupare i luoghi di governo.
La pandemia ci ha colpito duramente, e le concessioni alle imprese minerarie sono aumentate negli ultimi due anni in Bolivia, ma dobbiamo unirci per continuare a lottare”, dichiara Vilma Mendoza, leader delle donne indigene di Bolivia. Dalle voci dei leaders latinoamericani emerge speranza e rinnovata voglia di organizzarsi ed articolarsi con i movimenti europei, esortati ad abbandonare l’atteggiamento parassitario nei confronti della Natura, e prendere ad ispirazione quello simbiotico dei popoli indigeni: amazonizamonos! – amazzoniziamoci – chiedono in coro i dirigenti al pubblico di Glasgow.
Ed è in questa sala che A Sud , presente nel pubblico, ritrova le radici, le ragioni e le prospettive di lotta e di lavoro degli ultimi 18 anni: partendo dalle tante battaglie delle comunità indigene in difesa dei territori, sino ad arrivare ad oggi, delineando lo stesso scenario di responsabilità che i vertici istituzionali degli ultimi 20 anni hanno messo drammaticamente in evidenza.
La COP26 non sarà diversa, ma come in ogni appuntamento di governo, anche l’agenda di movimento si ri-costruisce e si rafforza di alleanze e prospettive future. Ripartiamo da qui, accusiamo lo Stato italiano per inazione climatica consapevoli che è grazie alle potenti denunce e al coraggio di tanti popoli oppressi che si potrà trovare forza energia e speranza per intravedere la luce nella notte della governance globale.