COP 25: come ci siamo arrivati
La seconda settimana di negoziati
Da oggi si entra nel vivo della COP 25. Che questa seconda settimana di negoziati sarà quella decisiva si percepisce da subito, a partire dal notevole aumento del numero di delegati che affollano le spaziose aule della Feria di Madrid, al moltiplicarsi delle denunce e delle azioni di protesta e di resistenza all’interno e all’esterno del palazzo.
Ieri, un gruppo di attivisti della campagna Stop Ecocide ha manifestato proprio davanti l’ingresso alla Conferenza, chiedendo che la devastazione ambientale del nostro Pianeta sia legalmente riconosciuta come un crimine davanti alla Corte Penale Internazionale. Dall’interno del palazzo, Greta Thunberg e un gruppo di giovani dei Fridays for Future dai diversi continenti hanno tenuto una partecipata conferenza stampa, denunciando l’inazione dei governi e l’apartheid climatico che colpisce soprattutto le popolazioni dei Paesi meno sviluppati. “Questi governi non ci rappresentano, le nostre vite non sono negoziabili, il nostro pianeta non è in vendita”, ha detto la giovane rappresentante di FFF Cile.
Alcuni manifestanti di Extinction Rebellion sono invece rimasti fino a notte inoltrata fuori dal palazzo a presidiare l’avanzamento delle negoziazioni, che avrebbero dovuto portare alla chiusura della fase più tecnica per passare da oggi la palla ai ministri. Molte delle tematiche invece sono rimaste aperte ieri e sono state rimandate al prossimo anno o ancora più in là, dall’adattamento alle questioni di genere, dalle linee guida sul reporting annuale degli Stati alle emissioni derivanti dal traffico aereo e marittimo internazionale.
Come siamo arrivati fino a questo punto
Ripercorrendo le tappe delle negoziazioni climatiche, risaliamo persino al 1988, quando, in seguito allo svolgimento della prima Conferenza Mondiale sul Clima, dell’istituzione dell’IPCC e dei primi allarmi da parte della comunità scientifica delle conseguenze dell’attività umana sul sistema climatico, rappresentanti dei governi di tutto il mondo si sono riuniti a Toronto per discuterne le implicazioni in termini di sicurezza globale. Nelle conclusioni della Conferenza, oltre al riconoscimento dei mutamenti già avvenuti in termini di innalzamento delle temperature medie, si chiede agli Stati di ridurre le proprie emissioni di CO2 di almeno il 20% entro il 2005, e nello specifico ai Paesi industrializzati di dare l’esempio adottando ambiziose politiche nazionali.
Nel 1992, a conclusione del Summit sulla Terra, nasceva l’UNFCCC, la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, già frutto di un compromesso al ribasso, perché per quanto avesse come obiettivo ultimo la stabilizzazione delle concentrazioni di gas serra in atmosfera a livelli tali da escludere interferenze nocive dell’azione umana sul clima, non adottava nessun target concreto e quantificato di riduzione delle emissioni.
Sarà il Protocollo di Kyoto, nel 1997, a introdurre invece misure vincolanti per i Paesi cosiddetti Annex-1, ovvero quelli maggiormente sviluppati, ma proprio il carattere obbligatorio dei provvedimenti contenuti in questo Accordo ne determinerà il sostanziale fallimento, con l’uscita del Canada e soprattutto il rifiuto da parte degli Stati Uniti di ratificarlo, per cui gli Stati rimasti al suo interno rappresentano appena il 18% delle emissioni globali.
Dopo Kyoto, entrato in vigore solo nel 2005 e la cui prima fase è terminata nel 2012 (la seconda fase, approvata con l’Emendamento di Doha, non ha mai raggiunto il numero di ratifiche necessario per l’entrata in vigore), la governance climatica internazionale sembrava aver raggiunto un momento di stallo, con il fallimento di vari round negoziali nell’impossibilità di raggiungere un nuovo Accordo che comprendesse tutti i quasi 200 Paesi firmatari dell’UNFCCC e allo stesso tempo garantisse misure ambiziose, in linea con le evidenze scientifiche sempre più avanzate, per far fronte ai cambiamenti climatici, che iniziavano ad assumere i contorni di una vera e propria crisi.
Dal deludente Accordo di Copenaghen, alle inconcludenti decisioni prese a Cancun, fino alla presa d’atto nella Conferenza di Durban nel 2011 “del significativo gap” tra gli impegni di mitigazione comunicati da parte degli Stati e i percorsi emissivi che garantirebbero una probabilità del 50% di mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C, si arriva infine al 2015 e al fatidico Accordo di Parigi, punto di svolta delle negoziazioni.
Per evitare un ulteriore buco nell’acqua, anche nell’Accordo di Parigi l’obiettivo ultimo non viene quantificato in termini di emissioni e obblighi statali, ma collegato al mantenimento dell’innalzamento delle temperature globali al di sotto dei +2°C, “proseguendo gli sforzi” per cercare di non oltrepassare la soglia degli 1.5°C, da raggiungersi attraverso il contributo in termini di misure e politiche identificato da ogni Stato a livello nazionale e comunicato attraverso l’UNFCCC. Tuttavia, questo ha determinato la bassa ambizione della maggior parte degli impegni sottoscritti dai governi, il cui impatto complessivo secondo l’UNEP (il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente) porterebbe a un riscaldamento delle temperature di circa 3°C. Inoltre, sono rimasti non risolti una serie di nodi riguardanti le regole di funzionamento effettive dell’Accordo, relative soprattutto al bilanciamento da una parte dell’impegno di Stati storicamente responsabili dei cambiamenti climatici e Stati invece che non hanno tratto gli stessi benefici dai combustibili fossili in termini di sviluppo, e dall’altra degli sforzi di adattamento e di compensazione dei danni del cambio del clima già in atto, che colpiscono sproporzionatamente soprattutto proprio quei Paesi meno responsabili e meno preparati a farvi fronte.
Oggi ci troviamo ancora allo stesso punto e le negoziazioni procedono ancora a rilento, mentre dal 2020 l’Accordo di Parigi dovrebbe essere del tutto operativo.
La COP 24
L’anno scorso a Katowice i delegati di 196 Paesi sono arrivati a un accordo solo parziale e al ribasso sul Paris Rulebook. “Abbiamo fatto un passo in avanti verso la realizzazione degli obiettivi fissati a Parigi”, aveva chiosato il padrone di casa polacco Michal Kurtyka, decretando la fine dei negoziati con un salto liberatorio dal tavolo della conferenza sul clima. Ma la COP 24 è stata caratterizzata da battute d’arresto, scontri accesi e forti ostilità soprattutto da parte dei big del petrolio, Arabia Saudita, Russia, Kuwait e USA, che hanno tenuto fermi i negoziati sulla questione dell’accettazione del nuovo rapporto scientifico dell’IPCC sulle conseguenze di un innalzamento delle temperature di 1.5°C. Ad alzare la voce, come spesso è successo durante questi decenni di negoziati in cui i Paesi meno sviluppati e più vulnerabili hanno cercato di guidare l’ambizione della comunità internazionale, era stato Ralph Regenvanu, Ministro degli Esteri di Vanuatu, Stato insulare dell’Oceano Pacifico Meridionale. “Si può recepire, annotare o vergognosamente ignorare completamente la scienza – aveva dichiarato Regenvanu – resta il fatto che è catastrofico per l’umanità, e i negoziatori che bloccano un processo significativo in questo senso avranno molto sulla loro coscienza”.
Diritti umani, uguaglianza di genere e sicurezza alimentare sono alla fine rimasti fuori dal testo finale del Rulebook, allontanando così la discussione sulla giustizia sociale e climatica. La scorsa conferenza sul clima non verrà certo ricordata per i risultati raggiunti, ma per la straordinaria mobilitazione giovanile a presidio della COP 24 e continuata nel corso di tutto l’anno successivo, per chiedere un definitivo cambio di rotta. Da una parte compromessi al ribasso e interessi di pochi, dall’altra una richiesta di cambiamento radicale, che continua tutt’ora nelle piazze e che non sarà disposta a negoziare al ribasso.
Come A Sud, partecipiamo agli eventi della Cumbre e della COP25, contribuendo all’organizzazione di due eventi:
Giovedì 12 dicembre ore 14.00-14.30 presso la Mocha Room IFEMA
Climate Litigation: taking governments and fossil fuel companies to court over the climate inaction
Parteciperemo alla conferenza stampa Climate Litigation: taking governments and fossil fuel companies to court over thei climate inaction, per presentare la campagna Giudizio Universale insieme a rappresentanti di azioni legali sui cambiamenti climatici in Europa e nel mondo.
Giovedì 12 dicembre ore 16:00-17:45 presso l’AULA 1115-LEI YANG, EM
Climate litigation perspectives from Italy + Taking big emitters to court over their climate inaction!
Parleremo della nostra campagna Giudizio Universale e della relativa causa contro lo Stato italiano sui cambiamenti climatici insieme a rappresentanti di altre azioni legali contro Stati e industrie in varie parti del mondo