Accoglienza e memoria

Lampedusa, a 10 anni dal naufragio del 3 ottobre è la Giornata della memoria e dell'accoglienza: l’emergenza è umanitaria.

La Terra non è sempre un posto sicuro e la speranza di una prospettiva di vita dignitosa, lontana da guerre, persecuzioni, disastri ambientali aggravati dalla crisi climatica, non si arresta di fronte al rischio di perdere la vita.

Il 3 ottobre del 2013, a poche miglia dall’isola di Lampedusa, 368 migranti partiti su peschereccio salpato dal porto libico di Misurata, con a bordo 543 persone di origine eritrea ed etiope, persero la vita in uno dei naufragi più drammatici che si sono verificati nelle acque del Mediterraneo dall’inizio del secolo. Da allora l’Italia celebra la Giornata della Memoria e dell’Accoglienza per ricordare e commemorare le vittime dell’immigrazione.

A distanza di dieci anni, il dramma delle vite spezzate nella traversata del Mediterraneo continua a ripetersi sotto lo sguardo di un’Europa che si erge a fortezza. Secondo i dati del progetto Missing Migrants dell’OIM, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, dal 2014 ad oggi oltre 55 mila rifugiati, richiedenti asilo, migranti sono morti e scomparsi, la metà proprio lungo la rotta del Mediterraneo centrale, che rappresenta la traversata più rischiosa. Va tenuto conto che si tratta di sottostime, in quanto le statistiche comprendono solo i naufragi noti, come la tragedia del caicco “Summer Love”, carico di circa 180 migranti, naufragato sulle coste di Steccato di Cutro all’alba del 26 febbraio provocando la morte di 94 persone. Tragedie che si sarebbero potute e dovute evitare, poiché in alcuni casi determinate dal ritardo dei soccorsi o dal mancato intervento in mare. Secondo l’OIM, almeno sette naufragi nella prima metà del 2023 rientrano in questa casistica. È di questa emergenza umanitaria che i governi dovrebbero preoccuparsi piuttosto che creare una narrazione allarmista e propagandista del numero di sbarchi a Lampedusa. Dove nei fatti in queste settimane si sta vivendo un’emergenza operativa per l’isola, che si trova ad accogliere un numero di arrivi difficile da gestire. Solo l’hotspot di Contrada Imbriacola è arrivato a contare circa 7 mila presenze a fronte di una capienza di 400 posti. In passato, pensiamo ai 181 mila sbarchi del 2016 (oggi oltre 126 mila), una piccola quota di migranti è transitata da Lampedusa, la maggior parte delle persone veniva salvata in mare da mezzi di salvataggio istituzionali o dalle navi delle ONG e portata nei grandi porti siciliani. Anche se a seguito della tragedia del 3 ottobre fu mobilitata una risposta di ricerca e soccorso in mare senza precedenti, nel corso degli anni questa è stata nettamente smantellata. Quello che oggi manca nel Mediterraneo è proprio una missione di ricerca e soccorso coordinata.

Negli ultimi anni, diversi esponenti politici, anche italiani, per rafforzare la macchina del consenso, hanno costruito la tesi che la ricerca e il soccorso nel Mediterraneo potessero essere un “fattore di attrazione”, il cosiddetto pull-factor, per i migranti. Con il risultato di aver impedito il salvataggio in mare di migliaia di vite. Tesi questa smentita, con dati alla mano, dallo studio “La ricerca e il salvataggio nella rotta del Mediterraneo centrale non induce alla migrazione”, pubblicato lo scorso agosto sull’autorevole rivista scientifica Nature, che chiarisce come la migrazione attraverso il Mediterraneo centrale tra il 2011 e il 2020 potrebbe essere stata guidata dall’aumento dei conflitti, dall’innalzamento dei prezzi dei beni di prima necessità, dai disastri naturali, nonché dagli shock climatici, anziché da operazioni di ricerca e salvataggio.

La mancanza di canali d’accesso legali e sicuri rende sempre più difficile l’arrivo in sicurezza sul vecchio continente. È proprio nelle crepe della violazione del diritto di migrare che si innesta la schiavitù moderna e la tratta degli esseri umani e solo quando le persone avranno vie legali di accesso che non saranno più costrette a ricorrere ai trafficanti rischiando la loro vita.

Cosa significa essere richiedente asilo oggi?

Parlare di numeri aiuta sicuramente a comprendere la dimensione dei problemi ma per entrare nella profondità di quanto sta accadendo va ribadito che dietro i numeri ci sono singole storie e voci che devono essere ascoltate. Dal racconto fatto ad A Sud da Alidad Shiri, rifugiato politico afghano, giornalista e portavoce delle famiglie vittime della strage di Cutro, si evince quanto sia “disumanizzante” essere oggi richiedenti asilo.

“Dopo avere visto tanta disumanità, sopportato persecuzioni, violenza, guerra, perdite dei propri cari e di amici, rischio della vita in un viaggio impossibile che dura anni e anni, una volta arrivato speri di trovare un po’ di pace, un ambiente non ostile, sguardi di simpatia verso di te e i tuoi simili. Invece diventi oggetto di sospetto, diventi un numero, un volto senza nome, senza storia, che si vorrebbe ignorare o mandare indietro. Dentro di te passa come una scarica che ti fa rizzare i capelli: ti interroghi, ti chiedi come è possibile una cosa del genere, fare affermazioni e proposte senza un’etica, senza umanità, senza una riflessione. Siamo arrivati ad un degrado morale senza limiti perché discorsi e proposte nei nostri riguardi non hanno freni, non fanno parte di qualche testa calda, frutto dell’ignoranza o del fanatismo, ma è chiaramente una strategia accettata passivamente da una larga fetta di popolazione. Invece di impegnare risorse per una effettiva integrazione, che vuol dire piccoli centri sparsi nel contesto sociale dove ci siano corsi di lingue, educazione alla cittadinanza, corsi di indirizzo professionale di cui le aziende hanno urgente bisogno, facendo in modo che i nuovi arrivati diventino cittadini portatori di valori, si progettano nuovi Centri di Permanenza e Rimpatrio (CPR). Come se tenere persone fino a 18 mesi chiuse a non fare niente potesse risolvere il problema della dislocazione degli arrivi e della sicurezza. Oltre a tutto il sistema non può per niente funzionare perché il rimpatrio ha bisogno di accordi con i paesi di provenienza, dove spesso ci sono guerre o dittature con cui non è possibile trattare. Anche se non fossero in queste situazioni, i paesi di provenienza soffrono di povertà, siccità, diffusa disoccupazione per cui i presidenti non accetterebbero rimpatri, quale peso ulteriore alla loro economia, mentre le rimesse dei migranti che lavorano sono un appoggio per la sussistenza di tante famiglie. Vi racconto un esempio pratico che mostra l’assurdità della filosofia che sta dietro i CPR. Nella nostra Provincia di Bolzano un pakistano di etnia pashtun, che è presente anche in Afghanistan, si era dichiarato afghano nella speranza di ottenere l’asilo politico. La Commissione territoriale di Gorizia che si occupava anche del nostro territorio, glielo aveva riconosciuto. Così lui ha trovato un lavoro a tempo indeterminato che ha svolto per 10 anni. Ma guardandosi allo specchio lui provava un grande disagio perché non si riconosceva afghano. Per la sua onestà di fondo un giorno si è presentato in Questura dichiarando la sua vera identità. La Questura gli ha ritirato allora il permesso di soggiorno e così ha perso il lavoro, è rimasto sul territorio come irregolare e lo Stato non poteva rimpatriarlo perché non c’era un accordo con il Pakistan. Che senso ha chiudere persone in un CPR dove per 18 mesi non possono studiare, fare un percorso formativo ma solo cadere nella disperazione più profonda che porta a traumi psicologici molto gravi per tutta la vita, spesso sottili che non si vedono, ma sono ferite esistenziali? Si feriscono persone già ingiustamente colpite dalla vita. Per non parlare dello sfregio dei quasi 5 mila euro, quale garanzia finanziaria per potere rimanere in libertà. È una cifra quasi equivalente a quella che molti hanno dovuto pagare alle milizie in Libia per uscire dai centri di detenzione dove li torturavano. Siamo veramente stravolti dal fatto che queste iniziative e decreti non suscitino largo sdegno e rifiuto da parte della cittadinanza. Questo ci fa sentire sempre più soli”.

La violenza dei confini

L’Unione europea sostenuta dal governo italiano, persegue intanto la strada delle alleanze con Stati autoritari, come già fatto in passato con Turchia e Libia. L’ultimo memorandum di intesa sottoscritto nel mese di luglio è con il presidente tunisino Saied e prevede il sostegno economico di Bruxelles alla Tunisia in cambio del controllo delle frontiere. Un accordo per molti versi controverso, primo tra tutti sul fronte dei diritti dei migranti. Saied ha di fatto avviato una vera e propria caccia ai migranti di origine sub-sahariani. Persone deportate illegalmente nel deserto libico, senza cibo e acqua, negli stessi giorni in cui il Nordafrica e il bacino del Mediterraneo erano stretti nella morsa di ondate di caldo estremo, causando la morte di molte loro. Fatti che Human Rights Watch ha denunciato e documentato, attraverso delle interviste. “Le autorità tunisine hanno abusato di stranieri neri africani, alimentato atteggiamenti razzisti e xenofobi e hanno rimpatriato con la forza persone in fuga in barca che rischiano gravi danni in Tunisia”, è quanto dichiarato da Lauren Seibert, ricercatrice sui diritti dei rifugiati e dei migranti di Human Rights Watch. “Finanziando le forze di sicurezza che commettono abusi durante il controllo della migrazione, l’UE condivide la responsabilità per le sofferenze di migranti, rifugiati e richiedenti asilo in Tunisia”. Il rischio sempre maggiore è che nelle maglie di questi accordi leader autoritari possano legittimare il proprio operato, facendo leva proprio sui rapporti con l’UE e di Paesi come l’Italia, oltre che attribuirsi il merito di aver assicurato il supporto finanziario a economie attraversate da profonde crisi, come quella tunisina.

Nuovi accordi di esternalizzazione delle frontiere sono stati discussi in occasione del Summit internazionale “Sviluppo e Migrazione”, ospitato lo scorso luglio alla Farnesina e ribattezzato dall’Italia “Processo di Roma”. Il vertice si inserisce nell’oscuro programma politico e diplomatico del governo italiano denominato “Piano Mattei”, con il quale il governo punterebbe a un ruolo strategico nel Mediterraneo in materia sia di migrazioni che di risorse energetiche. Si sa ancora poco di questo piano che dovrebbe essere presentato ad ottobre. Di certo non è una garanzia che a supporto del governo sia stata chiamata la lobby del fossile, presente da decenni in Africa: l’ENI (il cui fondatore Enrico Mattei dà il nome al piano). Oltre alla gestione dei flussi migratori l’altro tema consistente è quello della sicurezza energetica, soprattutto dopo lo scoppio della guerra in Ucraina.

Rispondere alla complessità delle migrazioni contemporanee: la risposta passa per la conversione ecologica

Il 3 ottobre ci ricorda come il salvataggio di vite umane debba sempre restare la priorità numero uno e che la giornata della Memoria e dell’Accoglienza deve tradursi in impegni concreti, per fare questo è necessario considerare che la migrazione contemporanea va analizzata, compresa e gestita nella sua complessità. È necessario per questo tener conto che il punto di partenza risiede nell’insicurezza: ambientale, economica, sociale e politica, aggravata dalla crisi climatica, di chi parte e non ciò che le migrazioni determinano nei Paesi di arrivo, e che il degrado ambientale e gli shock climatici sono già la più grande minaccia per milioni di persone.

Quest’estate, intanto che i governi europei discutevano del contenimento dei flussi migratori, si è registrato il luglio il più caldo di sempre, con una temperatura media globale che ha temporaneamente superato quella che in occasione della COP21 di Parigi era fissata come la soglia di sicurezza: 1,5 gradi al di sopra del livello preindustriale. L’umanità è entrata nell’era dell'”ebollizione globale”. È quanto dichiarato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, che ha lanciato un appello per una immediata e radicale azione contro il cambiamento climatico.

Clima e migrazioni restano, pericolosamente, due questioni giuridicamente lontane nonostante la dimensione di catastrofi in corso come quella che colpisce i Paesi al di là del Mediterraneo, dove la crisi climatica è strettamente connessa ai conflitti e alla mobilità umana forzata. Solo nel 2022 gli effetti del cambiamento climatico hanno fatto registrare 7,4 milioni di persone sfollate in Africa sub-sahariana. I dati dell’Internal Displacement Monitoring Centre mostrano che, in questa regione, gli sfollati interni per disastri climatici sono tati il triplo rispetto al 2021 (7,4 milioni di spostamenti rispetto ai 2,6 milioni), il numero più alto in un anno mai registrato in quest’area.

La crisi climatica, inoltre, per molte comunità è già una questione di giustizia sociale e di diritti umani. Proprio per questo non è più sufficiente parlare di transizione ecologica, ossia di ridurre gli impatti che il nostro stile di vita ha sul Pianeta, è invece necessario un cambiamento radicale (una conversione ecologica) di quegli stessi stili di vita, arrivando a capovolgere le dinamiche di egemonia, produzione e accumulazione, che sono alla base dei conflitti, e favorendo invece scelte di connessione tra i popoli e pace.

Per comprendere e ragionare sulla complessità delle migrazioni contemporanee e per raccontare quanto la crisi climatica incide sulla mobilità umana forzata, A Sud ha accettato l’invito dell’ONG Open Arms, in prima linea sui temi dell’accoglienza e dei soccorsi in mare, a partecipare a due giornate di formazione dei suoi volontari, che si svolgeranno il 30 settembre a Napoli e il 7 ottobre a Milano.

Iscriviti alla nostra newsletter!