A Madrid si rischia il ko

Si sarebbe dovuta concludere ieri la Conferenza sul clima, ma nel tardo pomeriggio i documenti conclusivi non erano ancora arrivati sul tavolo della presidenza.

Tuttavia, il compromesso che si staglia all’orizzonte non è incoraggiante. I punti di trattativa sono principalmente tre: riguardano i trasferimenti di fondi ai paesi più esposti a perdite e danni causati cambiamento climatico, l’aumento degli impegni nazionali di riduzione delle emissioni con il relativo controllo periodico, e i mercati del carbonio, previsti dall’Articolo 6 dell’Accordo di Parigi.
Tutto si gioca sull’aggiornamento degli impegni climatici: per non dare l’impressione di un totale fallimento, i negoziatori stanno lavorando per inserire una frase sull’aumento dell’ambizione nella decisione finale. La somma degli impegni collettivi attuali porterebbe infatti, secondo le proiezioni dell’Unep, ad un aumento della temperatura globale di circa 3°C gradi entro fine secolo.

La Cina nel frattempo ha bloccato ogni progresso sull’adozione di un sistema trasparente per il conteggio delle emissioni di ciascun paese: se ne riparlerà a giugno. Inoltre, i Paesi più colpiti dagli effetti del mutamento climatico resteranno con l’amaro in bocca: con tutta probabilità, non riceveranno i fondi addizionali richiesti ai paesi sviluppati, che non vogliono accettare le responsabilità storiche della crisi climatica e quindi compensare i paesi poveri per le perdite e i danni subiti.

Si punta tutto sul contorno, sul tentativo di affrontare la questione climatica utilizzando strumenti tipici dell’epoca neoliberale, che hanno come traguardo il profitto più che la solidarietà. E questo ci porta dritti verso l’ultimo nodo del negoziato: il cosiddetto Articolo 6, che prevede la creazione di alcuni meccanismi di cooperazione internazionale per ridurre le emissioni. L’assunto alla base di questi sistemi è il seguente: per evitare di dover tagliare le emissioni in patria, un Paese può intraprendere progetti di riduzione meno dispendiosi all’estero e conteggiare poi quelle emissioni evitate altrove nel proprio obiettivo nazionale.

I Paesi in cui questo tipo di progetti andrebbero a essere implementati però sono soprattutto quelli del Sud globale, che mettono a disposizione i propri territori e le proprie foreste come serbatoi di carbonio. In questo scambio, a perderci sono le comunità locali, i piccoli agricoltori e gli indigeni, espropriati e messi a tacere.

Secondo Friends of the Earth, in passato, mercati del carbonio e meccanismi simili come il sistema di scambio delle emissioni (Ets) in vigore in Europa non hanno portato alcuna riduzione delle emissioni, ma solo a ripetute violazioni dei diritti umani fondamentali. La distanza sull’Articolo 6 è tale che la decisione sulle regole del mercato del carbonio potrebbe essere rinviata.

Ma c’è chi non è disposto ad accettare un accordo al ribasso: «Le nostre vite non si negoziano, il nostro pianeta non si vende», ha tuonato Angela, attivista cilena di Fridays for Future. E se manifestare non basta, cittadini e organizzazioni si stanno mobilitando per portare le grandi compagnie e gli Stati maggiormente responsabili della crisi climatica davanti ai Tribunali di tutto il mondo, affinché sia riconosciuta la loro colpevolezza nell’aver messo in questo modo a repentaglio i diritti umani fondamentali della popolazione mondiale e siano obbligati a rivedere le proprie politiche.

Giovedì, in una conferenza stampa alla Cop 25 e successivamente in un’iniziativa di approfondimento alla Cumbre Social, rappresentanti di sei contenziosi climatici in corso in vari Paesi hanno presentato le proprie iniziative e le proprie strategie legali per ottenere giustizia climatica. Anche in Italia, oltre cento realtà promuovono la campagna Giudizio Universale, che anticipa la prima causa contro lo Stato su clima e diritti umani.

Il proliferare di questi contenziosi, oltre mille in tutto il mondo, è la testimonianza di una società civile che si oppone a un modello inquinante e ingiusto a livello climatico, ambientale e sociale, ma anche alla mancanza sempre più eclatante di una volontà politica in grado di accettare la sfida climatica, contro la quale tutti e tutte siamo chiamati ad agire prima che sia troppo tardi.

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