A cosa serve un anniversario

Un anniversario non serve a chi ha perso qualcuno, qualcosa o tutto. Per loro il terremoto c’è ogni giorno da dieci anni.

Un anniversario dovrebbe servire agli altri. Per abbracciare i famigliari delle vittime ma anche offrire, a loro e ai feriti, solidarietà concreta. Perché lo Stato li ha completamente lasciati soli, a volte anche ad affrontare le spese per le terapie.

Qualche mese fa il Ministro dell’Interno ha promesso 10 milioni di euro ai famigliari delle vittime della strage di Rigopiano. Benissimo, certo. Ma per tramutare un privilegio concesso in campagna elettorale in un diritto avrebbe dovuto pensare a una norma, che ad oggi non c’è, per riconoscere qualcosa a tutte le vittime che stiamo ancora piangendo. Oggi, 5 aprile, sono giunti a L’Aquila da tante parti d’Italia, famigliari delle vittime di stragi colpose per unirsi, insieme ai famigliari delle vittime aquilane, per chiedere verità, giustizia e dignità. Chiedono diritti.

Un anniversario dovrebbe servire agli altri per provare a imparare qualcosa da quello che è successo, e migliorare, come paese. E questo potrebbe essere il modo migliore di commemorare le 309 vittime del terremoto dell’Aquila e le oltre 10000 vittime per catastrofi varie (terremoti, alluvioni, dissesto) che l’Italia ha visto negli ultimi 70 anni.

Perché questo è un paese dalla memoria troppo breve ed è utile per chi non c’era o è arrivato dopo ripercorrere questi dieci anni italiani. E qualcosa di lontano nel tempo oggi voglio ricordarlo anche io.

Voglio ricordare che il terremoto avvenne alla fine di un decennio in cui i Governi avevano stravolto il ruolo della Protezione Civile utilizzandola praticamente per tutto, tranne che per la prevenzione.

E allora mentre Guido Bertolaso, braccio “armato” del governo interveniva per gestire grandi eventi (come i mondiali di nuoto o le visite del Papa) e addirittura arrivava a gestire la militarizzazione della Campania per una, costruita a tavolino, ennesima emergenza rifiuti, la Protezione Civile si distraeva dal compito fondamentale della prevenzione.

E la città dell’Aquila veniva investita da uno sciame sismico lungo mesi, senza ascolto e senza risposte da parte delle istituzioni. Fino ad arrivare alla Commissione Grandi Rischi convocata a L’Aquila a seguito di una intensa scossa del 29 marzo. I maggiori scienziati italiani si sono piegati al volere dei politici di allora e nulla hanno fatto, se non dire ovvietà come la fantomatica frase che “i terremoti non si possono prevedere”. Una volta per tutte (speriamo): nessuno chiedeva di prevedere, né di evacuare alcunché. Ma invece si dovevano verificare i piani di protezione civile, si doveva verificare la stabilità almeno degli edifici pubblici strategici, si poteva avviare una corretta comunicazione del rischio. L’Aquila oggi deve ancora parlare all’Italia di come si comunica il rischio, di come si preparano le comunità.

A oggi il tentativo di tramutare la Protezione Civile in una SpA è solo un lontano ricordo. Se ciò è possibile è anche merito dei movimenti aquilani e di quelli campani, unici, insieme a rappresentanze dei vigili del fuoco a denunciare in quel periodo quanto stava accadendo. Ma quello che serve ricordare oggi è che le norme servono, anche per tutelare i tempi della democrazia.

E la democrazia è proprio quello che è mancato nel post terremoto. Tutto si è deciso sulla testa di una popolazione stordita dalla strategia di “comando e controllo” e che faceva i conti con la sopravvivenza. Le assemblee negate, gli attivisti che venivano fermati decine di volte al giorno, gli striscioni strappati, nessuno spazio concesso al dialogo.

L’Aquila però deve anche parlare al paese della straordinaria capacità di mobilitazione che ha dimostrato la sua popolazione appena andato via Bertolaso. Dal 14 febbraio 2010, nei giorni immediatamente successivi alla pubblicazione delle famose intercettazioni, L’Aquila si riappropria della sua dignità e la dimostra al mondo con il movimento delle carriole. Una manifestazione che aveva dentro tanti sensi: contro la militarizzazione e la chiusura del centro storico, per la rimozione delle macerie, per il loro corretto smaltimento e riuso ma soprattutto per ritrovare comunità e lavorare insieme, dopo mesi di nulla.

Un anniversario dovrebbe essere l’occasione per fermarsi a guardare con attenzione cosa è stato fatto. Scoprendo ad esempio che dei 25 miliardi che il Senato nel 2017 riconosceva come somma dei danni solo 12 sono stati richiesti, trasformandosi in progetti veri e propri, e che la ricostruzione dei beni comuni, quella pubblica, è ancora totalmente ferma (i dati sono su OpenData Ricostruzione se qualche giornalista fosse interessato a fare il suo mestiere). Quindi quando parliamo di investimenti in opere pubbliche dobbiamo parlare prima di cosa lo Stato deve ricordarsi di fare ancora a L’Aquila e a Amatrice, Arquata del Tronto, Norcia, Visso, Camerino.

Un anniversario dovrebbe essere l’occasione per fermarsi a guardare cosa nel frattempo si è fatto in prevenzione. Poco, pochissimo. Una miriade di soggetti, senza coordinamento e visione, si occupano di messa in sicurezza e mitigazione del rischio, i soldi non bastano e non c’è trasparenza su come vengono spesi.

Siamo un paese che fa “la prevenzione del dopo”. Ci ricordiamo di investire in prevenzione solo dopo che le stragi sono avvenute. E poi ci scordiamo di monitorare le promesse.

A dieci anni dal terremoto L’Aquila ha ancora molto da dire al paese, se si vuole ascoltare.

Questo anniversario potrebbe servire all’Italia.

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