Le risposte di Eni alle domande di A Sud

Attraverso Fondazione Finanza Etica, abbiamo presentato una serie di domande, provenienti in gran parte dai territori, per poter valutare in maniera più precisa l’operato di Eni e conoscere le intenzioni dell’azienda al di là della comunicazione. Anche nel 2022, per il terzo anno consecutivo, l’assemblea si terrà a porte chiuse, senza neppure la possibilità di una diretta online né tantomeno di una replica. Così dobbiamo accontentarci di una versione a sei zampe che ci lascia insoddisfatti e che su certi punti, anzi, aumenta le preoccupazioni.

Quando si leggono le risposte che Eni fornisce agli azionisti, in vista dell’assemblea che si tiene intorno a metà maggio, si resta sempre un po’ attoniti. Nei confronti delle domande che arrivano da ong e singoli, spesso critici con le attività della multinazionale energetica, il cane a sei zampe riserva un linguaggio formale, pieno di tecnicismi e risposte dilatorie. Dimostrandosi un’azienda senz’anima, attenta solo a compiacere chi contribuisce al suo bilancio miliardario.

 

Extraprofitti

Non potevamo non partire da uno dei temi che ha fatto più discutere (e di cui abbiamo scritto qui), vale a dire gli extraprofitti conseguiti da Eni dal 2021. A nostro avviso, quella che l’analista finanziario Alfonso Scarano ha definito una “rendita parassitaria” andrebbe totalmente redistribuita nei territori in cui Eni opera. Ed è stata la prima domanda che abbiamo posto. Nonostante i bilanci siano lì a testimoniarlo – nel primo trimestre 2022 è la stessa Eni a scrivere che sono stati conseguiti utili per 3 miliardi di euro in più rispetto al primo trimestre 2021 – l’azienda prima ci ha riservato un lungo spiegone per poi affermare, incredibile a dirsi, che “riteniamo di non aver realizzato extraprofitti dall’attività di rivendita di gas”. Bontà loro, ci hanno pure spiegato che “gli investimenti sul territorio sono un impegno costante dell’Eni che non viene meno nemmeno negli anni più difficili quali il 2020 caratterizzato dalla crisi del COVID (dove il Gruppo registrò perdite nette di oltre 8 miliardi di euro)”. Dunque dovremmo solo ringraziare il cane a sei zampe … come se le attività industriali non fossero proseguite anche nei periodi più critici della pandemia, come se l’azienda non abbia estratto valore dai territori anche quando questi hanno dovuto fermarsi.

 

Abruzzo

Ad aprile ha fatto discutere la scoperta, resa pubblica dal programma tv Report, di perdite in atmosfera della centrale gas Eni a Pineto, in provincia di Teramo. L’impianto di Eni tra l’altro era stato già oggetto di un precedente scoop della Reuters lo scorso anno, con le immagini di una grossa perdita da un serbatoio che avevano fatto il giro del mondo. Alla domanda se era possibile pretendere una riparazione definitiva, Eni ci ha rassicurato affermando che “attraverso un intervento di manutenzione, la perdita è stata prontamente e definitivamente riparata”. E le emissioni sono state monitorate? Sì, risponde Eni, e si è “evidenziato un valore non significativo”, che però non viene specificato. È lecito avere qualche dubbio, dato che ci sono volute due denunce giornalistiche prima che l’azienda provvedesse a tappare definitivamente il buco?

Sollecitati da alcuni attivisti del territorio, abbiamo poi posto una domanda precisa: a Ortona Eni possiede ancora il pozzo Granciaro 001, nel campo Miglianico, anche se questo non è più allacciato. Se è così, abbiamo chiesto, perché Eni non rinuncia al pozzo e lo restituisce all’uso collettivo? L’azienda ha risposto che “sono in corso rivalutazioni per l’eventuale utilizzo futuro del pozzo nell’ambito della concessione Miglianico, anche alla luce delle nuove norme contenute nel PiTESAI”. Francamente non comprendiamo quale sia il nesso con il PiTESAI, visto che il Piano voluto dal governo si limita a indicare l’area abruzzese come idonea per eventuali nuove esplorazioni. Si tratta di una notizia che preoccupa non poco, visto che nella prima decade degli anni ‘2000 l’intenzione di Eni e delle amministrazioni locali era quella di costruire a Ortona, proprio a partire dal pozzo Miglianico e in una zona ad alto valore naturalistico, un centro oli. Ricordiamo infine che già l’attuale deposito oli, sempre di proprietà di Eni, sorge a fianco delle riserve naturali di Ripari di Giobbe e di Acquabella.

 

Gela e Licata

È forse il capitolo più corposo e significativo. Come abbiamo già scritto, Gela si appresta a diventare la capitale italiana del gas attraverso il gasdotto Argo-Cassiopea su cui punta molto anche il governo Draghi. L’azienda spiega che “nel 2023 è prevista l’installazione del gasdotto” mentre “l’avvio della produzione di gas è previsto nel 2024”. Intanto Eni smitizza la credenza per cui il gas italiano dovrebbe costare meno rispetto a quello acquistato a livello internazionale: ha infatti annunciato di essere “in attesa di verificare le condizioni di applicazioni” della richiesta, fatta dal governo italiano col decreto Energia, di “cedere il gas a prezzi ragionevoli”. Il cane a sei zampe, dunque, non intende “regalare nulla”. Ha pure confermato che “non è prevista erogazione di royalties ai Comuni” interessati dal gasdotto. È vero che ciò vale per tutte le produzioni naturali di gas in mare, così come previsto dalla legge. Ma così l’azienda chiude ulteriormente ogni porta a un territorio come Gela, ancora in difficoltà dopo la chiusura della raffineria nel 2014.

Figurarsi che, dopo tre anni di sperimentazioni del progetto pilota waste to fuel (che ricava acqua dal trattamento della frazione organica dei rifiuti), Eni fa comprendere che l’eventuale produzione industriale potrebbe non restare a Gela, dato che si limita a scrivere che “la realizzazione degli impianti industriali avverrà in funzione dei fabbisogni e delle condizioni di mercato”.
Intanto, però, “è stata chiesta la proroga della concessione fino al 2028” per le estrazioni di petrolio dagli impianti a terra. Dunque Eni continua a considerare Gela come terra di estrazione di petrolio e gas, senza sviluppare altri impianti industriali.

A dir la verità l’unico reale impianto “alternativo” è la cosiddetta green refinery, che dall’1 gennaio sarà costretta a non trattare più, come avviene da tre anni, olio di palma proveniente dall’Indonesia. Con cosa sostituirlo? Avremmo auspicato soluzioni più circolari e a filiera corta. E invece la nuova materia prima della “bioraffineria” sarà olio di ricino proveniente dall’Africa. Scrive Eni che “l’olio di ricino, durante la prima fase di produzione, che durerà un anno, sarà trasportato con flexibag che viaggeranno via mare e saranno scaricati nei porti di Palermo e Catania. Successivamente, all’incrementarsi dei volumi, il trasporto avverrà via nave”. Addirittura l’azienda spiega che “sono in fase di perfezionamento i calcoli emissivi associati” di tali trasporti. Di fronte a questa mancanza di valutazione, l’azienda poi prova a rimediare aggiungendo che si tratta in ogni caso di valori “comunque sensibilmente inferiori, lungo l’intera catena produttiva, rispetto ad altri feedstock di origine vegetale che saranno spiazzati da queste nuove disponibilità”. Ma come fanno a conoscerli se non li hanno calcolati?

Lo stesso approccio poco attento al territorio si evince infine dal corso di laurea magistrale in “Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio”, che Eni dovrebbe realizzare in convenzione con l’università Kore di Enna. A parte i ritardi nella realizzazione, che il cane a sei zampe imputa all’università, a precisa domanda l’azienda scrive che “Eni, avendo supportato tutti i costi relativi alla ristrutturazione e rifunzionalizzazione della sede che ospiterà i corsi di studi, non ha previsto agevolazioni per gli studenti gelesi”.

 

Taranto

Dalle risposte di Eni apprendiamo che la città pugliese sarà oggetto di numerose sperimentazioni. La più degna di nota è l’intesa siglata a ottobre 2021 tra Comune di Taranto, Kyma e Eni, che “mira a sviluppare una serie di iniziative in vari ambiti tra cui: l’individuazione di soluzioni integrate per la mobilità sostenibile nel trasporto pubblico locale, attraverso l’utilizzo di biocarburanti e di biometano per la flotta Kyma, l’installazione di colonnine per la ricarica elettrica dei mezzi del trasporto pubblico e l’ottimizzazione della raccolta dei rifiuti di interesse energetico (UCO)”. I tavoli tecnici sono però stati sospesi a causa dello scioglimento del Comune, e dovrebbero riprendere dopo le elezioni.

Il resto è ancora più fumoso. “Per quanto riguarda il tema della decarbonizzazione del settore marittimo – si legge nelle risposte dell’azienda – Eni ha presentato una manifestazione di interesse finalizzata ad acquisire eventuali dati necessari alla valutazione della riduzione dell’impronta carbonica delle attività portuali”.

Senza esito, poi, una sperimentazione avviata nel 2019 su quattro mezzi di raccolta dei rifiuti, alimentati dal biocarburante Eni Diesel +, per capire se convenisse rispetto al diesel classico. Dopo sei mesi di monitoraggio dei rifornimenti e dei percorsi, la sperimentazione ha dato risultati contrastanti “non consentendo così di giungere a conclusioni univoche”. Viene dunque da chiedersi: ma è lo stesso Eni Diesel + che l’azienda continua a magnificare nelle pubblicità? Tuttavia l’azienda intende ora “stimolare l’adozione di nuove tecnologie di start up finalizzate alla produzione di biocarburanti da macro-alghe”.

 

Basilicata

“Il Distretto Meridionale (DIME) si è dotato di strumenti dedicati all’ascolto delle esigenze degli stakeholder secondo le Linee Guida internazionali, come il Grievance Mechanism, che consente di ricevere, indagare, rispondere e risolvere reclami o lamentele in modo tempestivo ed equo, e lo Stakeholder Management System, che consente di “mappare” gli stakeholder e di individuare criticità e temi rilevanti, al fine di predisporre azioni di risposta o di comunicazione ad hoc”.

Difficile immaginare una risposta più lontana dai territori, eppure è la difesa di Eni alle osservazioni del gruppo Onu sui diritti umani. Lo scorso ottobre una delegazione è stata in Val D’Agri e poco dopo il presidente del working group, il professor Surya Deva, ha dichiarato che in Basilicata “i vertici aziendali devono uscire dagli uffici e mettersi in ascolto”. Non sembra che il consiglio sia stato recepito, tanto che Eni continua a indicare come strumento di ascolto e di comunicazione il nuovo sito e la nuova app, mentre quando abbiamo chiesto di indicarci le migliori pratiche industriali adottate in Val D’Agri ci è stato fornito un lungo elenco, composto però quasi esclusivamente da strumenti digitali.

Intanto il cane a sei zampe informa che “non sono previsti nuovi sviluppi a gas in Basilicata”. O, meglio, “il gas prodotto attualmente da Eni proviene esclusivamente dal giacimento della Val d‘Agri”. Resta da capire, però, se il giacimento verrà ulteriormente “spremuto”, e in che modalità, vista la sete di gas a livello nazionale.

 

Ravenna

Un mistero a sei zampe: potrebbe titolarsi così la storia dell’impianto ccs di Ravenna, che dovrà occuparsi della cattura e dello stoccaggio di carbonio. Annunciato due anni fa, non è ancora possibile consultare neppure una scheda tecnica del progetto, nonostante Eni lo preveda in tutti gli ultimi documenti interni. Abbiamo perciò chiesto qualche informazione in più. Scrive Eni che

“la Fase 1, in accordo con la normativa vigente, ha l’obiettivo di iniettare circa 25 mila tonnellate l’anno di CO2 provenienti dalla centrale a gas Eni di Casal Borsetti, fino al massimo di 100 mila tonnellate totali. Lo start-up è previsto entro il 2023 a valle dell’ottenimento delle necessarie autorizzazioni. Questa fase sarà finanziata con capitale proprio. La Fase 2 prevede a partire dalla metà del 2027 l’iniezione di 4 milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno, che potrà essere incrementate in seguito in funzione della richiesta che verrà dal mercato. L’iniziativa sarà rivolta inizialmente alla decarbonizzazione del settore industriale del Nord Italia, ma la grande capacità di stoccaggio dei giacimenti a gas depletati in Adriatico superiore a 500 milioni di tonnellate potrebbe consentire di abbattere significativamente le emissioni hard to abate di altri poli industriali Il progetto Ravenna CCS ha il solo e unico scopo di evitare le emissioni in atmosfera di gas serra provenienti da attività industriali, e i giacimenti esauriti coinvolti nel progetto saranno convertiti in modo permanente ed irreversibile a questo fine. L’utilizzo dell’anidride carbonica a fini estrattivi non è previsto né compatibile con l’attività di stoccaggio del progetto”.

La buona notizia è che Eni esclude l’uso della Co2 per rivitalizzare i giacimenti esausti, come pure avviene in altre parti del mondo. Accanto a ciò restano i dubbi sul mega progetto in cui potrebbe arenarsi l’azienda, dato che un impianto così grande è inedito per questa tecnologia e che la stessa suscita, anche a livello scientifico, più perplessità che certezze. In un recente report il think thank Ecco l’ha definita una tecnologia “costosa, insufficiente e insicura”.

Per approfondire, le domande e le risposte sono disponibili qui.

 

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