Dalle 19.34 del 23 novembre di 38 anni fa

Per “sviluppo economico” si intende un processo di cambiamento quantitativo e qualitativo dell’economia di un territorio in più settori strategici (infrastrutture, competitività, sicurezza, salute, salvaguardia ambientale etc.).

Quasi tutto ciò su cui un Paese dovrebbe puntare per migliorarsi e avere un sguardo verso il suo futuro.
Bene, prendete questa definizione e cestinatela perché è tutto ciò che non riguarda l’Irpinia in questo preciso momento. E per “preciso momento” si intende esattamente 38 anni dopo il terremoto del 1980.
Ciò che rende particolarmente assurda l’analisi a 360° del territorio e la sua storia è la considerazione per cui lo “sviluppo” in Irpinia funziona al contrario. E, quindi, non si tratta solo di un’area subalterna perché interna alla Provincia di Avellino che è, a sua volta, ai margini della Regione Campania, a Sud di un Paese, a Sud dell’Europa. Ma si tratta, soprattutto, di un’area in cui si è passati dall’emigrazione allo spopolamento, e dallo spopolamento alla desertificazione, e dalla desertificazione al “rischio scomparsa”, cioè all’inesistenza. Basterebbe dare uno sguardo ai dati della Fondazione Migrantes sui paesi che rischiano di scomparire: in Campania, quattro dei sei borghi si trovano nella stessa zona, l’Alta Irpinia, la stessa zona che delinea l’epicentro del terremoto del 1980.
Mettiamo pure che sia un caso, uno scherzo del destino, ma prima proviamo a farci una domanda molto semplice: cosa ha prodotto l’investimento di 50mila miliardi di lire e le politiche per la ricostruzione e, in prospettiva, lo sviluppo dell’Irpinia nel post-terremoto?
Senza semplificare, il terremoto del 1980 è stato un evento tragico, che in 90 secondi provocò poco meno di 3mila morti, più di 8mila feriti e 280mila sfollati. Rase al suolo interi paesi. Non spezzò a metà solo le strade, ma anche le vite di chi lo ha vissuto sulla propria pelle, e anche la storia del Sud del Paese e dell’Italia tutta.
Ci furono le ricerche dei dispersi, le mani che scavavano tra le macerie, le lacrime. Dopo ben cinque giorni, ci furono i soccorsi e gli aiuti da ogni parte. Poi ci furono i soldi. E, negli anni, il numero dei comuni colpiti su cui dirottare i fondi passò da 36 a 280, fino a raggiungere i 687, ovvero l’8,5% del totale dei comuni italiani.
Forse il terremoto del 1980 ha rappresentato l’ultimo grande atto di solidarietà in un Paese diviso a metà, tra Nord e Sud. Lo riscontriamo nelle parole del sindaco di Roma dell’epoca, Luigi Petroselli, che ai cittadini di Lioni disse: “Oggi Roma paga un debito contratto con voi: quello di migliaia di meridionali costretti a cercare un lavoro e una casa. Sono tra le forze migliori su cui Roma può contare. Per la prima volta, probabilmente, Roma è stata davvero Capitale d’Italia, ha visto all’opera le sue energie più vive, ha rivelato un’Italia onesta, rigorosa, e per la prima volta dopo la Liberazione una nuova generazione ha scoperto il Sud. Staremo tra voi con umiltà ma senza rassegnazione, per aiutarvi.”
50miliardi di lire possono sembrare una somma sproporzionata per un sisma comunque di grande entità, ma la volontà di chi gestì la ricostruzione era di rendere l’Irpinia un territorio “in via di sviluppo” e, quindi, sancire il passaggio da un’economia costituita da attività primarie, come l’agricoltura, a un’economia basata su attività industriali e il settore terziario.
Avvenne, quindi, un’industrializzazione forzata con la costruzione di ben otto aree industriali in un territorio tutto sommato ristretto, sbandierata come la risposta a tutte le arretratezze e le ingiustizie accumulate in decenni di storia post-unitaria. Un piano di sviluppo calato dall’alto, senza alcuna strategia che prendesse in considerazione le realtà locali, prestato a innumerevoli speculazioni. Non passò molto tempo dal sisma che la ricostruzione fu risucchiata nei tradizionali meccanismi della gestione del potere, dal clientelismo e dal voto di scambio. Emblematico dello spreco l’esempio di una fabbrica di barche a Morra de Sanctis (in montagna!) che chiuse ancor prima di aprire, ma portando con sé 3mila miliardi.
Dieci anni dopo il sisma partì l’indagine “Mani sul terremoto” della Commissione Parlamentare d’inchiesta sulle irregolarità e le speculazioni nell’uso del denaro pubblico durante il processo di ricostruzione.
E così venne fuori di tutto, dai fienili trasformati in piscine olimpiche mai ultimate, fino a finanziamenti indirizzati a imprenditori già falliti, passando per le fortune della Banca Popolare dell’Irpinia, tra i cui soci c’era la famiglia De Mita.
Ma 38 anni dopo il terremoto del 1980 cos’è diventata l’Irpinia?
Di quel processo di industrializzazione oggi non resta che il nulla. Intere aree dismesse e svuotate, nel deserto, senza alcun progetto di riqualificazione o di rigenerazione, semplicemente abbandonate lì, ad arrugginire nel tempo, in una delle aree più povere e depresse del Paese.
Un’area con mezzo milione di emigrati nel mondo in diverse fasi storiche, che attualmente perde 2mila persone ogni anno che si spostano per motivi di studio o di lavoro.
Un’area con un tasso di disoccupazione del 16,8% e una percentuale delle imprese al 2,3%.
Un’area fortemente legata alla conservazione e valorizzazione delle architetture tipiche, dei borghi medievali, dei nuclei monumentali religiosi, delle aree archeologiche, dei palazzi storici, dei castelli e di tutto ciò che testimonia la memoria storica e identitaria del luogo, ma che continua a collocarsi agli ultimi posti per attrattività turistica.
Un’area che da dieci anni non ha più una ferrovia e i cui collegamenti su gomma sono gestiti per metà da aziende private.
Un’area in cui crescono a dismisura le speculazioni in materia ambientale, dallo spettro delle trivellazioni petrolifere alle cave a cielo aperto, passando per l’eolico selvaggio, un vero e proprio business per società private e interessi mafiosi. L’eolico selvaggio ha ormai caratterizzato fortemente tutto il territorio Irpino, a partire dal paesaggio e dalla sua avifauna, e ad oggi non ha alcuna prospettiva di regolamentazione e di successivo smaltimento degli impianti, spesso lasciati letteralmente a girare a vuoto.
Oggi l’Irpinia resta una terra di emigrazione, con poche attività lavorative, la maggior parte in ambito enogastronomico, vitivinicolo e artigianale, con flussi turistici condensati nei mesi estivi per il proliferare di eventi tradizionali locali. Ma non è più nemmeno “in via di sviluppo”. E’ tornata indietro nel tempo. Come se il terremoto del 1980 non ci fosse mai stato. E invece c’è stato.

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