Se ad affondare non è solo Venezia
Il canto delle sirene in Piazza San Marco non si è mai fermato nel mese di novembre. Annunciano acqua alta, troppo alta.
Quella che ha colpito Venezia nelle scorse settimane è stata la marea più devastante dall’alluvione del 1966, e oggi come allora ci siamo trovati impreparati. Il fantomatico Mose, la barriera che avrebbe dovuto proteggere la città, è affondato sotto gli scandali ancora prima di essere costruito. La crisi climatica globale aggrava le preoccupazioni per la città sull’acqua, che dal 1994 al 2016, secondo Ispra, ha visto crescere il livello del mare di oltre 5 cm l’anno.
Ma c’è un intero paese che sta facendo i conti con i cambiamenti del clima. Da anni gli scienziati hanno evidenziato la preoccupante situazione delle zone costiere, prevedendo un ampliamento del rischio inondazione. Sono 33 le aree sensibili particolarmente vulnerabili: le più estese si trovano sulla costa settentrionale del mare Adriatico tra Trieste e Ravenna, ma ci sono anche le pianure costiere della Versilia, di Fiumicino, le Piane Pontina e di Fondi, le Piane del Sele e del Volturno, l’area costiera di Catania e quelle di Cagliari e Oristano. Una lista che il ministro dell’Ambiente Sergio Costa dovrebbe conoscere bene visto che sono informazioni tratte dalla strategia di adattamento ai cambiamenti climatici (SNAC), prodotta dal suo stesso ministero. E dovrebbe averne coscienza anche il ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli, visto che in caso di inazione i costi economici indiretti, quantificati come impatti sul PIL, sono valutati in un – 0.18%.
E le conseguenze dei cambiamenti climatici non si limitano all’innalzamento dei mari. Stravolgimento dei modelli meteorologici, aumento di intensità e frequenza di eventi estremi, scarsità idrica e deterioramento dei sistemi agricoli, diffusione di malattie e perdita massiccia di biodiversità sono solo alcuni degli impatti descritti dall’IPCC, il Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, e che in definitiva porterebbero alla fine delle società umane per come le conosciamo.
Ci numerosi motivi per essere preoccupati, tanto più che l’Italia è particolarmente vulnerabile e – ci dice il Cnr – si sta riscaldando a una velocità doppia rispetto al resto del mondo. Secondo un’analisi della Coldiretti quest’estate si sono verificati in Italia una media di undici eventi estremi al giorno tra trombe d’aria, grandinate e tempeste di vento e pioggia. Ma i cambiamenti climatici acutizzano anche processi in atto da tempo. L’atlante della desertificazione in Italia ha stimato che il 51,8% del territorio è potenzialmente a rischio, in particolare la totalità di Sicilia, Sardegna, Puglia, Calabria, Basilicata e Campania e parte di Lazio, Abruzzo, Molise, Toscana, Marche e Umbria. Tale situazione provocherà danni alle coltivazioni, con un’incidenza maggiore sui territori che dipendono dall’agricoltura. Ancora una volta saranno i più poveri a essere maggiormente colpiti. Aumentano anche i rischi per la salute: dalla maggiore diffusione di malattie trasmissibili all’esacerbazione dell’azione tossica e irritativa degli inquinanti atmosferici e allergie e malattie respiratorie e cardiovascolari, fino alle conseguenze della riduzione delle qualità alimentari nutritive del cibo. Anche settori non direttamente coinvolti subiranno impatti notevoli. Secondo l’Hamburg Tourism Model, l’Italia perderà significative quote di mercato turistico scivolando, a fine XXI secolo, dall’attuale quinto posto al tredicesimo tra le destinazioni internazionali più frequentate. Uno slittamento che riguarderebbe le zone costiere, quelle interne e quelle montane ma anche elementi che siamo abituati a immaginare imperturbabili: le statue. La Sicilia per esempio continuerà a sperimentare un alto stress termico e ciò avrà impatti significativi sui numerosi monumenti e siti archeologici dell’isola, specie quelli in marmo.
E i governi come rispondono a questo allarme, di cui sono assolutamente consapevoli visto che i dati arrivano dai loro stessi enti? Secondo l’edizione 2018 dell’annuario ISPRA, in Italia non è presente una normativa sull’adattamento ai cambiamenti climatici e non ci sono obiettivi specifici fissati né obblighi per le Regioni di dotarsi di uno strumento di pianificazione. Certo, nel 2015 è stata approvata la SNAC che oltre a delineare una visione nazionale e a fornire un quadro di riferimento sull’adattamento, incoraggia una più efficace cooperazione tra gli attori istituzionali a tutti i livelli. Ma il Piano di adattamento, che doveva farle seguito, dopo quattro anni aspetta ancora di essere approvato. E le regioni italiane? Solo la Lombardia e l’Emilia-Romagna hanno predisposto una Strategia Regionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici. Anche a livello locale la situazione è particolarmente critica. Venezia, per esempio, seppure si sia impegnata ad avviare la redazione del nuovo Piano di Azione per il Clima entro il 2020, non ha ancora un piano di adattamento. E la lungimiranza istituzionale è ben evidente dalla foto emblematica del consiglio regionale del Veneto, che si è allagato subito dopo aver votato contro il riconoscimento della crisi climatica.
Dopo i politici ad affondare potremmo essere tutti noi, ed è proprio a partire da questa valutazione che è nata Giudizio Universale, la campagna che condurrà al deposito della prima azione legale contro lo Stato Italiano sui cambiamenti climatici. La causa verrà depositata nel corso dei primi mesi del 2020 e ambisce a ottenere impegni più ambiziosi sul clima da parte del governo: a partire dalle preoccupazioni espresse per decenni dal mondo della scienza e cristallizzato negli ultimi report dell’IPCC, sono centinaia le associazioni, i gruppi, i comitati che stanno raccontando questo processo da mesi in tutta Italia, raccogliendo adesioni e ricorrenti per quello che sarà una vera e propria Causa pubblica, cittadini contro lo Stato, perché chi governa sia costretto a tutelare il diritto alla salute e al clima di milioni di cittadini e cittadine.