Il nuovo Piano per la transizione energetica punta tutto sul gas. E Eni approva
Nel Pitesai, Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee, pubblicato lo scorso 11 febbraio, sembra lontana la prospettiva di una transizione ecologica che passi per le rinnovabili.
Quali territori saranno interessati dall’estrazione del gas
Il Piano mappa le aree idonee dove sarà possibile riavviare le estrazioni di idrocarburi sospendendo la moratoria del 2019 che impediva le concessioni per nuovi pozzi in Italia.
Riguarda il 42% del territorio italiano, di cui il 5% dell’intera superficie marina sottoposta a giurisdizione italiana, con una diminuzione teorica rispetto al 2019 del 50% a terra e dell’89% a mare.
In effetti, il Piano riduce le zone dove si potrà estrarre ma senza indicare in maniera esplicita i divieti per le zone escluse né specificando limiti temporali per le proroghe delle concessioni esistenti.
Per le zone “potenzialmente non idonee”, inoltre, le imprese potranno comunque procedere con la richiesta di concessione a patto che sia stato accertato un potenziale di riserve certe superiore a 150 milioni di metri cubi di gas. Di fatto questo significa dare fondo a tutto il gas naturale del nostro Paese.
Le regioni coinvolte sono 15, con ampie zone della Pianura Padana, dell’Adriatico (dove la conformazione geografica avrebbe dovuto impedirne l’inclusione), dello Jonio e del mare a ovest della Sicilia. Valle D’Aosta, Trentino, Liguria, Umbria e parte della Toscana e Sardegna si salvano solamente perché prive di materie prime.
La finta concessione di Cingolani e il rapporto con Eni
Una “grande concessione” quella del Ministro della transizione ecologica, Roberto Cingolani, che fa mille passi indietro rispetto agli obiettivi climatici europei al 2050. Il Piano avrebbe dovuto prevedere un limite temporale alle estrazioni sul territorio nazionale stabilendo una chiara strategia di uscita dal fossile nell’ottica di una reale transizione ecologica.
Il Ministero della transizione ecologica (Mite), invece, è andato dritto per la propria strada, fermandosi ogni tanto a tavolino con Claudio Descalzi, ceo di ENI, convocato da Cingolani pochi giorni dopo la pubblicazione del Piano per “rilanciare la produzione nazionale di gas”.
Ancora una volta Eni sembra essere il maggiore alleato del governo mentre le associazioni ambientaliste, che sono scese in piazza il 12 febbraio per schierarsi contro il gas come vettore energetico di transizione, sono rimaste sostanzialmente inascoltate in fase di consultazione pubblica per la compilazione del piano, insieme a Regioni e Comuni italiani.
Spianata la strada del gas
Non solo: se l’attività di upstream – estrazione del petrolio – non è più possibile secondo la nuova strategia dell’UE di adattamento ai cambiamenti climatici, l’estrazione di gas naturale sembra essere diventata il nuovo santo graal della transizione.
Il motivo? Con il prezzo dell’energia alle stelle, il Mite sembra preoccuparsi della dipendenza dell’Italia da altri paesi per l’importazione di gas naturale, circa il 92% del fabbisogno nazionale, sottolineando la vulnerabilità politica dell’Italia all’interno del Piano.
Per Cingolani, aumentare la produzione interna taglierebbe addirittura le emissioni di Co2: quelle del trasporto del gas importato. Nel Pitesai, infatti, si dichiara candidamente che gli obiettivi di riduzione della Co2 vanno perseguiti mediante la riduzione delle emissioni derivanti dal consumo di combustibili fossili e non dalla riduzione della produzione. Anzi, per il governo limitare la produzione finirebbe per aumentare i prezzi delle materie prime importate.
Nel piano si legge chiaramente “il gas sarà ancora utilizzato nel medio periodo per consentire il phase out dalla generazione elettrica da carbone e per fornire al sistema elettrico i livelli di adeguatezza e flessibilità crescenti richiesti proprio dalla sempre crescente quota di rinnovabili variabili nel mix di generazione elettrica; almeno fino a che non sarà presente nel sistema elettrico italiano una notevole capacità di accumulo di energia prodotta da rinnovabili, attualmente scarsamente significativa”.
Rinnovabili, queste sconosciute
Al ministro sembra sfuggire un particolare che le associazioni ambientaliste sottolineano da tempo: se non si investe sulle rinnovabili si continuerà ad essere dipendenti dal gas e quindi dagli altri paesi. L’estrazione interna di gas, inoltre, non riuscirebbe comunque a coprire il fabbisogno nazionale ma potrebbe arrivare a un massimo di 10% di copertura. Se il gas deve essere solo un vettore di transizione nel medio periodo, cosa ne sarà di questi nuovi pozzi emergenziali?
L’unico modo per limitare i danni dell’aumento del prezzo dell’energia è aiutare i consumatori e non le industrie fossili. Ne beneficerebbe anche l’ambiente.
Una finta transizione
Il Pitesai, d’altronde è in linea con il recente decreto Sostegni Ter, che tassa solo gli extra profitti delle industrie rinnovabili per 1,5 miliardi di euro ma non tocca le industrie fossili. Anche qui una scelta politica chiara.
È ormai evidente lo scontro ideologico tra chi, come Cingolani, che ha fortemente voluto l’approvazione del piano, ancora discute sulle zone adatte a nuovi pozzi, dando per scontato che comunque da qualche parte bisogna estrarre, e chi suggerisce la fine delle estrazioni fossili, seguendo il parere degli scienziati che ci dicono da anni ormai che non c’è più tempo.
Lo stesso scontro ideologico che ha portato la Commissione Europea a vanificare anni di lavoro sulla tassonomia europea accettando gas e nucleare come energie di transizione, avallando di fatto strategie energetiche nazionali poco lungimiranti, come il nostro Pitesai.