La vera dipendenza da cui liberarsi è quella da Eni
Si può giudicare uno Stato dalle proprie alleanze?
Domanda quanto mai opportuna dopo lo scoppio della guerra in Ucraina lo scorso 24 febbraio.
L’avvio delle operazioni belliche da parte della Russia di Vladimir Putin ha messo ancor più in evidenza che il modello energetico basato sulle fonti fossili si basa sulla disponibilità di carbone, petrolio e gas da parte di despoti e regimi, che utilizzano le preziose risorse naturali come arma di ricatto economico e strumento di arricchimento per reprimere il dissenso interno, così come ribadito da Amnesty International.
Eppure da quasi due mesi il governo Draghi mira principalmente a diversificare le fonti di approvvigionamento, restando fedele al gas, invece che diversificare le fonti energetiche. La prova più evidente è in quella che lo stesso ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha definito “diplomazia energetica”, vale a dire il rafforzamento di alleanze già in essere che puntano ad aumentare i flussi di gas verso il nostro Paese. Un concetto ribadito lo scorso 3 aprile alla trasmissione Rai Che tempo che fa:
“L’Italia ha tanti amici e partner nel mondo e dobbiamo essere orgogliosi di questo. I viaggi e le missioni energetiche che ho fatto servono proprio a costruire un’indipendenza dai ricatti del gas russo”.
Il tour energetico
Solo a scorgere l’elenco degli “amici” dell’Italia, coloro i quali dovrebbero liberarci dalla dittatura sanguinaria di Putin, vengono i brividi. Sono sei i viaggi energetici che finora il ministro Di Maio ha intrapreso: Algeria, Qatar, Repubblica del Congo, Angola, Mozambico e Azerbaigian. A parte l’osservazione che nessuno di essi è un campione di democrazia, sono tutti Stati in cui Eni ha una fortissima presenza. Non a caso nelle prime 4 tappe, avvenute tra la fine di febbraio e gli inizi di marzo, ad accompagnare il ministro c’era proprio l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi. Un fatto inusuale e discusso (nonché discutibile) che si è scelto poi di non replicare. Così, pur mantenendo una strategia di sponda, Eni e lo Stato italiano si sono mossi separatamente. Il 2 aprile Di Maio è volato a Baku, capitale dello Stato azero, mentre Descalzi il giorno dopo è tornato da solo ad Algeri per definire, come recita il comunicato stampa del cane a sei zampe, “le iniziative in corso a breve e medio termine per l’incremento delle forniture attraverso il gasdotto TransMed/Enrico Mattei”. Si tratta del gasdotto che conduce il gas a Mazara Del Vallo, in Sicilia: se l’Algeria rispetterà gli impegni (al momento siamo ancora nella fase degli accordi preliminari), diventerà per l’Italia il primo fornitore di gas. Addirittura oggi sarà direttamente il premier Mario Draghi a incontrare il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune: lo scopo, come scrive il Corriere della Sera, è “suggellare le intese preparate in queste settimane da Di Maio e dall’Eni, per fare dell’Algeria il nostro primo fornitore di gas scalzando Mosca”.
Non è proprio una notizia tranquillizzante: come riporta Valigia Blu, il Paese nordafricano ha già problemi di produzione interna e ha promesso ulteriori forniture pure alla Spagna. Descalzi si era poi recato il 31 marzo in Egitto, a incontrare il dittatore Al Si-si, che l’opinione pubblica italiana ricorda, tra le altre cose, per aver continuato a frapporre ostacoli nell’accertamento della verità sulla morte del ricercatore italiano Giulio Regeni. Durante l’incontro, informa Eni, “si è affrontato il tema della produzione di gas naturale e dell’esportazione di GNL, ambiti in cui l’Egitto ha acquisito un ruolo centrale nel Mediterraneo dalla scoperta di Zohr da parte di Eni”. Qui il riferimento è al più grande giacimento di gas del Mediterraneo. Sul GNL, però, l’Italia sconta l’assenza di infrastrutture. Attualmente sono tre i rigassificatori nel nostro Paese, tanto che il ministro alla Transizione Ecologica Roberto Cingolani ha incaricato Snam di individuare due navi che siano in grado di accogliere il gas in forma liquida e condurlo poi, in forma gassosa, alla rete di distribuzione nazionale. Seppur nessuno dei rigassificatori esistenti viaggia alla massima capacità, difficilmente potranno sopperire da soli alla sete italiana di gas. Insomma, l’Italia sta attuando quella che potremmo definire la strategia spezzatino: un po’ di gas qui, un po’ di GNL là, in modo da compensare i (quasi) 29 miliardi di metri cubi di gas che nel solo 2021 sono arrivati dai gasdotti russi. Le rotte, però, sono quelle decise dal maggior acquirente di gas italiano, vale a dire l’Ente Nazionale Idrocarburi. E da colui che agisce sempre più come un vero e proprio “ministro dell’Energia”, vale a dire Claudio Descalzi.
La guerra in Ucraina rafforza il “Mediterraneo allargato”
Sin dai tempi di Enrico Mattei il cane a sei zampe ha puntato sull’Africa e sul Medioriente. Allora si parlava di terzo mondo, oggi si parla di “Mediterraneo allargato”. Il filo comune resta la sovrapposizione tra gli interessi del cane a sei zampe e quelli dello Stato italiano. D’altra parte l’ad Descalzi non solo proviene dal settore Exploration & Production (dunque proprio dal settore estrattivista) ma dal 2002 al 2005 è stato direttore dell’area geografica Italia, Africa e Medio Oriente. Conosce perfettamente i luoghi, ha una vasta rete di relazioni, si confronta da anni con chi è al potere, anche meglio di tanti diplomatici. Ora che la necessità di affrancarsi dal gas russo è diventata impellente, lo Stato si è affidato ancora una volta alla multinazionale energetica più potente (con qualche gelosia da parte degli altri operatori). Eni, vale la pena ribadirlo, è pur sempre un’azienda privata, anche se il socio di maggioranza è il ministero dell’Economia e delle Finanze. E continua a guardare agli azionisti, garantendo loro un lauto dividendo: nel 2021, quando i prezzi del gas sul mercato internazionale (e poi sulle bollette e sui carburanti) erano saliti alle stelle ben prima dello scoppio della guerra, l’utile netto ha toccato quota 4,7 miliardi di euro, “il più alto dal 2012”. Sempre nel 2021, quando ancora Eni non aveva ricevuto l’avallo dello Stato a fornire immediatamente nuovo gas in sostituzione di quello russo, gli investimenti sul settore fossile erano già ammontati a 5,3 miliardi di euro di cui 3,4 miliardi per lo sviluppo di giacimenti di idrocarburi, in particolare Egitto, Angola, Stati Uniti, Messico, Emirati Arabi Uniti, Italia, Indonesia e Iraq. Cosa avverrà nell’arco dei prossimi 24-36 mesi, l’arco temporale definito dal governo Draghi per uscire dalla dipendenza del gas russo, è facile immaginarlo. Un primo assaggio lo si è avuto alla presentazione del piano strategico 2022-2025. In cui Descalzi ha ribadito che:
“La guerra in Ucraina ci sta costringendo a vedere il mondo in modo diverso da come lo conoscevamo. Si tratta di una tragedia umanitaria, che ha generato nuove minacce alla sicurezza energetica e alla quale dobbiamo fare fronte senza abbandonare le nostre ambizioni per una transizione energetica equa. La nostra strategia ci ha consentito di essere pronti ad affrontare questa sfida. La nostra risposta immediata alla crisi attuale è stata quella di ricorrere alle nostre alleanze consolidate con i Paesi produttori per reperire fonti sostitutive di energia da destinare alle necessità europee. Siamo in grado di rendere disponibili sul mercato oltre 14 TCF (trillion cubic feet) di risorse addizionali di gas nel breve e medio termine”
Le cifre sono mastodontiche: si tratta di 400 biliardi di metri cubi di gas. Di questi, nel giro di uno o due anni al massimo, 13-14 miliardi di metri cubi andranno all’Italia. I numeri, va specificato, sono provvisori perché fino a questo momento sono stati sanciti al massimo accordi preliminari.
Ecco le stime:
• dall’Algeria, come già accennato in precedenza, dovrebbero arrivare tra i 7 e i 9 miliardi di metri cubi di gas; il Paese nordafricano passerebbe in questo modo dagli attuali 21 miliardi di metri cubi di gas a circa una 30ina, superando la Russia;
• da Egitto e Qatar dovrebbero arrivare circa 3 miliardi di metri cubi di GNL nel 2022 e circa 5 nel 2023
• dal Congo potrebbero arrivare altri 5 miliardi di metri cubi di GNL entro il 2024, grazie a un nuovo progetto annunciato a marzo
dalla Libia, attraverso il gasdotto GreenStream (che dal 2004 ha viaggiato al massimo a un terzo della capacità), dovrebbero arrivare tra gli 1 e i 2 miliardi di metri cubi di gas;
• dall’Azerbaigian, attraverso il gasdotto Tap, si intende passare dagli attuali 7 miliardi di metri cubi di gas a 9 miliardi (la capacità massima del gasdotto è di 10)
• c’è infine la produzione nazionale di gas, che dagli attuali 3,3 miliardi metri di cubi di gas dovrebbe arrivare nel giro di due anni a 5 miliardi, soprattutto grazie al nascente gasdotto Argo-Cassiopea (in Sicilia) e alla ripresa delle estrazioni nell’Adriatico.
Tranne che sul Tap, su tutti gli altri progetti ci sono le zampe di Eni. Quelle che Descalzi definisce “fonti sostitutive di energia” sono però altre fonti della stessa energia.
Gas, sempre gas, ancora gas
L’incessante opera di mediazione di Descalzi potrebbe valergli un quarto mandato alla guida dell’Eni, la maggiore azienda partecipata dallo Stato? È la domanda che ci si comincia a porre in vista della scadenza dell’incarico, che ufficialmente terminerà il 31 dicembre 2022. Ci sarà comunque tempo per il rinnovo fino al 30 aprile 2023, quando dovrebbe tenersi l’assemblea di approvazione del bilancio nella quale si formalizza la nomina. Se il governo Draghi pare avviarsi verso la fine della legislatura, prevista per marzo dello stesso anno, potrebbe scegliere di accaparrarsi le ultime nomine e confermare il manager che gode di un consenso trasversale a livello politico. Per Descalzi sarebbe l’occasione per passare alla storia, ancora una volta dell’Eni così come dell’Italia, supererebbe persino la durata della presidenza di Mattei.
Al momento quel che è certo è che si continua a puntare sul gas. Dal piano strategico si apprende che Eni prevede una crescita media dell’upstream del 3% all’anno: si passerà da 1,7 milioni di barili al giorno nel 2022 a un plateau di circa 1,9 milioni di barili/giorno nel 2025. Il focus resta sul gas: qui la produzione crescerà progressivamente sino al 60% al 2030 e oltre il 90% dopo il 2040, a fronte di una più lieve riduzione della produzione di petrolio nel medio e lungo termine. A preoccupare è il fatto che tra le grandi compagnie energetiche italiane Eni è l’unica che continua a insistere sulle fonti fossili. Una prova evidente è ad esempio nella relazione del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, consegnata il 13 gennaio scorso e che riguardava lo stato della sicurezza energetica del nostro Paese. Nell’indagine conoscitiva del Copasir, durata quattro mesi, particolare importanza assume l’audizione di Descalzi. Se i vertici di Enel, Ansaldo, Terna ed Edison hanno parlato, chi più chi meno, di fonti energetiche rinnovabili e accumuli di energia, Descalzi ha fatto riferimento principalmente al gas e, per non farsi mancare nulla, anche al nucleare. Ancor più interessante è poi la sintesi del senatore Adolfo Urso, presidente del Copasir, all’incontro organizzato dalla testata Formiche lo scorso 4 aprile:
Abbiamo attivato l’indagine conoscitiva subito dopo la ritirata, maldestra e sciagurata, dell’alleanza atlantica dall’Afghanistan in un un contesto in cui non vi era ancora l’impennata dei prezzi. Lo abbiamo fatto con una certa lungimiranza perché ci rendevamo comunque conto che, a prescindere da quello che poi sarebbe accaduto, l’approviggionamento energetico da parte di alcuni Paesi metteva a rischio la nostra sicurezza nazionale (…) In conclusione di quella relazione abbiamo invocato la stesura di un piano di sicurezza energetica nazionale, in assenza di un piano europeo, che tendesse all’indipendenza e all’autonomia strategica italiana per quanto riguarda la produzione energetica e le tecnologie per la transizione ecologica (…) Avremmo dovuto già porci in passato il problema dell’autonomia energetica rispetto a Paesi autoritari.
Tutto il contrario delle politiche portate avanti da Eni. Eppure anche sul piano di sicurezza energetica nazionale il governo ha già annunciato di far riferimento al solito cane a sei zampe. Al netto del fatto che bisogna liberarsi immediatamente dalle forniture russe, qual è la vera dipendenza da cui affrancarsi? Quella dal gas o quella da Eni? E quanto sono correlate?