"Il Mediterraneo è un hotspot della crisi climatica”. Intervista al fisico Antonello Pasini

"Il Mediterraneo è un hotspot della crisi climatica”. Intervista al fisico Antonello Pasini

La notte tra il 10 e l’11 settembre segna un prima un dopo per Derna, uno dei centri maggiori della Libia orientale devastato dal passaggio del ciclone Daniel. Le immagini dall’alto diffuse dai droni permettono in parte di percepire la ferita inferta alla città costiera dopo la violenta scarica di pioggia che in poche ore ha riversato l’equivalente di un anno di precipitazioni: quattrocento millimetri di acqua hanno distrutto strade, due dighe e abitazioni.

A distanza di due settimane, Derna vive il trauma della morte di oltre quattromila persone e di diecimila dispersi. In un Paese lacerato da conflitti interni e spezzato in due a livello governativo, la violenza del ciclone Daniel mostra con ferocia le conseguenze della crisi climatica nel Mediterraneo. Ed è nell’innalzamento delle temperature del nostro mare che risiede uno dei principali fattori scatenanti di questa tragedia. Per capire le relazioni tra le alluvioni, come quello che ha distrutto Derna, e la crisi climatica è essenziale conoscere alcuni fenomeni alla base del riscaldamento globale. Per Antonello Pasini, fisico e climatologo del Cnr, percepire i paesi del bacino mediterraneo come una geografia legata dalle stesse caratteristiche climatiche è il primo passo per comprendere la definizione di hotspot climatico.

“Bisogna far capire che in Italia e in tutto il Mediterraneo il riscaldamento climatico globale si sta declinando in una maniera particolare: non aumenta soltanto la temperatura media, aumentano anche gli estremi perché sta cambiando la circolazione dell’atmosfera. Prima eravamo abituati alle alte pressioni che venivano sempre da ovest verso est, sostanzialmente con il famoso anticiclone delle Azzorre. Un anticiclone che era un cuscinetto di aria stabile, ci proteggeva dalle perturbazioni che rimanevano in Nord Europa, ma anche dal caldo africano. Adesso il riscaldamento globale di origine antropica ha fatto espandere verso nord la circolazione equatoriale tropicale. Questo cambiamento significa fare i conti con gli anticicloni africani, prima stabilmente presenti sul deserto del Sahara. Gli anticicloni africani arrivano, entrano nel Mediterraneo e coprono anche tutta l’Italia. A differenza dell’anticiclone delle Azzorre, che ci proteggeva più o meno fino alle metà di agosto in maniera continua, gli anticicloni africani vanno e vengono. Quando tornano indietro entrano le correnti fredde e creano un contrasto termico enorme con l’aria calda e umida preesistente, con il Mediterraneo surriscaldato dal passaggio degli  anticicloni africani.

Cosa comporta convivere con un mar Mediterraneo surriscaldato?

Un mare molto caldo evapora di più. Le molecole di vapore acqueo sono i mattoni su cui si costruiscono le nubi. C’è in sostanza più materiale per la formazione delle nubi, quindi più materiale per formare una pioggia intensa e violenta. Il mare surriscaldato rilascia energia e l’atmosfera non è in grado di trattenere in sé questa eccedenza. Arriva dunque il momento dello scarico. In che modo? In maniera violenta sui territori e sulle città del Mediterraneo.

Nel suo libro l’Equazione dei disastri spiega in maniera approfondita la pericolosità degli eventi meteo-climatici e la vulnerabilità del territorio italiano. A tre anni dall’uscita del suo saggio, abbiamo dovuto fare i conti con una propagazione di eventi estremi e con la gestione di catastrofi che ora iniziamo a concepire non solo come risultato della devastazione territoriale ma anche come conseguenze dei cambiamenti climatici. Come scienziato e docente, Lei è anche il primo firmatario di un appello al mondo del giornalismo per esortare i media a divulgare in maniera corretta e regolare del cambiamento climatico. Dopo le ultime catastrofi naturali, secondo Lei c’è una ricezione diversa di quello che accade?

La percezione dei cittadini sta cambiando, anche se l’Italia resta un paese con scarsa cultura scientifica. Dai tempi di Croce in poi la cultura scientifica è stata in qualche modo valutata come una cultura puramente tecnica, quasi che sia difficile parlare di massimi sistemi. C’è un cambiamento in atto, questo è sicuro. Il problema climatico viene sentito di più proprio nel momento in cui arrivano eventi estremi che ti colpiscono in prima persona. In questi anni le aree fuori le grandi città e i territori che hanno dovuto fare i conti con i disastri, come il Trentino, la Romagna e le Marche, sono diventati luoghi con un portato conoscitivo rilevante riguardo le crisi climatica. Tuttavia, esiste ancora un negazionismo che permane, addirittura in alcuni casi diventa feroce, irrazionale e violento. Come scienziato è importante divulgare la parte climatica dei rischi legati al riscaldamento globale, lavorando per rimanere al di sotto del grado e mezzo di aumento della temperatura media globale rispetto all’era preindustriale.

Per raggiungere questo obiettivo quale direzione dobbiamo prendere?

La questione fondamentale è quella di produrre una transizione ecologica ed energetica. Il 70 % delle nostre missioni vengono dall’utilizzo dei combustibili fossili.Va cambiato il modello di sviluppo, bisogna indirizzare le politiche pubbliche sull’utilizzo di energie a bassissima emissione. Parlare delle responsabilità dei singoli è importante, ma l’impegno individuale e lo sforzo di modificare il proprio stile di vita devono camminare insieme alla consapevolezza di questo nodo energetico. Il cambiamento individuale deve essere il preludio alle azioni collettive: gruppi di risparmio energetico, consumo sostenibile, produzione distribuita di energia. Oggi è importantissimo parlare di comunità energetiche. Ora abbiamo la possibilità di mettere insieme una scuola, un ospedale, una chiesa, un negozio per distribuire energia senza bruciare combustibili fossili. Ma la spinta deve essere politica. È la politica che deve gestire la transizione energetica. La comunità scientifica consegna gli strumenti per arrivare a determinare gli obiettivi, può aiutare a capire cosa può produrre dei risultati, ma alla politica deve rimanere il compito di realizzarli.

Nel nostro Paese ci sono una serie di aziende energetiche che influenzano la politica in termini di investimenti sulle fonti fossili. Come si può fermare questo dirottamento di risorse che servirebbero per la transizione ecologica?

Bisogna diminuire e poi azzerare i sussidi ai combustibili fossili. C’è ancora un blocco burocratico e politico sulla diffusione delle energie rinnovabili. Abbiamo circa sessanta gigawatt  di potenza rinnovabile bloccata. Mancano i permessi per effettuare le installazioni di fotovoltaico e di eolico offshore. Affrontare la crisi climatica vuol dire anche discutere dei nuovi modelli di business. Questo è l’incipit anche dell’accordo di Parigi, dove nel preambolo si dice chiaramente che se vogliamo evitare i guai peggiori del riscaldamento globale la seconda parte di questo secolo deve essere a  emissioni di carbonio nette zero. Questo è un messaggio enorme ai politici, agli economisti e al mondo del business.

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