Eni si prepara alle proteste

Di Andrea Turco

Su Calenzano e le esercitazioni di Eni

Le terribili immagini di Calenzano che da lunedì 9 dicembre inondano gli schermi resteranno una cicatrice che non potrà rimarginare. A pochi chilometri di Firenze, l’esplosione avvenuta nel deposito Eni della cittadina toscana ha squassato l’intero Paese: cinque persone morte, 26 ferite e tre ancora ricoverate, secondo l’ultimo aggiornamento della regione. In attesa che, come si dice troppo spesso in questi casi, la magistratura accerti le responsabilità penali, ci sono quelle politiche e morali da cui non si può fuggire.

E che ci parlano di un’Italia disseminata di siti industriali considerati a rischio di grave incidente – quasi mille secondo l’ultimo inventario nazionale – e che continua a maneggiare sostanze pericolose come fossero caramelle. Un’Italia che continua a investire su quel petrolio e quel gas che hanno consentito la mortale deflagrazione di Calenzano e che continua ad affidare a Eni la propria politica energetica. Senza aver mai posto una seria questione di sicurezza. Non si può morire di lavoro, hanno detto in tante e tanti. Non si può vivere più di fonti fossili, aggiungiamo noi. Per non farsi sopraffare dal dolore e della rabbia, i sentimenti che più pervadono i nostri cuori, e per comprendere quanto siano sballate le priorità di un Paese pervicacemente a sei zampe, è meglio fare un piccolo passo indietro.

Una questione di priorità

Indignata sorpresa: è la miscela di sensazioni più diffusa che si è registrata dopo aver appreso dell’esercitazione di sicurezza al distretto Eni di Marina di Ravenna, avvenuta lo scorso 29 novembre. A essere messa in scena una protesta ambientalista, con un nutrito contingente di forze dell’ordine, istituzioni e dipendenti del cane a sei zampe che hanno simulato di dover affrontare, come scrive il ministero dell’Interno, “una manifestazione pacifica all’ingresso dell’impianto che, a causa dell’infiltrazione di alcuni individui, si è trasformata in una situazione delicata: alcune persone sono entrate nel Centro Direzionale, occupando una palazzina. Altri si sono arrampicati su un traliccio, esponendo striscioni e rifiutandosi di scendere”.

Le tute bianche delle persone manifestanti e l’utilizzo di fumogeni ricordavano uno dei più grandi smacchi recenti subiti da Eni. Nell’estate 2020, infatti, al termine del Venice Climate Camp, circa 250 “tute bianche per il clima” erano riuscite a entrare dentro il perimetro industriale della bioraffineria di Porto Marghera per sanzionare, imbrattando serbatoi e uffici, l’azienda energetica più ricca e influente del nostro Paese, che da sola, come denuncia da tempo Greenpeace, “è responsabile a livello globale di un volume di emissioni di gas serra superiore a quello dell’intera Italia”. L’azione era stata realizzata in nome della giustizia climatica ed era stata definita dall’allora prefetto di Venezia Vittorio Zappalorto “un fatto grave che non deve più ripetersi”. 

Delusioni e tensione

Intanto, in questi quattro anni, il fronte ambientalista da una parte si è radicalizzato e dall’altra parte è stato messo ulteriormente all’angolo. In Italia prima il governo Draghi ha ceduto alla real politik – per sostituire il gas di provenienza russa ha preferito aumentare i fornitori di gas, rivolgendosi a Stati non meno autoritari come Algeria, Egitto, Qatar e accaparrandosi ingenti quantità del GNL statunitense, molto più caro del gas russo e che è ottenuto attraverso la devastante tecnica del fracking – e poi il governo Meloni ha condotto e sta continuando a condurre una vera e propria battaglia di retroguardia ambientale, sostenuta da gran parte del mondo industriale e finanziario. Anche l’Unione Europea ha scelto di abbandonare l’autodesignata leadership sul clima, preferendo dirottare risorse e attenzioni sugli armamenti. In questo quadro demoralizzante pure le ultime tre Conferenze Annuali sul Clima – più note come COP – sono state quantomeno deludenti e dominate dalle azioni di lobby delle aziende fossili, come abbiamo denunciato con la campagna Clean the Cop. D’altra parte le esercitazioni attorno alle infrastrutture energetiche del cane a sei zampe, vale la pena ricordare anche quella avvenuta il 6 novembre al centro oli dello stabilimento di Gela, in Sicilia, si inseriscono, come afferma la stessa polizia, in uno scenario complesso contrassegnato da “diversi fronti di crisi mondiale in atto, che rappresenta uno degli obiettivi sensibili critici degni di particolare attenzione”.

Si respira tensione, per farla breve. Per cui Eni e lo Stato temono una nuova ondata di proteste e intendono farsi trovare preparati. Ma è davvero l’unica lettura possibile?

Eni è al di là del bene e del male?

Le esercitazioni di Ravenna e Gela appaiono una paradossale prova muscolare, specie se inserite in un momento storico come quello attuale in cui è ripartito l’iter normativo del cosiddetto ddl Sicurezza, il disegno di legge col quale il governo Meloni intende infliggere una stretta autoritaria che rischia di essere decisiva. In questi mesi centinaia di movimenti sociali, organizzazioni ambientaliste e climatiche, sigle sindacali, si sono mobilitate per impedire l’ulteriore restrizione di una democrazia già sottile come quella italiana. L’appuntamento fondamentale in questo senso è la manifestazione nazionale del 14 dicembre a Piazzale del Verano, a Roma, a cui anche A Sud aderisce. Le proteste inscenate nei luoghi a sei zampe non fanno che confermare l’abissale distanza che separa aziende e istituzioni dalle esigenze di un pianeta avviato verso il collasso climatico. Invece di recepire le istanze sollevate dalla comunità scientifica e dai territori, Eni preferisce chiudersi a riccio e difendere i propri spazi e dunque i propri interessi. Ciò non ci sorprende, considerata la ben nota refrattarietà dell’azienda a qualsiasi critica. Un’allergia che negli ultimi anni si è espansa a dismisura. 

Ci limiteremo a una manciata di casi ma l’elenco potrebbe essere lunghissimo:

  1. la recente denuncia per diffamazione ad Antonio Tricarico, campaigner di ReCommon, al quale ribadiamo ancora una volta la nostra solidarietà, per le dichiarazioni rilasciate durante la trasmissione della Rai “Report” dello scorso 5 maggio. Tra l’altro la denuncia è arrivata dal responsabile dell’ufficio legale di Eni Stefano Speroni, che nel frattempo è indagato nell’ambito dell’inchiesta della DDA di Milano su un presunto dossieraggio e spionaggio illeciti portati avanti dalla società Equalize.
  2. i toni perentori coi quali l’azienda liquida qualsiasi inchiesta giornalistica che la riguarda o, andando indietro nel recente passato, le diffide a Il Fatto Quotidiano (2020) e Domani (2021) contestando in maniera analoga non un singolo passaggio o un singolo articolo ma tutti gli articoli che riguardano Eni, sostenendo che si tratterebbe in entrambi i casi di “campagne diffamatorie”. 
  3. l’assenza di uno spazio di confronto persino all’interno dell’assemblea degli azionisti: con la scusa del Covid dal 2020 l’azienda impedisce la partecipazione in presenza alle ong ambientali che, sulla base del modello anglosassone dell’azionariato critico, prendevano parola per riportare dati e testimonianze difformi rispetto al monologo del management, per il quale va sempre tutto bene e al quale importa soltanto far gongolare gli azionisti.

Dalla parte giusta della storia

Fino a quando l’azienda che vanta un fatturato da 93,7 miliardi di euro, che la pone al vertice delle aziende italiane, potrà continuare ad arroccarsi nella difesa degli interessi fossili e finanziari? Eni è stata ed è cruciale per la storia dell’Italia, perfino nell’ambito della cultura (come abbiamo raccontato in questo dossier), ed è impensabile che le sue politiche industriali ed energetiche, sposate in maniera acritica dal governo, non possano essere messe in discussione. Di più: fino a quando Eni continuerà a stare dalla parte sbagliata della storia, dalla parte di chi continua a contribuire al riscaldamento globale e all’inquinamento ambientale e sociale dei territori, dovrà fare i conti con le critiche e le contestazioni. Con le sue continue operazioni di greenwashing il cane a sei zampe ricorda quei signori feudali che credevano di spegnere le ribellioni concedendo ai sudditi qualche lieve concessione o aggiungendo ai propri castelli qualche altro sistema di difesa, invece di accogliere il cambiamento e di accettare la messa in discussione di un modello padronale e iniquo. Perché è questo, prima ancora che ambientalmente dannoso, il modello energetico a sei zampe: autoritario, dall’alto verso il basso, socialmente ingiusto. 

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