Diario da Belém – giorno 12

Siamo arrivatə a Belém senza illusioni e ne usciamo con la conferma che la diplomazia climatica è ostaggio di poteri fossili e ambiguità geopolitiche. Eppure, tra movimenti, popoli indigeni e un fronte di alta ambizione che spinge per l’uscita dalle fossili, si intravede una voce collettiva che prova a cambiare la storia. Ora serve trasformare questi spiragli in forza politica.


24 novembre 2025

Siamo arrivate a Belem con poche aspettative,  poi abbiamo assistito nelle due settimane di negoziati al tentativo di mettere al centro delle discussioni negoziali una roadmap per l’uscita dai combustibili fossili, e a un partecipazione di movimenti sociali e indigeni che ci ha fatto rivivere i momenti migliori del movimento per la giustizia climatica.

Ma le aspettative, nelle giornate di chiusura, sono state deluse definitivamente. La crisi del multilateralismo non fa eccezione per la diplomazia climatica

Le ambiguità, i giochi di potere, le tensioni tra i negoziatori, ci hanno catapultato in un negoziato ostaggio di due blocchi di paesi: da una parte un blocco che corre ad alta velocità portando avanti gli interessi legati all’industria fossile senza guardare in faccia nessuno.  Dall’altra chi tenta di tenere assieme diritti e transizione per uscire dal modello fossile e che cerca alleati per costruire una nuova diplomazia per il clima. 

E poi c’è il Brasile, un paese che ambisce a un ruolo centrale nella geopolitica globale e che mostra numerose contraddizioni. Lula e Correa do Lago annunciano la difesa dell’Amazzonia ma con gli strumenti della finanza; lavorano al phase out dal modello fossile ma concedono nuove licenze  per lo sfruttamento petrolifero, promuovono la partecipazione dei popoli indigeni, ma con un riconoscimento più simbolico che reale. 

Se dovessimo fare un bilancio complessivo diremmo che questa COP ha subito profondamente l’influenza del trumpismo, ma in fondo non poteva andare altrimenti. La scena politica regionale, dall’Argentina al Cile, ci aveva avvertito. E se la diplomazia globale non ha fermato un genocidio, era difficile che fermasse il cambiamento climatico.

Venerdì, prima della chiusura dei lavori, Al Gore riferendosi al documento finale della COP, la Mutirao decision, denunciava che il testo in discussione era scritto di fatto dall’OPEC; grazie alle pressioni di Arabia Saudita, Usa e Russia. 

E nonostante il nome simbolico della cover decision, Mutirao, che significa lavoro comunitario per conseguire un bene collettivo, questo documento farà il bene di pochi lasciando liberi i paesi ricchi, che continueranno a procedere come hanno fatto finora: pochi aiuti ai paesi vulnerabili, pochi obblighi e poche responsabilità. 

Nel negoziato di Belém, i Paesi del Nord globale  hanno annacquato i propri impegni in materia di finanziamento per l’adattamento climatico, spostando al 2035 la scadenza per il promesso triplicamento dei fondi. 

Le buone notizie sono un blocco di paesi di alta ambizione che spinge per scrivere una storica roadmap per l’abbandono delle fossili, Colombia in capo, che si riunirà ad aprile a Santa marta e prova a scrivere una storia nella storia.  La seconda è il Bam, il belem action mechanism, un meccanismo nuovo che mette assieme fondi e iniziative di transizione giusta con al centro diritti e lavoratori.

Se l’Onu e l’UNFCCC nello scenario attuale sono una palude, è importante trovare tutti i mezzi necessari per attraversarla.


Il Diario di A Sud dalla COP è curato da Marica Di Pierri e Laura Greco da Belem ed è parte del podcast di rassegna stampa quotidiana “Scanner” di Valerio Nicolosi per Fanpage.

Riascolta la puntata qui

Iscriviti alla nostra newsletter!