Descalzi resta all’Eni, il grigio compromesso

raffineria (usa)

Nominato da Renzi, confermato da Gentiloni e, a denti stretti, da Conte: alla fine l’uomo simbolo dell’allenza di governo Italia Viva-Pd-M5s è lui, Claudio Descalzi, per la terza volta designato amministratore delegato dell’Eni.

Uno scenario improbabile fino a pochi mesi fa, che si è fatto via via più concreto con la diffusione della pandemia Covid-19. Il Quirinale e i mercati chiedevano stabilità nella partita della nomine delle partecipate. E così, invece della grande abbuffata, il Movimento 5 stelle sceglie di accettare la riconferma di Descalzi. Ottenendo in cambio la presidenza del cane a sei zampe. Va via Emma Marcegaglia, simbolo del potere di Confindustria, al suo posto arriva Lucia Calvosa. Che, tra le altre cose, è consigliera d’amministrazione della società editoriale de Il Fatto Quotidiano, giornale che ha condotto una campagna d’informazione contro il rinnovo di Descalzi. Non è l’unico cortocircuito. Ha fatto discutere in questi giorni la presa di posizione di Alessandro Di Battista. Sabato scorso in un post su Facebook l’ex deputato pentastellato ha ricordato che “sulla base delle nostre regole” uomini come Descalzi “non potrebbero neanche essere candidati al consiglio di circoscrizione”.

Il riferimento è soprattutto al noto processo, in corso al tribunale di Milano, per il quale l’ad di Eni è imputato per corruzione internazionale: secondo gli inquirenti la multinazionale energetica avrebbe pagato oltre un miliardo di euro per ottenere i diritti di sfruttamento di un enorme giacimento petrolifero in Nigeria (l’Opl245). Peccato che Di Battista e con lui una quarantina di esponenti di spicco del M5s che hanno firmato il suo appello – tra le quali figurano le ex ministre del Sud e della Salute Barbara Lezzi e Giulia Grillo nonché il presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra – arrivino, volutamente, a giochi ampiamente già fatti. Avrebbero potuto affermare l’insostenibilità di Descalzi a governo appena nato, a inizio anno (quando la partita delle nomine si è accesa), perfino ai primi di aprile (quando ancora c’erano margini per incidere). Invece hanno scelto il silenzio e le trattative sotterranee, come nella migliore (o peggiore, a seconda dei punti di vista) tradizione democristiana.

In realtà la strada del compromesso imboccata del M5s è criticabile per altre ragioni che non siano il giustizialismo delle origini e le pose da duri e puri. In un mondo che, finita l’emergenza coronavirus, dovrà affrontare la crisi climatica il colosso energetico sceglie di puntare ancora sulle fonti fossili. Descalzi d’altra parte proviene dal settore Oil & Gas, per cui non ha sorpreso gli addetti ai lavori che tra gli obiettivi del “piano strategico di lungo termine al 2050” ci siano la crescita della produzione di idrocarburi fino al 2025 e la progressiva sostituzione del petrolio col gas, con quest’ultimo che tra 30 anni arriverà a costituire l’85% della produzione totale. Il cuore di Eni, insomma, dal nero passerà al grigio. Appaiono poi ben poca cosa gli impegni sul fronte delle rinnovabili, dove è prevista una produzione di appena 55 gigawatt al 2050; per fare un confronto, la sorella Enel già ora gestisce da sola 46 GW di capacità totale. Il cane a sei zampe insiste su un necessario periodo di transizione energetica, di cui però dilata eccessivamente gli orizzonti temporali.

Non può bastare in Italia la riconversione di due raffinerie su sei, quelle di Porto Marghera e Gela, che vengono alimentate da oli esausti (la prima) e da olio di palma (la seconda), specie perché la materia prima viene e verrà acquistata dall’estero. Così come appaiono in contraddizione coi messaggi green che l’azienda da tempo diffonde la recente acquisizione di una delle raffinerie più grandi al mondo, negli Emirati Arabi Uniti, o gli 11 miliardi di euro investiti in Mozambico per scovare gas ad acque ultraprofonde.

Non può bastare la promessa della riduzione dell’80% delle emissioni di gas serra, non possono bastare i progetti di preservazione delle foreste o i progetti per la cattura dell’anidride carbonica, specie se si continua a voler sottrarre al suolo petrolio e gas. Il modello estrattivista non è più sostenibile, come ripetono da decenni i comitati territoriali che loro malgrado devono convivere con giacimenti ed estrazioni. Lo afferma da tempo anche la comunità scientifica, e lo hanno affermato recentemente persino i mercati: vecchi conflitti tra Arabia Saudita e Russia, da una parte, e dall’altra una nuova pandemia che ha fermato i consumi del mondo hanno fatto abbassare drasticamente i pezzi del petrolio e ribadito l’assoluta volatilità del settore.

E’ la visione di futuro di Descalzi che avrebbe dovuto preoccupare chi governa, non (solo) i suoi guai giudiziari. In sostanza con il vecchio/nuovo amministratore delegato vince il ministero dell’Economia, che insieme a Cassa Depositi e Prestiti detiene il 30% delle azioni di Eni, e perde il ministero dell’Ambiente. Soprattutto con la nomina di Descalzi vince una visione legata all’oggi e perde una reale visione di futuro. L’ennesima occasione persa.

 

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