Crisi climatica: è record di sfollati.

Secondo l’ultimo rapporto annuale sugli sfollati interni, il Global Report on Internal Displacement (GRID 2023), circa il 75% degli sfollati totali si colloca in sole 10 nazioni. Il caso limite è il Pakistan, dove le precipitazioni record hanno colpito 33 milioni di persone. In un contesto simile per alcuni tratti all’Italia

Pubblicato anche su economiacircolare.com

La crisi climatica è un’emergenza umanitaria. L’allarme è stato lanciato anche dall’UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, per sensibilizzare sull’impatto degli shock climatici su tutto il Pianeta e soprattutto sulle persone più vulnerabili, come rifugiati e sfollati, che vivono principalmente in Paesi già fragili, teatro di conflitti armati e degrado ambientale. Tra gli effetti più catastrofici sulle comunità ci sono l’aumento di carestie alimentari e idriche, la perdita dei mezzi di sostentamento a causa di inondazioni, la siccità, gli incendi.

Ma la crisi climatica porta con sé anche forti rischi per la salute, danni economici e impatti sociali, vale a dire la violazione dei diritti umani come quello alla vita, a un ambiente sano, alla salute, all’istruzione. I cambiamenti climatici si presentano come il sintomo più acuto della crisi ecologica globale generata e alimentata dal modello di sviluppo dominante che subordina la natura alle logiche della produzione e accumulo di ricchezza: come ricorda spesso EconomiaCircolare.com, nei sei anni passati l’umanità ha utilizzato la stessa quantità di risorse di tutto il XX secolo. E questa crisi per sua natura non può essere scollegata dalla congiuntura economica, finanziaria, energetica, alimentare e migratoria.

2022 anno record di sfollati interni

Tutto questo gioca un ruolo centrale nel modellare i flussi migratori, con milioni di persone in fuga, principalmente all’interno dei confini dei singoli Paesi. Viaggi che il più delle volte non trovano approdi sicuri. Ciò ha acuito, negli ultimi anni, il fenomeno dello spostamento continuo, ovvero di persone costrette a muoversi diverse volte perché collocate sempre in luoghi di fortuna, come le periferie delle grandi megalopoli, particolarmente vulnerabili agli effetti degli eventi climatici estremi.

Nel 2022 è stato registrato il nuovo record di sfollati interni: 71,1 milioni di persone costrette a muoversi entro i confini nazionali. Con circa 32,6 milioni di sfollati a causa dei disastri naturali aggravati dalla crisi climatica-ambientale, con un impatto maggiore in Africa e Asia. A questi si aggiungono i 28,3 milioni di persone costrette a spostarsi a causa delle guerre, come registra l’ultimo rapporto annuale sugli sfollati interni, Global Report on Internal Displacement (GRID 2023), pubblicato dall’Internal Displacement Monitoring Centre (Idmc) e dal Norwegian Refugee Council, presentato lo scorso 11 maggio. Sempre secondo il GRID, circa il 75% degli sfollati totali si colloca in sole 10 nazioni: Siria, Afghanistan, la Repubblica Democratica del Congo, Ucraina, Colombia, Etiopia, Yemen, Nigeria, Somalia e Sudan.

L’impatto della guerra e gli effetti disastrosi della Niña

La rapida escalation del conflitto in Ucraina e le ripercussioni sulla crisi alimentare ed energetica su scala globale hanno inciso fortemente su questi numeri. Sebbene se ne parli poco, le guerre hanno sempre un forte impatto ambientale, lasciando dietro di sé suoli sterili, ecosistemi distrutti, acque e aria inquinate. L’industria bellica, seppure fortemente impattante anche in termini di emissioni di gas climalteranti, resta ancora fuori dal conteggio della CO2 prodotta. Difatti, anziché spezzare la filiera bellica per contrastare i cambiamenti climatici, agli Stati non è imposto l’obbligo di rendicontare le emissioni militari di gas serra.

Sul fronte dei disastri naturali, il loro aumento lo scorso anno ha risentito fortemente del fenomeno di raffreddamento oceanico e atmosferico, la Niña, che per il terzo anno consecutivo ha avuto effetti gravissimi principalmente sulle popolazioni del Pakistan, della Nigeria e del Brasile. La Niña ha, inoltre, contributo ad aggravare una delle peggiori siccità in Somalia, Etiopia e Kenya, causando oltre 2,1 milioni di movimenti interni. La siccità, soprattutto in Africa, alimenta la lotta per l’acqua, la terra e le altre risorse naturali, sempre più limitate, tanto da diventare ancora più strategiche e al centro di numerosi conflitti armati. I conflitti legati alla proprietà dei terreni agricoli e del bestiame incidono, ad esempio, su quelle che erano le migrazioni stagionali, ossia le transumanze, che vengono invece sostituite da ulteriori sfollamenti per chi non ha più mezzi di sostentamento.

Dopo la siccità le alluvioni record in Pakistan: un Paese sott’acqua

Il GRID 2023 dedica un approfondimento proprio al Pakistan, dove la stagione dei monsoni ha portato precipitazioni record che hanno colpito 33 milioni di persone, con 8,2 milioni di sfollati interni. Si tratta di uno dei più grandi eventi di sfollamento per disastri al mondo nell’ultimo decennio. Nel mese di agosto dello scorso anno circa 85.000 km2 di terra, l’equivalente del 10% del Paese, sono stati allagati. L’acqua ha impiegato mesi per ritirarsi e ha causato danni diretti e perdite economiche stimate in circa 30 miliardi di dollari, inaugurando la peggiore crisi umanitaria del Paese degli ultimi tempi.

Il Balochistan e il Sindh sono state le due regioni più colpite. Le inondazioni in Pakistan sono arrivate dopo una forte ondata di calore e di siccità, che ha visto temperature torride costantemente superiori ai 45°C. Ciò ha provocato il rapido e inusuale scioglimento dei ghiacciai settentrionali del Paese, seguito dalle piogge monsoniche più intense mai registrate, culminate in inondazioni catastrofiche. La siccità aveva già danneggiato i raccolti, provocato la morte di migliaia di capi di bestiame e ridotto la resilienza delle comunità; le alluvioni non hanno fatto che aumentare il numero di persone in stato di insicurezza alimentare. La contaminazione dell’acqua e i danni alle strutture igienico-sanitarie hanno portato epidemie, soprattutto tra gli sfollati. I grandi disastri non sono un fenomeno nuovo in Pakistan tanto che, nel 2010 dopo le inondazioni che hanno provocato 11 milioni di sfollati, il governo ha istituito l’Autorità nazionale per la gestione dei disastri.

Secondo il Climate Risk Index 2021, il Pakistan si posiziona tra i dieci Paesi al mondo più colpiti dalla crisi climatica, sebbene contribuisca per meno dell’1% alle emissioni globali di gas serra. Un paradosso che evidenzia l’ingiustizia climatica. In Pakistan, così come in molte altre realtà, la ricostruzione e il ricollocamento delle comunità deve essere pensato parallelamente agli sforzi per ridurre la povertà, come fattore di rischio dei disastri stessi, dato che le comunità più frequentemente colpite sono spesso le più povere e vulnerabili. A tal fine è necessario intervenire con misure, politiche, quadri giuridici integrati in materia di riduzione del rischio di catastrofi, adattamento ai cambiamenti climatici e resilienza.

Sott’acqua anche l’Emilia-Romagna

Siccità e inondazioni sono due facce della crisi climatica che nelle scorse settimane hanno già duramente colpito anche l’Emilia-Romagna. Prima i fiumi in secca, poi le precipitazioni intense e concentrate nel tempo che hanno devastato le province di Bologna, Cesena, Forlì, Ravenna. Più di 40 i Comuni alluvionati e 23 i fiumi esondati, con danni economici per miliardi di euro. Rischi anche per la salute dei cittadini in termini igienico-sanitari, a causa delle acque contaminate, così come psicologici. Il governo ancora una volta ha deciso di intervenire con un’azione basata su interventi infrastrutturali, sulla consegna della gestione dell’emergenza alla figura di un commissario. Le aree colpite vanno riprogettate e non costruite. Secondo quando indicato anche dal Centro Italiano per la riqualificazione fluviale (Cirf), è necessario puntare a ristabilire la funzionalità dei sistemi fluviali, intervenire utilizzando soluzioni basate sulla natura e restituire spazio ai fiumi prima che siano loro stessi a riprenderseli.

Sebbene da anni gli scienziati ci mettono in allerta sugli effetti dei cambiamenti climatici si continua pericolosamente a parlare di maltempo. Si è arrivati addirittura a paragonare le alluvioni ai terremoti. Un paragone del tutto improprio se si mette a confronto l’imprevedibilità delle scosse sismiche con la possibilità di fare prevenzione sul fronte del dissesto idrogeologico. Le alluvioni e le frane che hanno colpito l’Emilia-Romagna sono state causate dalla crisi climatica e amplificate da un territorio cementificato. Se è vero che l’Italia è morfologicamente fragile, con il dissesto idrogeologico in parte connaturato, è altrettanto vero che il territorio sconta, a partire dagli anni del boom economico, l’urbanizzazione selvaggia, il disboscamento di interi versanti, il consumo scellerato del suolo, la costruzione di interi quartieri negli alvei dei fiumi, l’abusivismo edilizio, il rinvio di spese per la prevenzione e la messa in sicurezza del territorio. In questa cornice l’approccio emergenziale è il più “facile” da utilizzare per chi governa: promettere di proteggerci dal cambiamento climatico non è allettante e non porta voti, quanto la promessa di elargire bonus o la pioggia di interventi e finanziamenti che seguono i disastri.

Luoghi distanti accomunati dagli effetti della crisi climatica

Oltre ai danni ambientali ed economici, l’Emilia-Romagna ha contato i suoi morti (15) e sfollati del clima e della cattiva gestione del territorio, più di 20mila persone che hanno perso tutto e hanno trovato accoglienza nelle sedi allestite dai Comuni (scuole, palazzetti e palestre), negli alberghi, presso sistemazioni alternative (seconde case, amici e parenti). Se apparentante può sembrare una forzatura parlare di sfollati del clima in regioni come l’Emilia-Romagna, sono gli eventi a dimostrarci che anche in Italia una riflessione sull’argomento ha senso.

In un discorso più ampio sulle migrazioni, va indubbiamente considerato che la necessità di spostarsi è legata a una serie di fattori variabili, personali e contestualizzati rispetto ai territori interessati dagli eventi climatici estremi, a grandi linee sintetizzati nei concetti di vulnerabilità, resilienza e prevenzione del rischio. Concetti che danno la chiave per analizzare le differenze tra il Nord del mondo, che dispone di maggiori strumenti e risorse per attuare strategie di adattamento, rispetto al Sud più povero e vulnerabile.

Guardare contemporaneamente a due realtà molto diverse tra loro come il Pakistan e l’Emilia-Romagna deve aiutarci a meglio comprendere quanto – nonostante la distanza geografica, sociale ed economico – i loro destini siano accomunati dagli effetti della crisi climatica. In entrambi i casi, sebbene con numeri e danni di entità diverse, l’alternanza estrema di siccità e alluvioni ha portato con sé distruzione, morte e migliaia di persone rimaste senza casa. Questi eventi mostrano l’urgenza non solo di misure di adattamento al cambiamento climatico ma anche di mitigazione, che riducono le fonti di emissione di gas a effetto serra, responsabili del riscaldamento globale.

Parlare di sfollati del clima è scomodo

Eppure in Italia, come negli altri Paesi occidentali, si fatica a parlare di sfollati del clima. La narrazione mediatica, così come il dibattito politico, rimanda principalmente a espressioni come vittime, sfollati (in senso generico) o evacuati, senza utilizzare aggettivi che riconducano alle cause dello spostamento. Certamente questo è un modo per evitare di mettere a fuoco le reali cause dei problemi e sottrarsi dall’assunzione di responsabilità, che sono ben chiare. Portare l’attenzione sui cambiamenti climatici, sul degrado del territorio, sulla violazione dei diritti dei cittadini, significa portare l’ambiente al centro dell’agenda politica.

Vuol dire introdurre l’elemento del rischio in tutte le politiche di pianificazione e gestione del territorio, scegliendo come principale strumento di difesa la tutela del suolo e la messa in sicurezza del sistema idrico, attraverso azioni integrate che tengono conto anche del settore sociale e sanitario. Centrale in questo percorso diventano la condivisione di buone pratiche e lo scambio di esperienze, l’attivazione di processi di consapevolezza, di modelli economici fondati su principi di sostenibilità e circolarità. Una direzione che include anziché escludere dal processo decisionale coloro che tutti i giorni instancabilmente lavorano per costruire un Paese sostenibile e inclusivo e che conoscono da vicino il territorio. Alla società civile (rappresentata da comitati, associazioni, comunità) deve essere riconosciuto un ruolo trainante nel processo democratico per la messa in sicurezza del territorio così come nella fase di ricollocamento degli sfollati.

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