Cop27 sul clima in Egitto

Come ci arriviamo e cosa aspettarci

La 27esima Conferenza sul clima è ufficialmente partita. Molti i dubbi: dalla scelta dell’Egitto come Paese ospitante alle difficoltà dello scenario internazionale, funestato dalla guerra in Ucraina e dalla crisi energetica. A far rumore finora sono soprattutto le assenze.

È iniziata ufficialmente ieri a Sharm el-Sheikh, in Egitto, la Cop27, vale a dire la 27esima Conferenza delle Parti sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite. Il vertice cade in un importante anniversario, a 30 anni esatti dalla sigla dell’UNFCCC, la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici, cui hanno aderito da allora 197 Paesi con l’obiettivo di costruire un campo ampio e coordinato di impegni per contrastare il riscaldamento globale.

Tuttavia, 26 vertici internazionali e due accordi globali dopo – Kyoto e Parigi – la quadra per una azione climatica globale ed efficace è ancora lontana. Con tutti gli indicatori climatici in peggioramento e le emissioni in costante trend di crescita, sulla Cop27 sono concentrate molte attenzioni ma poche aspettative.

Anzitutto, perché lo scenario internazionale è assai poco favorevole, con la crisi energetica globale che si sta traducendo in nuova linfa per la corsa alle energie fossili. In secondo luogo, perché la sede della Cop, l’Egitto di Al-Sisi, non è un luogo considerato promettente – per ragioni tanto politiche quanto simboliche – per favorire processi decisionali inclusivi e aiutare gli sforzi diplomatici.

 

Dove eravamo rimasti: un anno dopo Glasgow

La Cop26 di Glasgow si era chiusa un anno fa con un documento finale, giunto dopo febbrili negoziazioni e con due giorni di ritardo rispetto all’agenda dei lavori, insoddisfacente da più punti di vista. Un insieme di affermazioni vaghe e impegni procrastinati su tutti i punti nodali: la road map di decarbonizzazione, il ruolo delle fonti fossili, le regole per l’implementazione dell’Accordo di Parigi e la finanza climatica.

 

I temi sul tavolo

I temi sul tavolo delle negoziazioni che impegneranno le delegazioni governative fino al 17 novembre sono dunque gli stessi dell’anno scorso. Valutare, rivedere e (possibilmente) rafforzare gli impegni nazionali di riduzioni delle emissioni affinché siano compatibili con l’obiettivo di contenimento delle temperature entro i +1,5% a fine secolo; aumentare gli stanziamenti per le politiche di adattamento; costituire finalmente il fondo verde per il clima stanziando le risorse necessarie e affrontare il tema del Loss&damage, ovvero come far fronte, attraverso risorse dedicate, alle perdite e ai danni causati dagli impatti climatici nei paesi più vulnerabili.

L’agenda dei lavori prevede poi una serie di giornate tematiche dedicate a finanza, biodiversità, energia, acqua, agricoltura, decarbonizzazione. Restano anche da approfondire e sciogliere altre questioni importanti, come la discussione sul timing per il phase out del carbone, il Global Methan Pledge – mai così attuale, l’iniziativa BOGA (Beyond Oil and Gas Initiative) e l’accordo per fermare la deforestazione.

 

Il contesto internazionale

Rispetto a un anno fa, il contesto internazionale non potrebbe essere più complesso. La guerra in Ucraina, la crisi energetica e il conseguente rilancio degli investimenti dedicati al gas, la recessione economica che interessa molti paesi sono ostacoli ulteriori verso il varo di politiche ambiziose per il taglio delle emissioni climalteranti.

Non è dunque un caso che un anno dopo Glasgow il summit parta all’insegna di assenze eccellenti: i leader di alcuni dei paesi più pesanti in termini di emissioni di gas clima alternati non calcheranno infatti le scene della Cop27. Tra essi il presidente cinese Xi Jinping, primo paese per emissioni con quasi un terzo delle emissioni totali (32,9%), il premier indiano Narendra Modi, attualmente al quarto posto dopo Cina Usa e UE con il 7% e il leader russo Vladimir Putin, che segue al quinto posto con il 5% (qui i dati Edgar). Tre Paesi appena, sui 197 membri della Cop, ma che da soli coprono il 45% delle emissioni globali.

 

L’Egitto, la società civile, i diritti umani

Se è vero che quella egiziana è la prima Cop a svolgersi in Africa dopo il 2016, anno della Cop22 di Marrakech, la scelta ha sollevato perplessità e proteste sulle conseguenze che le politiche del governo egiziano avranno sul ruolo della società civile e degli osservatori internazionali.

Le imponenti misure di sicurezza, la stretta sugli accrediti con l’esclusione delle organizzazioni per i diritti umani, il divieto di manifestare, l’impossibilità di organizzare – come di consueto – un forum di discussione della società civile sono tutti segnali poco incoraggianti. Il rischio è che la società civile sia marginalizzata o peggio criminalizzata.

A ciò va aggiunta la situazione interna al paese. La ong Human Right Watch stima che siano almeno 60.000 i prigionieri politici detenuti nelle carceri. Ha inoltre denunciato, in un recente rapporto, che è in atto da tempo una sistematica repressione operata dalle autorità e dalle forze dell’ordine egiziane contro attivisti e gruppi ambientalisti al fine di impedirne la partecipazione alle giornate di lavori.

In un articolo pubblicato nelle settimane scorse sul Guardian, Naomi Klein ha definito la scelta di celebrare in Egitto la Cop27 come di una operazione di “greenwashing applicato a uno Stato di Polizia”, esortando gli attivisti dei movimenti per la giustizia climatica a boicottare il vertice. “L’Egitto di Al-Sisi ha inscenato un grande show di pannelli fotovoltaici e cannucce biodegradabili, mentre il regime imprigiona gli attivisti e vieta la ricerca. Gli ambientalisti dovrebbero tenersi alla larga da questa operazione”, ha affermato.

Per le stesse ragioni, ha annunciato che non sarà a Sharm el-Sheikh neppure Greta Thunberg, come assenti saranno moltissime organizzazioni e movimenti ecologisti da sempre attivi nell’ambito delle Cop.

 

Gli allarmi della scienza alla vigilia della Cop

Come ogni anno il vertice internazionale apre i battenti all’indomani della pubblicazione di una serie di report scientifici che fanno il punto sulla situazione climatica e che, idealmente, dovrebbero costituire la base per orientare le discussioni dei decisori politici.

• State of the Global Climate Report 2022 (WMO): La WMO, l’Organizzazione Meteorologica Mondiale, ha diffuso oggi in occasione dell’apertura della Cop27 il report “Stato Globale del Clima, 2022”, in cui calcola che gli ultimi otto anni sono stati i più caldi mai registrati nella storia, con le temperature medie dell’anno in corso che hanno segnato un +1,15°C rispetto all’era preindustriale. Alla base c’è il costante e inesorabile aumento della concentrazione dei gas serra in atmosfera, che hanno raggiunto livelli record nel 2021 e stanno continuando a salire anche nel 2022. Di conseguenza, i trend di peggioramento di indicatori climatici come l’innalzamento dei mari e lo scioglimento dei ghiacciai stanno procedendo a ritmi senza precedenti. La settimana scorsa sempre la WMO aveva avvertito, nel report “Stato del Clima in Europa”, realizzato in collaborazione con il sistema Copernicus, che in Europa l’emergenza è ancora maggiore, con temperature aumentate del doppio rispetto alla media globale.

Emission Gap Report (UNEP) – Alla fine di ottobre è stato pubblicato dalla UNEP l’Emission Gap Report 2022. Il dossier lancia l’allarme sull’inadeguatezza degli impegni presi a Glasgow, che ridurrebbero di neanche l’1% le emissioni al 2030, contro un obiettivo minimo di taglio del 45%. Secondo la UNEP, con i target di riduzione attualmente in campo la traiettoria del riscaldamento globale a fine secolo arriverebbe a +2,4 – 2,6°C. Sin dalla scelta del titolo “The closing window, Climate crisis calls for rapid transformation of societies”, gli scienziati sottolineano che la finestra utile per una azione efficace si va chiudendo ogni anno di più, e che senza una rapida trasformazione delle società la traiettoria verso il caos climatico è dietro l’angolo.

Planned New Oil and Gas Investments Could Fully Finance Renewable Scale-Up to Curb Climate Change (IISD) – Il nuovo report dell‘International Institute for Sustainable development, pubblicato il 24 ottobre, ha denunciato l’assoluta incompatibilità con l’obiettivo dell’aumento di 1,5°C dei nuovi investimenti già pianificati in progetti di sfruttamento di petrolio e gas e calcolato che ri-orientare gli ingenti fondi stanziati per le fossili verso le fonti rinnovabili sarebbe sufficiente a rilanciare eolico e solare in misura sufficiente per contenere il riscaldamento globale entro il limite stabilito dall’Accordo di Parigi.

State of Climate Action 2022 (WRI) – Il report del World Resources Institute, in collaborazione con Climate Analytics e Climate Action Tracker, pubblicato anch’esso la scorsa settimana, ha valutato i progressi compiuti nell’azione climatica tramite l’analisi di 40 indicatori, denunciando che “nessuno è sulla buona strada per raggiungere gli obiettivi fissati per il 2030”. Nello specifico, stima il report, si sta andando nella direzione giusta, a velocità comunque promettente ma insufficiente per 6 indicatori, mentre per 21 siamo ben al di sotto della velocità necessaria a centrare gli obiettivi. Altri 5 indicatori mostrano trend contrari alla direzione auspicabile, mentre per i restanti 8 i dati disponibili sono insufficienti a una valutazione.

Ulteriori report sono attesi nei prossimi giorni. Di particolare rilevanza e attualità rispetto alle negoziazioni della Cop è il Report 2022 di Climate Action Tracker, che valuta la sufficienza delle politiche climatiche messe in campo dai singoli paesi, ovvero l’adeguatezza dei singoli NDC. La sua diffusione è stata annunciata per il prossimo 10 novembre.

 

L’Italia alla Cop27

Per quanto riguarda l’Italia, la Cop27 sarà il primo appuntamento internazionale per la neo premier Giorgia Meloni. Arrivata oggi all’International Convention Center di Sharm el-Sheikh assieme al Ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin e accolta dal presidente egiziano Al-Sisi e dal segretario generale delle Nazioni Unite Guterres, Meloni ha annunciato di voler ribadire, nel suo intervento al World Leader Summit, l’impegno dell’Italia per la riduzione delle emissioni nette del 55% al 2030.

Tuttavia il nostro Paese sconta la mancanza di una vera e propria legge sul clima che recepisca e trasformi in politiche nazionali gli obiettivi europei – come ad esempio la Francia e la Germania – ma ha solo un piano strategico, il PiTE, non vincolante dal punto di vista formale.

Tra i primi atti del nuovo governo c’è inoltre l’abolizione del divieto di estrazione offshore entro le 12 miglia marine, nonostante le forze di governo fossero state in prima linea per il sì al referendum abrogativo del 2016 sulle trivellazioni in mare. Una prima misura che conferma l’intenzione, espressa in campagna elettorale e ribadita dalla Presidente del Consiglio nel discorso programmatico di insediamento, di rilanciare la frontiera estrattiva nazionale in nome di una sovranità energetica sbilanciata verso le fonti fossili.

Si tratta di un piano poco razionale da più punti di vista: le riserve di gas italiane sono infatti piuttosto esigue. Si parla di poco meno di 40 miliardi di metri cubi di gas (39,8 mld per l’esattezza, di cui 17 sono riserve off shore); una quantità irrisoria, se si calcola che nel 2021 il fabbisogno di gas nazionale è stato di circa 76 miliardi di metri cubi. Di questi, 3,3 mld (meno del 6%) sono attualmente estratti in Italia e ai quali, sfruttando a regime le nuove riserve nazionali, si prevede di poter aggiungere appena 1,5-2 mld di metri cubi l’anno, a fronte di costi economici (ed ecologici) ingenti per la messa in produzione delle nuove concessioni.

Il vertice è appena iniziato. Di fronte a noi due settimane di lavori ma la strada, non solo per l’Italia, è ancora una volta tutta in salita.

 

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