Perché i cambiamenti climatici non sono democratici
Non è vero che i cambiamenti climatici sono una livella che si abbatte su tutti allo stesso modo. Chi inquina di più quasi sempre non è il primo a essere colpito dalle conseguenze più gravi della crisi climatica.
Sono infatti le fasce di popolazione più svantaggiate, i Paesi meno industrializzati, le comunità più dipendenti dalle risorse naturali, i fragili e gli emarginati, i poveri, i migranti, le donne e i bambini, le prime vittime dei cambiamenti climatici.
Chi sono le vittime dell’ingiustizia climatica
«La società è divisa fra chi con la sua ricchezza può permettersi misure non insignificanti di protezione dalla violenza meteorologica e chi non ha i mezzi per difendersi», sosteneva l’economista Naomi Klein nel suo libro “Una rivoluzione ci salverà”. Non è un caso che i cambiamenti climatici vengano sempre più spesso definiti “moltiplicatori di minacce”.
L’emergenza climatica non è infatti un problema che attiene solo alla scienza, ma una questione con profonde ricadute politiche e sociali: perché amplifica di fatto ingiustizie già presenti nelle società. La capacità di adattamento delle popolazioni ai cambiamenti climatici, infatti, dipende da vari fattori, tra cui il reddito, l’etnia, la classe sociale, il genere e la rappresentanza politica.
Nel caso dell’uragano Katrina che ha colpito gli Stati Uniti nel 2005, per esempio, numerosi studi hanno dimostrato che gli impatti maggiori sono stati subiti dalle popolazioni a basso reddito e dalle minoranze etniche. Chi aveva un’assicurazione è riuscito a riprendersi velocemente dal disastro ambientale, mentre le fasce più deboli della popolazione molto spesso non sono riuscite nemmeno ad ottenere una quota equa di aiuti pubblici.
Nel 2019 il Relatore speciale ONU su povertà estrema Philip Alston ha parlato per la prima volta di “apartheid climatico“, denunciando che le popolazioni più povere saranno le più duramente colpite dal global warming e che sui Paesi in via di sviluppo peserà il 75% dei costi dell’aumento delle temperature, della crisi alimentare legata alla siccità e ai disastri climatici, delle malattie e dei conflitti che deriveranno dagli stravolgimenti climatici, nonostante la metà più povera della popolazione mondiale sia responsabile soltanto del 10% delle emissioni clima alteranti.
“L’emergenza climatica rischia di vanificare 50 anni di progressi nell’eradicazione di infezioni, nella sicurezza alimentare, nello sviluppo economico e nella riduzione della povertà”, ha dichiarato Alston. Per questo è necessario parlare di giustizia climatica; un concetto che lega gli effetti del cambiamento climatico alla giustizia ambientale e sociale.
La storia del termine “giustizia climatica”
La prima volta che il cambiamento climatico viene legato al concetto di “giustizia” nel dibattito internazionale e qualificato come questione di diritti è in occasione della Sesta Conferenza delle Parti dell’ONU sul cambiamento climatico (COP 6) del 2000. Nel frattempo in Olanda si era aperto il Climate Justice Summit, primo incontro internazionale dedicato alla Giustizia climatica promosso da una serie di organizzazioni sociali e network internazionali. Proprio nell’ambito di questo “controvertice” fu formulata la Call for Climate Justice che definì il cambiamento climatico una “questione di diritti”, legando il fenomeno ai principi di equità e giustizia, affermando l’urgenza di costruire alleanze internazionali per vincere la battaglia globale contro l’emergenza climatica.
Nel 2002, a dieci anni di distanza dal Summit della Terra di Rio, le principali organizzazioni ambientaliste internazionali adottano i principi della giustizia climatica in un documento noto come “Bali Principles of Climate Justice“.
Tra i principali punti condivisi:
• le comunità più colpite devono poter partecipare alla creazione delle politiche di contrasto ai cambiamenti climatici;
• è responsabilità dei governi intervenire per fermare l’emergenza climatica così da tutelare i diritti di tutti i cittadini;
• le industrie che estraggono combustibili fossili devono essere ritenute responsabili degli impatti delle emissioni che hanno prodotto e continuano a produrre.
Secondo i Principi della giustizia climatica è dunque responsabilità di chi contribuisce in maniera maggiore al riscaldamento globale intervenire per fermare questa crisi.
Dal 2004 al 2007 si costituiscono vari forum internazionali sulla giustizia climatica che runiscono ONG, associazioni ambientaliste e movimenti popolari. Nel 2009 nasce la Climate Justice Action, un network che propone la disobbedienza civile durante la Conferenza sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite di Copenaghen, sostenendo lo slogan: System change, not climate change (Cambiamento del sistema e non cambiamento climatico).
Una delle principali critiche avanzate da alcuni dei movimenti per la giustizia climatica è infatti la critica al sistema economico capitalista, produttore di disuguaglianze sociali e di sovrapproduzione, ottenute a scapito della salubrità ambientale, della stabilità climatica e del benessere e dei diritti delle persone.
Negli ultimi anni sono stati soprattutto i movimenti di attivismo nati dal basso, come i Fridays For Future, Ende Gelände e Extinction Rebellion, assieme ai movimenti indigeni e rurali e alle organizzazioni di base, a portare avanti le istanze della giustizia climatica all’interno del dibattito ambientalista. Non è un caso che nei nuovi movimenti attivi sul clima ci siano numerosi attivisti delle nuove generazioni: il tema dei diritti delle future generazioni è centrale nelle rivendicazioni di giustizia cliamatica. I giovani non vogliono ricevere in eredità un Pianeta danneggiato da chi ha causato il riscaldamento globale e che non ne pagherà alcun prezzo. Per le giovani generazioni la lotta ai cambiamenti climatici è una questione di sopravvivenza.
Le climate litigation: uno strumento di lotta per la giustizia climatica
Uno degli strumenti più rilevanti emersi negli ultimi anni per sostenere le istanze di giustizia climatica sono i contenziosi climatici o Climate litigations. Si tratta di azioni legali vere e proprie promosse dalla società civile per costringere Stati e imprese a rispondere di fronte a un giudice delle azioni (o inazioni) che hanno impatto clima alterante. Grazie alle Climate litigations “gli inascoltati” che subiscono le conseguenze più gravi del cambiamento climatico possono rivendicare il loro diritto umano al clima stabile e sicuro, a un ambiente salubre, alla vita, alla salute etc., mirando a orientare le politiche climatiche degli Stati. Il ruolo della giustizia climatica è ben spiegato da Mary Robinson, ex Alta Commissaria per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, che afferma: «La giustizia climatica focalizza la nostra attenzione sulle persone, invece che sulle calotte polari e sui gas serra. Penso che questo renda la minaccia del cambiamento climatico più tangibile».
La sfida del secolo (da combattere nel corso di questo decennio, per evitare che sia troppo tardi) è riportare al centro dell’attenzione i diritti e i bisogni delle persone, il bene collettivo anziché quello privato, leggendo finalmente l’emergenza climatica per quello che è: una spada di Damocle che pende sui diritti umani, e che colpisce più gravemente chi già vive in condizioni di vulnerabilità.