Cambiamenti climatici: fallimento collettivo o di pochi?
In questi giorni alla COP si discutono i due rapporti speciali dell’IPCC, il Gruppo Intergovernativo delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, usciti quest’anno, che approfondiscono le conseguenze del riscaldamento globale rispettivamente sugli oceani e la criosfera, e sulla superficie terrestre.
Nel 2019 sono però stati pubblicati anche altri documenti estremamente importanti dal punto di vista delle evidenze scientifiche: facciamo il punto.
Nel lontano 1979, si riunivano a Ginevra esperti e scienziati da tutto il mondo per discutere delle emergenti prove rispetto all’influenza umana sul sistema climatico terrestre e della potenziale pericolosità dell’aumento delle quantità di anidride carbonica in atmosfera. Si raccomandava ai governi di agire per prevedere e prevenire i “potenziali cambiamenti del clima provocati dall’uomo che potrebbero avere conseguenze nocive per il benessere dell’umanità”.
A quarant’anni da quella prima dichiarazione condivisa, continuano a ripetersi le stesse dinamiche, con prove sempre più schiaccianti e gridi d’allarme da parte della comunità scientifica sulla crisi climatica ormai in atto, che cadono nel vuoto della mancanza di volontà e della distrazione delle classi politiche.
Così succede da dieci anni con il Rapporto annuale del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente sul divario delle emissioni di gas serra (UNEP Emissions Gap Report), in cui vengono messi a confronto le traiettorie delle emissioni globali di gas serra future costruite sulla base degli attuali impegni presi dagli Stati con i limiti individuati dalla scienza per evitare gli impatti peggiori dei cambiamenti climatici. Sono dieci anni che, infallibilmente, il rapporto giunge all’amara conclusione che il mondo non sta facendo abbastanza.
Nella prefazione all’edizione del 2019, uscita la settimana scorsa, Inger Andersen, direttrice esecutiva dell’UNEP, parla di un “fallimento collettivo nell’agire subito e con fermezza” per contrastare i cambiamenti climatici, da cui dobbiamo imparare per evitare le conseguenze più nefaste. Ma si tratta davvero della raffigurazione di un fallimento collettivo, o piuttosto delle conseguenze di una ben motivata mancanza di volontà da parte di una certa classe politica e da parte di una forte lobby di multinazionali che non vogliono saperne di abbandonare i combustibili fossili?
Che abbiamo fallito non c’è dubbio: come riportato nell’ultimo bollettino dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale sui Gas Serra (WMO Greenhouse Gas Bulletin 2019), le concentrazioni medie globali di anidride carbonica in atmosfera hanno raggiunto l’anno scorso le 407.8 ppm, valore eguagliato solamente nel periodo che va dai 3 ai 5 milioni di anni fa, quando le temperature erano di 2-3°C più calde di oggi e i mari di 10-20 metri più alti.
E l’intenzione per il futuro sembra quella di continuare ad accumulare fallimenti: nel nuovo rapporto che l’UNEP ha iniziato a pubblicare proprio quest’anno sul divario della produzione (UNEP – The Production Gap) e che ricalca l’impianto degli Emissions Gap Report, si conclude che i governi stanno pianificando per il 2030 di produrre il 50% in più in termini di combustibili fossili rispetto alla quantità che permetterebbe di mantenere l’effetto serra al di sotto dei +2°C rispetto al periodo preindustriale, e il 120% in più rispetto al target degli 1.5°C. Una bella differenza, se si tiene conto da quanto tempo la comunità scientifica continua ad avvertire che l’industria del fossile appartiene ormai a un’altra epoca e deve essere lasciata indietro.
Ultimo in ordine di tempo è l’appello promulgato a inizio novembre da 11.000 scienziati sull’emergenza climatica globale: a chiare lettere, si afferma che è necessario “rimpiazzare i combustibili fossili con fonti di energia rinnovabili a basse emissioni di carbonio, e altre fonti pulite se sicure per le persone e per l’ambiente”. Si ribadisce con forza che “dobbiamo lasciare le riserve di combustibili fossili sotto terra”.
Chi sono allora i responsabili del fallimento che ci troviamo davanti?
Nella mappa elaborata dal Climate Action Tracker e in continuo aggiornamento, la maggior parte dei Paesi continua a essere colorata di arancione, rosso o persino grigio scuro: segno che gli impegni previsti e le politiche climatiche adottate da quello Stato continuano a essere insufficienti per mantenere l’innalzamento delle temperature al di sotto dei 2°C, figuriamoci degli 1.5°C.
Eppure, a ottobre 2018 l’IPCC nel relativo Rapporto Speciale era stato estremamente chiaro sulle conseguenze di un riscaldamento globale di 2°C o oltre: dal drammatico innalzamento del livello dei mari con conseguente sommersione di larghe aree costiere e sfollamento di intere città, all’aumento dell’intensità e frequenza di fenomeni estremi come trombe d’aria, ondate di calore, bombe d’acqua, di cui vediamo già tragicamente gli effetti sul nostro territorio, alla siccità e scarsità idrica che colpirà sempre più aree già tragicamente prive di questa risorsa, fino al fallimento dei sistemi di produzione del cibo e alla perdita generalizzata di ecosistemi e biodiversità.
In questi giorni, gli Stati sono tornati a riunirsi nella 25° Conferenza delle Nazioni Unite sul clima, che dovrebbe servire a evitare tutto questo. Se andrà come negli anni precedenti, le speranze purtroppo restano molto basse.
Leggi il nostro articolo che ripercorre i rapporti sul divario delle emissioni dell’UNEP fino al 2018 qui
Leggi il nostro articolo sul Rapporto Speciale dell’IPCC sul riscaldamento globale di 1.5°C qui