Cambiamenti climatici, questione di giustizia sociale

Le raccomandazioni del Rapporto speciale dell’IPCC

L’IPCC, il gruppo intergovernativo che su mandato delle Nazione Unite studia i cambiamenti climatici, nel nuovo Rapporto, pubblicato lo scorso 8 ottobre, sottolinea che le azioni per contenere il riscaldamento globale riguardano non solo il clima ma anche la riduzione della povertà nel mondo e lo sviluppo sostenibile.

Già dal titolo, alquanto esplicativo: “Riscaldamento globale di 1,5°C, un rapporto speciale dell’IPCC sugli impatti del riscaldamento globale di 1,5°C rispetto ai livelli del periodo pre-industriale e i relativi percorsi di emissioni di gas serra, in un contesto mirato a rafforzare la risposta globale alla minaccia dei cambiamenti climatici, allo sviluppo sostenibile, e agli sforzi per sconfiggere la povertà”, viene evidenziato il nesso troppo spesso sottovalutato tra cambiamenti climatici e giustizia sociale. Il dossier si presenta come una sorta di manuale, consegnato ai decisori politici, con le “istruzioni” per preservare il nostro Pianeta e tutelare tutti coloro che lo abitano. Gli scienziati hanno sottolineato al riguardo l’importanza di contenere l’aumento della temperatura globale al di sotto di 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, se vogliamo evitare la catastrofe, ed hanno mostrato i rischi derivati dall’aumento della temperatura di 2°C. Mezzo grado in più si traduce in aumento del livello dei mari di 10 centimetri, vale a dire cambiare radicalmente la vita di milioni di persone che vivono lungo le coste. Processi più rapidi di acidificazione degli oceani, con conseguenze molto gravi per gli ecosistemi marini. Scomparsa della barriera corallina e rischio per il Mar Glaciale Artico di restare ogni 10 anni senza ghiaccio marino nella stagione estiva. Inoltre, estati sempre più calde ed eventi climatici estremi più frequenti porterebbero ingenti danni alle produzioni agricole, in particolare dei cereali, principale fonte di sostentamento per milioni di persone. Al riguardo va sottolineato che i cambiamenti climatici stanno già influenzando le produzioni agricole, in particolare di mais, grano e riso. E’ evidente che se vogliamo raggiungere l’obiettivo di cancellare la fame nel mondo e sradicare la povertà estrema entro il 2030 (come indicato dall’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite) è necessario cominciare seriamente a rafforzare la capacità di adattamento ai cambiamenti climatici dei sistemi agricoli e dei mezzi di sussistenza delle comunità più fragili.

Come ricordato anche dall’IPCC gli effetti del clima che cambia sono già tangibili, principalmente nei Paesi in via di sviluppo, più fragili e vulnerabili dal punto di vista ambientale, politico, sociale ed economico. In queste realtà gli effetti dei cambiamenti climatici significano: periodi di siccità che si trasformarono in guerre (pensiamo al caso della Siria), centinaia di vittime a causa delle alluvioni, è il caso del Kerala (India) dove nel mese di agosto si sono contati circa 400 morti e oltre 1 milione di sfollati, impossibilità di andare a scuola in molti villaggi dell’Africa, soprattutto per le ragazze che oltre a prendersi cura della casa, devono curare i raccolti e procurarsi l’acqua, che molte volte si trova anche a ore di cammino dai villaggi.

Alla luce degli scenari prospettati dagli scienziati, Amnesty International ha dichiarato che l’incapacità di agire rapidamente sui cambiamenti climatici rischia di esacerbare le violazioni dei diritti umani. Inoltre, come la stessa Amnesty ha sottolineato, i governi devono fare attenzione alle misure di mitigazione dei cambiamenti climatici che intendono adottare, in quanto le tecnologie attualmente disponibili per la rimozione del carbonio quasi certamente avranno (o meglio già hanno) i loro impatti negativi sui diritti umani. La produzione di biocarburanti ha già posto diversi interrogativi sulla loro sostenibilità ambientale (capacità di garantire la riduzione delle emissioni di gas serra) e sociale, in particolare per quelli di prima generazione, vale a dire i combustibili ricavati dalle materie prime agricole alimentari, per l’impatto che hanno nei Paesi più poveri sulla sicurezza alimentare, l’accesso alla terra e alle risorse naturali come l’acqua.

Paesi che strizzano l’occhio all’industria mineraria a svantaggio dell’ambiente e dei diritti delle persone

L’IPCC avverte che per scongiurare gli scenari più catastrofici sono richiesti cambiamenti rapidi e senza precedenti in tutti gli aspetti della società, con l’obiettivo di arrivare entro il 2050 ad azzerare le emissioni di CO2 derivate dalla attività antropiche. Ciò porterebbe benefici per le persone e per gli ecosistemi naturali e potrebbe guidarci verso una società più sostenibile ed equa. Non tutti i Paesi però concordano nell’avviare un rapido processo di decarbonizzare dell’economia. Così, l’America di Trump, che da tempo ha annunciato di volersi sfilare dall’Accordo di Parigi e che continua ad appoggiare le compagnie dei combustibili fossili, sembra trovare nuovi alleati nel panorama internazionale. Cattive notizie per il clima arrivano dal governo conservatore australiano che conferma il suo negazionismo climatico e respinge le raccomandazioni degli scienziati di chiudere entro la metà del secolo tutte le centrali a carbone. Il primo ministro, Scott Morrison, continua a sostenere l’industria mineraria rifiutando l’idea di abbandonare il carbone dal quale dipende fortemente l’economia dell’Australia. Il Paese si colloca tra i primi esportatori al mondo di questo combustibile fossile. La posizione del governo australiano fa tremare in primis le Piccole isole del Pacifico, come Kiribati, che stanno già rischiando di finire sottacqua a causa dell’innalzamento del livello degli oceani. Queste nazioni si stanno già muovendo per trovare delle soluzioni per la messa in sicurezza dei loro abitanti, attraverso piani di evacuazione in zone più sicure, accordi bilaterali con i Paesi confinanti, ancora, portando al centro dei dibattiti delle Nazioni Unite (come la COP23, presieduta dalla Isole Fiji) la questione del cambiamento climatico e delle sue conseguenze sulle popolazioni più vulnerabili del Pianeta. Il carbone sembra trovare spazio anche nell’economia cinese. L’indagine svolta dall’organizzazione ambientalista CoalSwarm pare provare che in Cina è in corso la costruzione di ben 259 gigawatt di centrali a carbone, che equivalgono a un incremento annuo del 25% delle emissioni. Intanto, la Cina, secondo il Global Report on Internal Displacement, è stata nel 2017 tra i Paesi maggiormente colpiti dai disastri naturali e ha contato circa 7,5 milioni di sfollati interni per cause ambientali. Tra i primi 4 Paesi più colpiti si sono posizionati gli Stati Uniti, a conferma del fatto che nessun oggi è al sicuro, nemmeno i Paesi a capitalismo avanzato. L’allarme degli scienziati è ignorato anche dall’Arabia Saudita, che ha accolto con scetticismo i risultati del Rapporto dell’IPCC, e dalla Polonia che non manda segnali di politiche energetiche carbon free. Tutt’altro, proprio lo scorso anno nella centrale di Kozienice è stata inaugurata l’unità a carbone più grande del continente europeo. Il governo polacco continua a sovvenzionare l’industria del carbone incurante dei danni all’ambiente ma anche del fatto che la combustione del carbone uccide ogni anno (silenziosamente) circa 20.000 persone in Europa. Non da ultimo, l’attenzione in questi giorni è rivolta alle elezioni presidenziali in Brasile, dove si intravede la possibile vittoria del candidato di estrema destra Jair Bolsonaro, nemico dell’ambiente e della democrazia. Il suo programma prevede tra le altre cose la chiusura del ministero dell’ambiente, l’uscita dall’Accordo di Parigi e la costruzione di un’autostrada che dovrà dividere in due la foresta amazzonica, dimora ancestrale delle comunità indigene e polmone verde del mondo.

Prossimi appuntamenti internazionali per coniugare la lotta ai cambiamenti climatici con la giustizia sociale

Nel mese di dicembre ci saranno due importanti occasioni per portare all’attenzione dei decisori politici il legame tra cambiamenti climatici, giustizia sociale e diritti umani. Il primo appuntamento è il summit globale sul clima (COP24), fissato dal 3 al 14 dicembre a Katowice, in Polonia. In questa occasione la società civile dovrà fare pressione sui governi affinché nelle linee guida per l’implementazione dell’Accordo di Parigi venga presa in considerazione la dimensione sociale dell’azione per il clima. In Polonia si dovranno anche rivedere gli impegni presi da ciascun Paese, che al momento non sono sufficienti per raggiungere gli obiettivi fissati a Parigi. Il secondo appuntamento in programma nei giorni 10 e 11 dicembre, a Marrakech, vede sul tavolo dei negoziati l’approvazione dell’accordo (Global compact), non vincolante, sulle migrazioni internazionali, che definisce principi e impegni condivisi dalla comunità internazionale per consentire agli Stati di rispondere alle sfide e alle opportunità della migrazione contemporanea, con riferimenti anche ai flussi migratori indotti da fattori ambientali e climatici. In entrambi gli appuntamenti, bisogna andare oltre i consueti proclami e non sottovalutare la sfida di tradurre la politica globale in pratiche nazionali e regionali, soprattutto quando si tratta di mettere in discussione e rivoluzionare l’attuale modello di sviluppo vorace ed iniquo.

 

PER APPROFONDIRE:

Negoziati sul clima e diritti umani – aggiornamenti da Bangkok
Global compact for migration
Conflitti e shock climatici aggravano l’insicurezza alimentare in molti paesi

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