Calenzano: petrolio e gas come strumenti di ricatto
Di Irene De Marco
La strage di Calenzano, con il suo tragico bilancio di 5 morti e 9 feriti, ci obbliga a guardare in faccia una realtà inaccettabile: le morti sul lavoro e la devastazione ambientale sono due facce di uno stesso sistema, che come un incendio fuori controllo, continua a divorare vite e territori. Morte, rischio, devastazione: sono il prezzo che l’economia fossile esige per continuare a esistere. Una realtà in cui le prime vittime sono sempre le lavoratrici, i lavoratori e le comunità più vulnerabili.
In Italia, siamo circondati da queste zone di sacrificio: impianti industriali, raffinerie, oleodotti, depositi di combustibile, rigassificatori. In molte di queste zone come Gela o la Val D’Agri il ruolo della politica industriale di Eni è evidente. Comitati, associazioni e movimenti si sono spesso opposti con proteste, o con ricorsi giudiziari, ma è indubbiamente difficile fermare le scelte di una multinazionale posseduta al 30% dal Ministero del Tesoro.
Luoghi come Calenzano, che sembrano lontani dalle nostre vite quotidiane, sono il cuore pulsante di un’economia che non si ferma nemmeno di fronte al rischio di morte. Per chi ci lavora e per chi vive nelle vicinanze, la presenza di queste strutture è una condanna quotidiana. Un’aria carica di veleni, un rischio costante che accompagna ogni passo, ogni giornata. Il petrolio e il gas non sono risorse naturali, ma strumenti di ricatto: il salario come catena per accettare l’insicurezza, l’inquinamento, la possibilità di morire sul posto di lavoro.
Quello in cui è avvenuta la strage di Calenzano è un sistema che continua a proteggere gli interessi dei colossi fossili, mentre chi lavora in questi impianti paga il prezzo più alto, con la propria vita e la propria salute.
L’economia fossile non è solo un modello economico insostenibile, è anche una cultura della morte sul lavoro, dove la sicurezza non è mai garantita. Perché la sicurezza, in un sistema che fa del profitto la sua unica misura di valore, è sempre relativa, è sempre precaria, subordinata ai profitti e ai ritmi produttivi. Non è una fatalità quello che è successo ieri: è il risultato di un sistema che considera le vite come meri costi da abbattere, quando necessario, in nome del profitto. Le grandi multinazionali fossili non solo devastano il pianeta provocando l’emergenza climatica e mettendo in pericolo la vita delle persone. Fanno questo con la protezione di leggi che tutelano i loro interessi economici, non la sicurezza e il benessere di chi ci lavora.
Non basta piangere i morti. È urgente avviare un’indagine seria su tutte le responsabilità, non solo a Calenzano ma in ogni impianto a rischio del Paese. Bisogna rivedere e applicare normative che proteggano le vite, garantendo diritti, sicurezza e dignità alle lavoratrici e ai lavoratori. Ma serve anche di più: una trasformazione radicale.
Ricordiamo che quanto accaduto avviene nel quadro di un governo negazionista climatico, che non finge neppure, come facevano i precedenti, di voler superare l’economia fossile. A Baku durante la COP29 la premier ha detto che la natura va difesa mettendo al centro l’uomo e senza ideologie. Dietro la miseria di una frase del genere si nasconde la cinica realtà: l’unica cosa che governo e sistema capitalista vogliono mettere al centro è il profitto. I profitti delle multinazionali del fossile sono ancora oggi forza trainante dell’economia mondiale nonostante il collasso climatico che stanno provocando.
Per questo non possiamo più permetterci di separare la lotta per la giustizia ambientale e climatica da quella per la giustizia sociale e lavorativa. Non possiamo parlare di transizione ecologica senza affrontare le disuguaglianze che le politiche industriali fossili hanno creato. Non possiamo continuare a ignorare che le lavoratrici e i lavoratori delle industrie fossili sono le prime vittime di un sistema che li sfrutta e li espone a rischi mortali. La trasformazione deve essere ecologica, sì, ma deve anche essere sociale: deve mettere al centro le persone, garantire la sicurezza sul lavoro, combattere l’inquinamento e proteggere le vite.
“A maggior ragione, con maggior forza. Riprendersi la vita in questa piana, prima che ci prenda la morte. Parlateci ora di decreti sicurezza, mentre ci attanaglia l’insicurezza globale” così ha scritto ieri il collettivo di fabbrica di GKN, che si trova a poche centinaia di metri dal luogo del disastro.
Il disastro di Calenzano deve essere un campanello d’allarme. Non possiamo più aspettare che le fiamme si domino da sole. È tempo di cambiare radicalmente: di smantellare un sistema industriale che inquina, uccide e sfrutta. È tempo di unire le lotte.