AtlanteFest: il nostro editoriale su climate change e giustizia climatica

Atlante Fest – Mappe, saperi, strumenti per le ecologie di domani è stata l’occasione per poter parlare di una tematica attorno a cui ruota molto del lavoro di A Sud e il CDCA.

Il clima, i suoi cambiamenti e le battaglie per la sua tutela sono alla base di un lavoro che non si è limitato a studiarne i mutamenti evidenti, ma ha provato a comprendere le cause e soprattutto le responsabilità. In questi anni abbiamo ragionato sul climate change, posizionandolo oltre la semantica, e dunque come un fenomeno meteorologico, naturale e meramente ambientale, frutto di un’azione indeterminata dell’uomo.
Il cambiamento climatico è il prodotto del capitalismo, il sistema dominante che ha accolto al suo interno quello degli idrocarburi e ci ha costituito l’intero impianto economico, riversando il prodotto finale nell’aria che respiriamo. Dal periodo dell’industrializzazione in poi, gli idrocarburi hanno costituito la fonte di energia primaria, di fatto aumentando le emissioni di gas serra nell’aria e contribuendo in maniera sistematica, con il passare degli anni, al cambiamento climatico in atto.

Negli anni Ottanta il biologo Eugene F. Stoermer e, successivamente, nel 2000 il Premio Nobel per la chimica Paul Crutzen, hanno coniato il termine Antropocene per definire l’era geologica a cui apparteniamo, quella in cui all’uomo e alle sue attività sono attribuite le responsabilità dei cambiamenti ambientali e climatici del pianeta. Responsabilità che coinvolgono i settori economici, i potenti, i governi e che generano ulteriori ingiustizie: è compromessa la sovranità alimentare, la distribuzione degli habitat con intere popolazioni che sono costrette a migrare perchè i loro paesi sono diventati invivibili, come è ben spiegato in uno dei nostri dossier “Crisi ambientali e migrazioni forzate”.
Chi inquina non paga, chi governa non agisce, i più vulnerabili sono i primi ad essere colpiti e le prossime generazioni pagheranno il prezzo più alto di tutto questo immobilismo politico.

Di fronte a questo atteggiamento ostile e passivo dei potenti risponde, con ogni mezzo possibile, la società civile: le dimensioni di ingiustizia del cambiamento climatico sono quelle che muovono le loro battaglie, provando ad abbinare intelligenza scientifica, sociale e politica e a generare soluzioni alternative. Le ingiustizie che il climate change genera, al di là della questione climatica, hanno bisogno di essere messe in evidenza perché aiutano ad affrontare le questioni dalla radice e a dare delle soluzioni adeguate e giuste.

Il cambiamento climatico in Italia: vulnerabilità ed emissioni

Qualche dato sul nostro paese ci aiuterà a comprendere meglio quanto il cambiamento climatico in atto sia reale e ci coinvolga da molto vicino.

Il 2018 per l’Italia è stato l’anno più caldo dal 1800. Tra i 30 anni più caldi dal 1800 ad oggi, 25 sono successivi al 1990.

A livello di emissioni, l’Italia è al quarto posto per emissioni di gas serra nel quadro europeo, dopo Germania, UK e Francia.Tra il 2012 e il 2014 c’è stato un abbassamento rapido, fino alla stabilizzazione di 430 milioni di tonnellate di Co2 emessi nell’aria; nel 2016 ne abbiamo emessi 428, complici i settori energetici e quello dei trasporti.

La risposta politica italiana a questi dati che non infondono sicuramente speranza si chiama “Sblocca Italia”, che vede l’espansione della frontiera estrattiva sia offshore che onshore: la ricerca di idrocarburi e il conseguente stoccaggio diventa un’operazione di interesse strategico, nonché “di pubblica utilità”. Inoltre, non conforme alle nuove direttive europee, il decreto prevede anche il potenziamento dell’incenerimento, con l’implementazione di dodici inceneritori in otto progetti.

Ancora una volta, inoltre, il discorso sulla questione energetica è stato centralizzato sul governo nazionale e non più demandato alle regioni, limitandone di fatto i poteri decisionali.

Le politiche “anticlima” portate avanti dal governo italiano non prevedono il blocco reale di nuove trivellazioni o dei siti di stoccaggio di idrocarburi; persiste anche il silenzio su leggi specifiche riguardo al clima, con dei target di riduzioni delle emissioni generali per una concreta lotta ai cambiamenti climatici.

Nonostante i discorsi propositivi del Ministro dell’Ambiente Sergio Costa, pronunciati durante l’annuale appuntamento della COP quest’anno a Katowice, siamo ben lontani da soluzioni e, soprattutto, la scarsa volontà politica si traduce nell’elaborazione di documenti che, non validati da decreto, non hanno valenza.

E’ il caso delle politiche di adattamento nazionali nel contesto EU: esiste una strategia di adattamento che avrebbe dovuto portare ad un piano nel 2016, cosa che non è avvenuta totalmente. C’è anche la SEN, la Strategia Energetica Nazionale, il PNIEC, Piano Nazionale Integrato per Energia e Clima, che attualmente è solo una proposta da trasformare in azioni politiche concrete.

Una falla le accomuna: nessuno dei due documenti parla di una diminuzione dell’estrazione di idrocarburi, tantomeno di un taglio ai sussidi (climate action network riporta 15 miliardi di sussidi diretti e indiretti in Italia nel 2016).

Una confusione che si traduce anche in differenti obiettivi posti dall’Unione Europea e dall’Italia: mentre l’IPCC si è espressa sulle riduzioni globali, che devono essere per gli stati mondiali del 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2010, lo scenario SEN si esprime in maniera differente (del circa 35% entro il 2030). Inoltre, c’è una seria incomprensione sul termine decarbonizzazione: mentre in tutta Europa quando si parla di “decarbonizzazione” si intende la riduzione del rapporto carbonio-idrogeno nelle fonti di energia, in Italia si è messo in atto una “decarbonizzazione alla buona”, basata sostanzialmente sulla progressiva riduzione delle emissioni di anidride carbonica: il piano per il clima italiano prevede infatti l’utilizzo alternativo di gas naturale, senza tener conto del profondo intervento climalterante dello stesso metano che, pur permanendo in atmosfera in misura e tempo minore della CO2, contribuisce maggiormente e più rapidamente ai cambiamenti climatici.

Non a caso, tra i progetti “strategici” per lo sviluppo, in Italia, ci sono la Tap e le HUB di gas in Abruzzo. L’ennesima occasione sprecata per provare a indirizzare la nostra penisola verso una seria riconversione verso le rinnovabili, che sarebbero decisamente più a misura di comunità rispetto al gas.

Azioni dal basso

In questo contesto desolante per il nostro paese, i movimenti, le comunità e gli attivisti sono in una fase di profonda ripresa di parola: la società civile ha deciso di scendere in campo per provare a dettare soluzioni alternative per la lotta al cambiamento climatico. Una nota positiva e fondamentale non solo per rafforzare la visibilità del problema ma per fare pressione su Stati e imprese per attivarsi.

Le azioni sono diverse tra loro e transgenerazionali

Ci sono da un lato le climate litigation, attuate in 24 paesi del mondo, in cui cittadini portano in tribunale imprese e governi, con l’accusa di non essere efficaci nella salvaguardia del clima e per chiedere loro giustizia climatica, per i danni all’ambiente e soprattutto, alla salute.
Nell’ultimo anno abbiamo assistito inoltre a un’accelerazione di coordinamento di azioni molto positiva, che ha riportato la gente nelle piazze a manifestare, con strumenti diversi e in situazioni molto diverse.

La Francia quest’anno ha visto una grande coalizione tra organizzazioni, da cui sono nate numerose iniziative che hanno mobilitato più di due milioni di persone per sostenere “L’affaire du siecle”, la climate litigation tutta francese che vede i cittadini schierarsi contro lo Stato per l’immobilismo di fronte ai cambiamenti climatici.

Si pensi anche al movimento FridayForFuture, cominciato dall’attivista svedese Greta Thunberg, di sedici anni: il suo sit in ogni venerdì al parlamento svedese, per interrogare i decisori politici sulle effettive azioni per fronteggiare il climate change, è diventato in poco tempo un movimento globale che ha raccolto milioni di giovani, per i quali i cambiamenti climatici rappresentano una minaccia concreta per il futuro: è la generazione che erediterà un Pianeta distrutto a mobilitarsi per salvarlo.

Anche noi, attraverso il nostro lavoro di ricerca e di azione, abbiamo provato a spingere verso azioni comuni, attraverso il Decologo e le campagne Clim’ACT e CLIMATE CHANGING ME, e non possiamo che essere felici del movimento globale odierno verso una delle tematiche su cui, da sempre, il nostro lavoro si fonda.

Sperando che queste azioni, con l’imponente manifestazione del FridayForFuture del 15 marzo che ha visto una presenza importante di italiani in piazza, del 23 marzo, con la marcia per il clima, contro la devastazione ambientale e le grandi opere inutili, possano essere l’inizio di una serie di percorsi più incisivi, che possano creare maggiore coscienza nel paese e più pressioni sulle istituzioni.

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