Acqua e migrazioni
La risposta è nella natura
“Nature for water” è il tema scelto quest’anno dalle Nazioni Unite per la Giornata Mondiale dell’acqua, celebrata il 22 marzo con l’obiettivo di richiamare l’attenzione sull’importanza di valorizzare e proteggere le risorse idriche.
La “Natura per l’acqua” apre una riflessione sulla necessità di cercare le soluzioni offerte dalla natura stessa per ridurre le inondazioni, la siccità, l’inquinamento delle risorse idriche. La riforestazione, la difesa del corso dei fiumi, il ripristino delle zone umide possono in tal senso servire per riequilibrare il ciclo naturale dell’acqua e migliorare la salute umana e i mezzi di sostentamento. Alla domanda “di quanta acqua di qualità disponiamo oggi”, la risposta è “secca”: poca e distribuita in modo non equo. Eppure l’acqua è fonte di vita per tutti gli esseri viventi, riconosciuta (solo) nel 2010 come un diritto fondamentale dalle Nazioni Unite. I Paesi maggiormente in sofferenza sono soprattutto quelli del Sud del mondo, in quanto più vulnerabili dal punto di vista ambientale e caratterizzati da un quadro politico ed economico molto fragile. In questi Paesi migliaia di persone sono costrette oggi ad abbandonare le proprie terre perché rese inospitali proprio dall’acqua, che in alcuni casi si traduce in siccità o piogge scarse (pensiamo all’area del Sahel) in altri invece diventa una forza distruttrice che si manifesta sotto forma di alluvioni, inondazioni, tempeste in grado di distruggere villaggi e spazzare via interi raccolti (è il caso ad esempio dell’Asia meridionale).
Da una lettura dei dati forniti dal recente rapporto “Progress on drinking water, sanitation and hygiene: 2017 update and Sustainable Development Goal baselines”, pubblicato congiuntamente dall’OMS e dall’Unicef, emerge che il 30% della popolazione mondiale non ha acqua potabile mentre il 60% non dispone di servizi igienici adeguati. Lo studio, inoltre, sottolinea proprio la sostanziale disparità tra i Paesi più poveri e quelli più ricchi, che si accentua ancora di più tra le aree urbane e le zone rurali. Pensiamo ad esempio che in molti villaggi rurali dell’Africa subsahariana è necessario percorre anche più di un’ora di cammino per raggiungere una fonte d’acqua potabile. In tali contesti le donne sono le prime ad essere penalizzate per il ruolo che hanno come custodi della casa e della famiglia e per il lavoro che svolgono nei campi. Attività queste che sono strettamente legate al reperimento dell’acqua e che con gli effetti sempre più pressanti del cambiamento climatico, come la siccità o in alcuni casi le alluvioni, stanno rendendo tutto molto più difficile. Di recente il Parlamento europeo ha portato l’attenzione proprio su questo con un’apposita risoluzione “Donne, le pari opportunità e la giustizia climatica” (gennaio 2018), che evidenzia quanto le donne subiscano in maggior misura gli impatti del cambiamento climatico richiedendo per questo un maggiore impegno nel considerare le questioni di genere nello sviluppo di politiche legate al clima. Nel documento si richiama anche la necessità di aprire una discussione sull’adozione di una disposizione sulla migrazione climatica.
Ulteriori dati raccontano di almeno 1,8 miliardi di persone che utilizzano fonti di acqua contaminate da escrementi, mentre circa l’80% delle acque reflue (o di scarico) al mondo viene disperso nell’ambiente anziché essere depurate. A questo va aggiunto che, secondo le stime, entro il 2050 il nostro Pianeta sarà abitato da oltre 9 miliardi di persone, ciò significa un notevole aumento della domanda di acqua dolce e della popolazione sottoposta a situazioni di “stress idrico”.
Tutto questo non può essere considerato un’emergenza ma è l’insieme di diversi addendi che nel corso del tempo si sono sommati: lo sfruttamento delle risorse idriche legato a diverse attività umane, come ad esempio l’industria della carne e l’agricoltura intensiva che richiedono grosse quantità d’acqua, la carenza di adeguate infrastrutture e la mancanza di investimenti nel settore idrico, le privatizzazioni, l’assenza in molti casi di sistemi di gestione sostenibile dell’acqua. Un quadro questo acuito dagli effetti del cambiamento climatico con i quali sempre più spesso ci troviamo a fare i conti. Se è vero che la crisi idrica colpisce maggiormente l’Africa settentrionale e sub-sahariana, l’area del Medio Oriente e gran parte dell’Asia centrale e meridionale, oggi la scarsità di risorse idriche riguarda anche i Paesi industrializzati, pensiamo alla California, alla Spagna ma anche al Sud Italia.
La crisi idrica si configura tra i maggiori rischi alla base di conflitti e movimenti migratori. Le migrazioni oggi possono sempre di più essere spiegate in termini di scarsità, accesso e gestione dell’acqua, che in molti casi sfociano in conflitti per il controllo delle risorse idriche, come evidenziato nel recente Rapporto della FAO “Water stress and human migration: a global, georeferenced review of empirical research” (2018). Se durante il secolo scorso tante guerre sono state combattute per l’accaparramento del petrolio, pensiamo all’Iraq e all’Afghanistan, oggi la nuova frontiera è l’oro blu, cioè l’acqua. In futuro sentiremo difatti sempre più spesso parlare di water grabbing, ossia di accaparramento illegittimo delle risorse idriche da parte di attori politici (Stati, autorità) o economici (come le multinazionali dell’agribusiness) che prendono il controllo di laghi, fiumi, mari, sottraendoli alle comunità locali o a intere nazioni. L’appropriazione passa attraverso diverse forme – costruzione di dighe, deviazione dei corsi dei fiumi, privatizzazione dei canali di distribuzione – e in molti casi si traduce in una vera e propria occupazione militare del territorio. Tutto questo porta a una drastica riduzione delle riserve d’acqua a disposizione delle comunità di agricoltori e pescatori, alla distruzione di economie tradizionali ma anche di credenze e culture. I fiumi ad esempio per molte comunità indigene sono sacri, è il caso del Rio Gualcarque, in Honduras, considerato sacro per il popolo Lenca. I conflitti scoppiati per l’acqua non sono però sempre facilmente riconoscibili in quanto, come in molti altri casi, sono mascherati da contrasti etnici, religiosi o sociali. Attualmente focolai di tensione sono riconoscibili intorno a fiumi interstatali, come il Nilo (riserva idrica per molti Paesi africani), l’Indo in Pakistan (i cui affluenti nascono in India), il Tigri e l’Eufrate, da cui dipendono Siria e Iraq, che si trova sotto il controllo della Turchia, il Mekong in Asia che bagna ben sei stati (Cina, Myanmar, Thailandia, Cambogia, Laos e Vietnam). Storico è invece il contenzioso tra Israele e Palestina per la gestione delle risorse idriche. Solo nel 2014 trentasette focolai di tensione conclamati sono scaturiti dalla gestione delle risorse idriche, un dato impressionante che evidenzia il carattere strategico dell’acqua e la necessità di trovare accordi di cooperazione per una gestione consensuale di questa risorsa vitale per la sopravvivenza del genere umano. Le soluzioni da privilegiare per la salvaguardia delle risorse idriche e dei diritti delle comunità locali devono guardare alla costruzione di strumenti giuridici internazionali che contengano al loro interno il riconoscimento di diritti per l’acqua e bandiscano la sua mercificazione.