La pandemia è il nostro cigno nero o un avvertimento?

covid 19

La crisi sanitaria ha portato allo scoperto una serie di fragilità e di debolezze intrinseche delle nostre società e dell’attuale modello economico.

La pandemia di COVID-19 è il cigno nero per le nostre società ed economie, l’evento altamente improbabile e con effetti devastanti di cui parlava Nassim Nicholas Taleb dal quale ci siamo fatti trovare impreparati, oppure è solamente un avvertimento rispetto alla tipologia di sfide e di crisi che ci riserva il futuro?
La crisi sanitaria ha portato allo scoperto una serie di fragilità e di debolezze intrinseche delle nostre società e dell’attuale modello economico. Le fasce di popolazione più povere e vulnerabili, quelle che non hanno accesso a cure mediche adeguate, ai dispositivi di protezione, e che non possono permettersi di mettere in atto le misure di distanziamento raccomandate e di rimanere in casa, sono quelle maggiormente esposte al contagio.

In risposta, la politica ha dichiarato guerra al virus: nel corso di questi due mesi, nel lessico utilizzato a livello istituzionale e ripreso sempre di più da parte dei mezzi di comunicazione di massa, si è fatto ampio ricorso all’utilizzo di terminologia e di paragoni di origine bellica, facendo leva su un sentimento patriottico di unità nazionale per affrontare il nemico che ci troviamo di fronte. Questa strategia non è nuova, e ha il doppio effetto di creare un clima diffuso di insicurezza e di paura in cui ogni giorno si identifica un nuovo capro espiatorio a cui attribuire la responsabilità della diffusione del virus, e di promuovere la propensione dei cittadini a riporre la propria fiducia nell’operato politico e accettare imposizioni anche restrittive delle proprie libertà personali sospendendo il giudizio e le critiche. Un fattore chiave è proprio la retorica secondo la quale siamo tutti uguali davanti al virus, nonostante sia evidente come non sia così, e come le disuguaglianze nelle condizioni economiche, abitative, familiari, di accesso alla sanità e molti altri fattori abbiano un ruolo pesante nel determinare come si vive, e si muore, durante la pandemia.

Come sottolineato da Arthur Wyns, ricercatore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, tutti gli shock in campo sanitario e umanitario colpiscono sproporzionatamente le fasce più vulnerabili della popolazione e peggiorano le condizioni di povertà già esistenti: lo stesso succede anche per le conseguenze dei cambiamenti climatici. In un rapporto elaborato dal Dipartimento per gli Affari Economici e Sociali delle Nazioni Unite si individuano tre principali aspetti per i quali i cambiamenti climatici aggravano le disuguaglianze: la maggiore esposizione dei gruppi svantaggiati agli impatti negativi, la maggiore suscettibilità al danno climatico, e la diminuzione della resilienza e della capacità di fare fronte ai danni subiti.

Eppure, la crisi climatica, così come qualsiasi altra questione che non riguardi la pandemia, è scomparsa dal dibattito istituzionale e dai giornali. Oltre alle immagini dei cigni che nuotano tra i canali di Venezia, delle città indiane finalmente libere dallo smog con le nevi dell’Himalaya che tornano visibili nel paesaggio, e dei cervi che si aggirano nell’antica capitale giapponese di Nara, poco si è sentito parlare, nella comunicazione mediatica, di riscaldamento globale, se non per qualche commento sui presunti effetti positivi che avrebbe la chiusura (parziale) delle attività produttive in questo periodo sulle emissioni di gas serra.

La reale portata dell’impatto della pandemia sul sistema climatico è stato oggetto di diversi studi: dall’analisi effettuata dal think thank londinese Carbon Brief, che stima che nel 2020 le emissioni di anidride carbonica diminuiranno di circa il 5.5% rispetto allo scorso anno, a quella degli esperti del Climate Action Tracker, che indicano per il 2020 un range tra il 4 e l’11% e per il 2021 tra l’1 e il 9%, a seconda della velocità e delle modalità della ripresa economica. In qualsiasi caso, già nel 2018 l’IPCC (il Gruppo Intergovernativo delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici) avvertiva nel proprio Rapporto Speciale (che avrebbe dovuto guidare la governance climatica e che ha formato invece la base delle rivendicazioni dei movimenti per il clima) che, per evitare le conseguenze più disastrose del riscaldamento globale mantenendo il riscaldamento delle temperature entro la soglia limite di +1,5°C rispetto al periodo preindustriale, le emissioni dovrebbero calare di circa il 7,6% ogni anno fino al 2030, e in maniera ancora più drastica nel periodo successivo fino al 2050.

Rovesciamo per un attimo la prospettiva: nonostante il lockdown globale causato dalla pandemia di coronavirus, nel 2020 emetteremo ancora circa il 90-95% delle emissioni di anidride carbonica dello scorso anno! Nel frattempo, i valori della concentrazione atmosferica di gas serra, che forniscono la misura dello stato del nostro clima e da cui dipende l’innalzamento delle temperature globali, continuano a crescere, e il 2020 ha già ottime probabilità di battere ogni record di temperatura. Secondo il commento di Gavin Schmidt, climatologo e direttore del Goddard Institute for Space Studies della NASA, il problema è che ci si concentra troppo sull’impronta climatica individuale, e non sulle questioni strutturali che sono alla radice dell’aumento delle emissioni.

La crisi climatica così come la pandemia di coronavirus mettono in realtà in luce le grandi debolezze del nostro sistema. L’economia, per riprendere il concetto di embeddedness sviluppato da Karl Polanyi, prima della rivoluzione industriale era integrata nella società e aveva come obiettivo il benessere: non si basava solo sul mero profitto, ma anche su principi di redistribuzione e sui rapporti di reciprocità, in totale contrasto con l’impostazione mondiale odierna, basata sul neoliberismo e sul capitalismo. Il potere politico ha perso sempre di più la sua funzione equilibratrice tra forze contrastanti e la capacità di perseguire il bene comune nel momento in cui ha subordinato il proprio operato all’interesse economico.

Questa condizione si è talmente radicata da rendere ancor più difficile affrontare un’emergenza. Lo dimostrano le politiche adottate per contrastare la pandemia così come in campo ambientale, che finiscono per sacrificare una parte della società. Non si tratta più di salute pubblica: le politiche sono asservite a una globalizzazione economica non sostenibile e al profitto delle multinazionali. Nella fase due della gestione dell’emergenza, si è deciso infatti di far ripartire alcune delle attività economiche in modo iniquo: così come, nell’identificazione durante la fase dei settori economici strategici, si antepongono gli interessi della grande industria (come quella automobilistica, dell’edilizia, e così via) anche alla salute pubblica, e si sceglie di non prendere in considerazione l’ipotesi di una ripartenza differenziata tra le regioni sulla base dell’andamento dei contagi.
Tutto questo a discapito delle piccole realtà imprenditoriali e delle categorie ritenute meno importanti, come il settore green.

Nella ripartenza, c’è invece bisogno di un cambiamento radicale: affinché la pandemia resti un cigno nero, dobbiamo affrontare le debolezze strutturali del nostro sistema. Come scriveva nel 2015 Naomi Klein in “Una rivoluzione ci salverà” rispetto alla crisi climatica, “avendo sprecato decenni a negare collettivamente il problema, oggi non abbiamo più a disposizione opzioni graduali, incrementali […] Di fronte a un’emergenza senza precedenti, la società non ha altra scelta se non quella di prendere una drastica iniziativa per evitare il collasso della civiltà. O cambieremo i nostri stili di vita costruendo un tipo del tutto nuovo di società globale, oppure sarà il mondo a cambiarli per noi”.

 

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