Clima: niente Feria per chi protesta

L’immagine che più ci è rimasta impressa per raccontare la giornata di ieri, 11 dicembre, è quella di un poliziotto che, davanti alla stanza in cui si svolgono i negoziati, tenta con le buone di placare la protesta di duecento fra attivisti e rappresentanti delle popolazioni indigene impegnati in cori e slogan contro i governi all’interno.

La storia non finisce bene: i manifestanti sono stati privati dei badge e cacciati dalla Feria de Madrid, dove si svolge la COP 25. Non potranno più rientrare, nemmeno nei prossimi giorni, ma il gesto – hanno detto – era giustificato: “Non abbiamo avuto altra scelta che violare le regole della diplomazia internazionale e disturbare i negoziati”, ha spiegato Daira Tukano dell’omonima popolazione che vive nel nordest del Brasile. Anche fuori dal complesso, i dimostranti hanno continuato a cantare una canzone che recita: “Chiediamo al Nord del mondo / di ascoltare le nostre voci / No a false soluzioni / e no al mercato delle emissioni!”

Richieste simili, con toni differenti, sono state avanzate in mattinata da giovani e organizzazioni ambientaliste sul palco della gigantesca Room Baker, teatro dei negoziati fra i paesi della Convenzione ONU sul cambiamento climatico (UNFCCC). Nella sessione dedicata a governi e ONG concordi nell’aumentare il livello degli impegni globali per la riduzione delle emissioni, infatti, sono intervenute fra gli altri Greta Thunberg – fresca di copertina del Time – e Jennifer Morgan, direttrice di Greenpeace International. “Non avevo mai visto un tale divario tra ciò che accade all’interno di queste mura e all’esterno, è un divario enorme”, ha detto la storica ambientalista, chiedendo ai leader globali di “smettere di sentire le imprese e di ascoltare invece i bambini di tutto il mondo”.

“Ogni grande cambiamento storico è venuto dal popolo”, ha detto Greta, in un discorso di 11 minuti in cui ha fornito molti numeri e dati. “Fra tre settimane entreremo in un nuovo decennio, un decennio che definirà il nostro futuro. In questo momento siamo alla disperata ricerca di qualche segno di speranza, e io dico che la speranza c’è. L’ho vista, ma non proviene da governi o imprese, proviene dal popolo”.

La passerella dei governi e l’approvazione del decreto clima in Italia

Questi momenti di attivismo e di protesta hanno allargato la frattura fra governi e società civile sui temi del clima. Una frattura resa ancor più evidente dalla passerella stucchevole che li ha inframmezzati: ministri di decine di Paesi hanno salito le scalette che portano al palco per magnificare gli sforzi dei loro governi e concludere con appelli alla buona volontà di tutti. Fra questi, oggi è intervenuto anche Sergio Costa, Ministro italiano dell’Ambiente, che ha rivendicato il Decreto clima approvato ieri alla Camera in via definitiva. Lo ha definito “uno dei primi al mondo”, che testimonierebbe l’impegno del governo sul tema insieme alla proposta del Ministro dell’Istruzione – Lorenzo Fioramonti – di introdurre lo studio dei cambiamenti climatici e dello sviluppo sostenibile nelle scuole.

Tuttavia, fra le pieghe del Decreto clima si fatica a trovare misure che aiuteranno realmente il Paese nella transizione ecologica. Quella più significativa – il taglio ai sussidi ambientalmente dannosi (SAD) – è stata rimossa e rinviata alla legge di bilancio.

La prima versione del provvedimento, invece, prevedeva l’eliminazione totale di questi aiuti (pari a circa 19 miliardi nel 2017) entro il 2040, partendo dal 2020 con tagli di almeno il 10% l’anno. Fra le note positive del testo c’è l’istituzione del portale che dovrebbe facilitare l’accesso dei cittadini ai dati ambientali, 255 milioni di incentivi sulla mobilità sostenibile e finanziamenti per la riforestazione urbana e l’economia circolare. Infine, contributi a fondo perduto (per un massimo di 5 mila euro) agli esercizi commerciali che venderanno prodotti sfusi o alla spina. Tutte misure di piccolo cabotaggio, mentre non si vede neppure l’ombra di un cambio di modello energetico e produttivo.

Del resto, il “cambio di paradigma” invocato da tanti relatori sul palco della COP non trova riscontro in nessun passaggio dei documenti negoziali consegnati dai tecnici alla politica all’inizio di questa settimana. Brasile, Australia e Arabia Saudita ancora bloccano i tentativi di raggiungere un accordo sulle regole alla base dei mercati del carbonio, la Cina è riuscita a far rimandare al 2020 l’approvazione di un sistema trasparente per il conteggio delle emissioni e gli Stati Uniti rifiutano di essere considerati fra i responsabili della crisi climatica, fatto che li costringerebbe a versare aiuti finanziari ai paesi più impattati.

Inoltre, ancora una volta, come già successo a Katowice durante la COP 24, c’è forte disaccordo sulla terminologia da utilizzare per recepire le ultime evidenze scientifiche e in particolare i due Rapporti Speciali pubblicati quest’anno dall’IPCC sulle conseguenze dei cambiamenti climatici sui Territori e sull’Oceano e la Criosfera, che nella bozza di Conclusioni proposta vengono semplicemente “noted”, registrati.

Il Green (Brown) Deal dell’Unione Europea

Con l’avanzamento a rilento dei negoziati, aumenta la pressione sull’Unione Europea da parte della società civile ma anche del settore economico e finanziario – con toni più accomodanti – per prendere in mano il dibattito e lanciare un forte segnale di leadership. E proprio oggi la presidente della Commissione Europea ha presentato al Parlamento la proposta del Green Deal, che domani andrà all’esame del Consiglio Europeo per l’approvazione definitiva. “Dobbiamo essere ambiziosi per quanto possibile, ma anche realistici quando necessario”, ha detto Ursula Von Der Leyen introducendo le misure del nuovo piano per il clima a un’Eurocamera che appena due settimane fa aveva dichiarato l’emergenza climatica.

Eppure, ancora una volta, la prudenza e il realismo, o piuttosto la realpolitik, sembrano avere avuto la meglio rispetto alle richieste pressanti della società civile di politiche coraggiose per contrastare i cambiamenti climatici. La punta di diamante del nuovo Piano è infatti il raggiungimento della neutralità delle emissioni di gas serra nel 2050: tante ne manderemo in atmosfera, tante ne dovremo rimuovere attraverso mari, foreste, terreni e tecnologie che, nelle parole di Greta, “non esistono e forse non esisteranno mai”.

Se è vero che nel Rapporto Speciale pubblicato dall’IPCC (il Gruppo Intergovernativo delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici) a ottobre 2018 – al quale il Piano dovrebbe rispondere -, si chiede che le emissioni globali raggiungano la neutralità nel 2050, è anche vero che l’Europa dovrebbe tener conto delle proprie responsabilità storiche nel determinare la crisi climatica. Inoltre, date le maggiori capacità economiche e tecnologiche, l’obiettivo a cui dovrebbe mirare è notevolmente più ambizioso. Climate Action Network Europe, in un comunicato dello scorso settembre, chiedeva che la neutralità delle emissioni fosse raggiunta già nel 2040, e che già nel 2030 questo fossero ridotte del 65% rispetto al 1990. Il tutto basato su solide prove scientifiche.

E invece, l’Unione Europea continua a rimandare la decisione sull’obiettivo da adottare nel 2030, rinviando ancora una volta l’addio ai fossili. Von Der Leyen ha annunciato oggi infatti che bisognerà aspettare fino alla prossima estate prima che la Commissione predisponga uno studio di prospettiva sui due possibili nuovi target di riduzione delle emissioni al 2030, ovvero del -50% o -55% rispetto al 1990. Questo ritarderebbe ulteriormente la decisione finale del Consiglio sul percorso da adottare, che in qualsiasi caso ancora una volta sarebbe troppo poco ambizioso rispetto alle evidenze scientifiche.

Come ha detto Marie Toussaint, parlamentare dei Verdi/EFA nonché fondatrice di Notre Affaire à Tous – ONG francese che ha promosso la campagna L’affaire du siècle e il ricorso per vie legali contro le politiche climatiche francesi considerate non abbastanza ambiziose -, questo Piano sarebbe stato fantastico dieci anni fa, ma adesso non è abbastanza. C’è bisogno di misure più stringenti e di controllo sull’operato degli Stati Membri affinché rispettino i propri impegni, e di un patto che sia allo stesso tempo ambientale e sociale.

Nei giorni in cui nei corridoi della Feria de Madrid i negoziati languono, in cui chi alza la voce per difendere i propri diritti viene allontanato dai luoghi di decisione, in cui l’OPEC continua a fare leva sulla povertà energetica per promuovere il petrolio “come parte della soluzione al cambiamento climatico”, mentre le voci delle organizzazioni osservatrici e portatrici delle istanze ambientaliste, femministe, dei popoli indigeni, degli agricoltori e dei lavoratori cadono nel vuoto di una sala deserta, anche l’Unione Europea rispedisce al mittente la richiesta di giustizia climatica e sociale, voltando le spalle a giovani e meno giovani che continuano a occupare strade e piazze. Ma la protesta non si fermerà qui.

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